Legge truffa quella del 1953?
Giudicate voi leggendo l’articolo del link e considerando che Bersani col 29,54% ottiene alla Camera 340 seggi e Berlusconi col 29,18%, 124 (su630)
Legge truffa quella del 1953?
Giudicate voi leggendo l’articolo del link e considerando che Bersani col 29,54% ottiene alla Camera 340 seggi e Berlusconi col 29,18%, 124 (su630)
Carissimi schiavi e fieri di esserlo “non possiamo pretendere che le cose cambino, se facciamo sempre le stesse cose“[cit. Albert Einstein].
Un patto per l’austerità perpetua
La ratifica del Trattato di stabilità fiscale condurrà a una forma di austerità perpetua e a un restringimento mortale della democrazia in Europa. Proponiamo da MicroMega online un capitolo da “Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa” a cura di B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak (gli autori del “Manifesto degli economisti sgomenti“) , in questi giorni in libreria per Minimum Fax.
Intese come artefici di ogni cambiamento lo si trova, negli ultimi decenni dell’800 in Sorel.
Nel frattempo, come dice Diego Fusaro, estensore della scheda :” si può parlare all’infinito di rivolte senza mai provocare un movimento rivoluzionario”.
Il che significa che fedi e miti sono duri a morire, anche perché non costano nulla: si possiedono (anche se sarebbe meglio dire che ne siamo posseduti).
Tutto questo per dire che l’italiano preferisce addurre l’alibi di essere istintivo e creativo, piuttosto che avere la pazienza di studiare un problema andando a verificare le fonti.
Da qui la fortuna dei blog dove ciascuno esprime la sua opinione (in nome della libertà) senza uno straccio di pezze d’appoggio.
In conclusione, prima di votare (per poi lamentarvi), almeno leggete i programmi di TUTTI gli schieramenti che si presentano nella vostra circoscrizione!
di Alberto Bagnai
Con l’avvicinarsi dell’inevitabile epilogo, quello che la Storia ci racconta, il dibattito sull’euro assume toni sempre più concitati.
Il crescente nervosismo è comprensibile.
Da circa un trentennio l’Italia è governata dal partito unico del vincolo esterno: prima sotto forma di Sme, oggi, sotto forma di PUDE (Partito Unico Dell’Euro). I personaggi sono sempre quelli, e da trent’anni sono dietro, sotto, sopra, o dentro al governo. L’informazione, che è un bene costoso, è stata comprata da chi aveva i soldi per farlo: gli azionisti di maggioranza di questo partito unico, le grosse lobby finanziarie che dominano le scelte di Bruxelles. Ne è risultata una plumbea uniformità: nessuna voce di dissenso aveva finora raggiunto i media, eccezion fatta per alcune strampalate organizzazioni, o movimenti, o iniziative, meritatamente prive di credibilità agli occhi degli elettori, e visibilmente strutturali a un disegno reazionario di canalizzazione del dissenso (come il nostro caro amico Donald).
Ma ora la situazione è cambiata.
Per motivi vari e complessi, che vanno dal desiderio di alcuni politici e organi di informazione di predisporre un piano B onde evitare il totale discredito e assicurarsi la sopravvivenza (vedi Fassina), alla pressione che iniziative indipendenti e credibili hanno saputo promuovere presso i media tradizionali, capita che ogni tanto si riesca a sentire una voce seria e argomentata di dissenso, come quella di Claudio Borghi Aquilini. Per l’Italia questa è una grande novità. Non lo è, va da sé, per il resto del mondo, dove il dissenso serenamente motivato ed espresso accede da sempre agli organi di stampa più qualificati. Pensate a Krugman, che non solo nel 2012 sul New York Times, ma già nel 1998 su Fortune, si era espresso in modo critico sulla sostenibilità della moneta unica. Potrei aggiungere Roubini, Wolf, ecc.
Del resto, è evidente che i giornali espressione della comunità finanziaria internazionale, quelli letti da persone che ogni giorno devono prendere decisioni importanti, siano di qualità diversa rispetto ai nostri organi di stampa provinciali, gestiti vuoi da furbastri il cui unico scopo è quello di condizionare dei poveri di spirito (come Repubblica), vuoi da quattro gatti spelacchiati, che hanno venduto la propria credibilità per un piatto di lenticchie (come il Manifesto).
Prima, in Italia, certe informazioni si potevano avere solo accedendo a Internet e sapendo almeno l’inglese. Il digital divide era la miglior garanzia di sopravvivenza per il regime eurista, che infatti si è ben guardato dal prendere iniziative che potessero colmarlo. Ora queste informazioni stanno arrivando ai media tradizionali.
Del resto, avendo il monopolio dell’informazione, il PUDE giocava facile. Le menti migliori poteva tenerle nelle retrovie, a prendere le decisioni importanti, e in prima linea, sui media, poteva tranquillamente inviare una composita armata Brancaleone di ragionieri, opinionisti, giornalisti dalle giacche fantasiose, ex politici, ex manager, ex sindacalisti, ex qualsiasi cosa. Tanto bastava far presenza, non c’era bisogno di argomentare se non esponendo i due o tre paralogismi ad usum piddini: il teorema del cinghiale (per una grande area ci vuole una moneta grande), quello del pulcino (la nostra liretta verrebbe attaccata dai mercati), e quello di Morfeo (l’euro incarna il Fonno, pardon, il Fogno europeo).
Con questa amena silloge di stronzate una ciurma di venduti, di cialtroni, di disinformatori dilettanti ha potuto tenere in pugno un’intera nazione.
Ma ora è finita.
I dati cominciano a circolare, i cittadini desiderano averli (il successo di questo blog lo prova) e cominciano ad avere strumenti di valutazione, le trasmissioni che si arrischiano ad aprire una finestra sul web (gruppo Facebook, Twitter), vengono travolte dagli insulti quando perseverano sulla strada della disinformazione terroristica spicciola, e quelle che invece fanno scelte coraggiose vengono premiate dagli ascolti.
Il vento è cambiato, e, come si dice a Roma, non si può fermare il vento con le mani.
l paese africano del Mali è improvvisamente assurto all’onore delle cronache quando, l’11 gennaio scorso, la Francia ha deciso di lanciarvi una campagna militare a sostegno del governo di Bamako contro i ribelli islamisti del Nord. Parigi ha incassato il sostegno morale dei quattordici membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e ora sta raccogliendo anche quello pratico d’alcuni Stati africani e della NATO. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata e quello della Difesa ammiraglio Giampaolo di Paola hanno annunciato che pure l’Italia darà il suo contributo, per ora sotto forma di «sostegno logistico» alle operazioni francesi.
Dal Blog di Carlo Bertani riproduciamo e condividiamo:
Guardate bene questa foto: chi ritrae? No, non è un contadino kirghizo e nemmeno un meccanico ecuadoriano: è il Presidente della Repubblica dell’Uruguay e la foto non è datata – ossia quando ancora era un signor nessuno – bensì è recente. Vale a dire quando già era il Presidente José Alberto Mujica Cordano – questo è il suo nome – che è quasi sconosciuto in Europa: vedremo il perché.
(1) Leggi: http://www.linkiesta.it/presidente-uruguay-guadagna-800-euro-al-mese
http://carlobertani.blogspot.com/2013/02/bienvenido-presidente.html
Fra qualche centinaio d’anni gli storici, se ci saranno ancora, s’interrogheranno sulle cause che hanno spinto l’Occidente ad abbandonare qualunque attività economica in grado di produrre qualcosa per darsi al gioco d’azzardo. Forse ci sarà bisogno anche di qualche specialista per analizzare la follia collettiva che spinge ad ignorare il catastrofico fallimento di un modello che doveva portare inimmaginabili ricchezza al pianeta e che invece lo sta precipitando nella carestia globale. E se le rivolte del pane non sono il segnale del fallimento di un sistema economico, allora cosa lo è?
Non è così per giornalisti, analisti e sacerdoti della globalizzazione che, non solo rispondono alla crisi alimentare con il business as usual, ma vedono profilarsi all’orizzonte l’ennesima occasione di profitto per quel capitalismo dei disastri così ben descritto da Naomi Klein. Già si riscaldano i motori del circo mediatico che accompagnerà l’ennesimo Live Aid – manna per le major dell’intrattenimento – cui seguiranno gli ennesimi stanziamenti di aiuti d’emergenza a base di semi più o meno geneticamente modificati ma comunque sempre ad alto impatto ambientale che finalmente apriranno alle corporation anche i mercati più poveri. Del resto è ben noto l’effetto devastante degli aiuti alimentari se non vengono impiegati per motivi strettamente emergenziali: nel peggiore dei casi provocano la creazione di un mercato parallelo basato sul contrabbando delle donazioni, nel migliore centinaia di migliaia di contadini rovinati dall’arrivo dei prodotti alimentari gratuiti si metteranno nel giro di qualche mese a fare la fila per un pasto, invece di guadagnarlo dignitosamente con il proprio lavoro.
Quello che bisognerebbe fare – non fra un mese o fra una settimana ma domani – è bloccare immediatamente “le azioni” delle materie prime alimentari (i cosiddetti future) per eccesso di rialzo, perché ciò che sta succedendo è proprio questo: i capitali speculativi in fuga dai mutui americani si sono riversati sulle materie prime alimentari per continuare indisturbati il loro gioco speculativo, un gioco che, grazie ai teorici del mercato globale, ha finito per colpire i consumatori più poveri senza beneficiare i produttori. Ai quali, da più di dieci anni, viene promesso che l’effetto perverso dell’entrata nel mercato globale – ovvero il crollo dei prezzi determinato dalla competizione al ribasso – sarebbe stato di breve durata e che i prezzi sarebbero risaliti. Peccato che, quando ciò accade, non c’è più nessuno che possa goderne i frutti a parte le grandi corporation della distribuzione, come da anni segnalano i sindacati contadini e le organizzazioni agricole del pianeta. Perché tutte – ma proprio tutte – le misure imposte dai fautori della globalizzazione si sono rivelate sbagliate: l’abbandono delle coltivazioni di sussistenza e dei prodotti tradizionali che affiancavano quelli importati nei mercati locali; la rinuncia a ogni strumento di controllo dei prezzi o almeno delle scorte alimentari che tradizionalmente vengono messe da parte per affrontare le annate cattive e che invece sono state allegramente messe sul mercato; la rinuncia alle entrate determinate dalle tariffe doganali che sono state ridotte o eliminate per aprire i mercati; la scelta di destinare grandi piantagioni al nutrimento degli animali per fornire al Nord del mondo la dieta a base di carne che uccide i cittadini occidentali; l’adozione acritica di un modello agricolo fondato sullo sfruttamento intensivo che lascia i terreni impoveriti e i contadini indebitati – per comprare pesticidi e fertilizzanti che, anno dopo anno, funzionano sempre meno. Se a tutto ciò si aggiunge la crisi climatica e la perdita di terreni agricoli dovuta alla desertificazione, ecco che il quadro si fa completo.
Che questo modello fosse in crisi lo segnalavano in parecchi. Molti meno sono stati quelli che non hanno abboccato alla trappola dei biocombustibili o che si sono posti il problema del picco petrolifero. Chi scrive è fra quei pochi eppure, pur conoscendo i rischi di sottovalutare il problema dell’esaurimento del petrolio o la pazzia di destinare terra agricola per fabbricare un suo sostituto, sono convinta che la causa della crisi alimentare non è l’aumento del costo dei trasporti e nemmeno la distruzione delle foreste tropicali – che per fare olio combustibile ha provocato un boom delle emissioni di gas serra. Troppo rapido, questo aumento dei prezzi, e totalmente scollegato dai ritmi dei raccolti e delle semine. Come ha scritto Roberto Capezzoli sul Sole 24 ore di qualche giorno fa: «Il flusso di denaro che proviene dagli hedge fund è tale da sommergere e alterare, per periodi più o meno lunghi, le tendenze tradizionalmente legate al clima, alle dimensioni dei raccolti e alla propensione al consumo». E’ infatti la speculazione alla borsa di Chicago, quella dove si scambiano i future sul riso, che ieri ha fatto schizzare il prezzo a 22,17 dollari per 100 libbre appena l’Indonesia ha annunciato che avrebbe sospeso le esportazioni. Ed è sempre la borsa di Chicago che proietta alle stelle il prezzo del grano dopo un analogo annuncio proveniente da Kazakhstan, Russia, Ucraina e Argentina, paesi che, da soli, coprono un terzo del mercato globale. E’ noto infatti che la fuga verso il protezionismo spaventa i mercati molto più della fame.
Ma se davvero si vuole salvare la faccia alla globalizzazione bisogna almeno mostrare che i furbetti di Chicago hanno per il cibo lo stesso rispetto che hanno per le società quotate in borsa, interrompendo subito le contrattazioni su questi titoli, quando ancora il settore non è così compromesso con la speculazione finanziaria come quello petrolifero. Solo così si possono convincere i paesi produttori a non barricarsi dietro le proprie frontiere e solo così si può prendere tempo per ripensare un modello agricolo che era già fallimentare prima di venire aggredito dal gioco d’azzardo. Al contrario, oltre al busines as usual, si assiste a una speculazione sulla speculazione: la crisi alimentare viene usata proprio per abbattere gli ultimi ostacoli che si opponevano all’avanzata della globalizzazione.
Come definire altrimenti l’annuncio reso ieri al Financial Times da una grande compagnia alimentare giapponese, la Nihon Shokuhin Kako, che confessava di essere stata costretta a comperare mais geneticamente modificato? Il fronte anti-ogm, fortissimo in Giappone, rischia di franare sotto il peso dei prezzi esattamente come rischiano di venire spazzati via tutti i discorsi sull’agricoltura sostenibile. Come leggere altrimenti le dichiarazioni del direttore generale della Fao su di una grande iniziativa per la prossima semina africana? Djouf propone una distribuzione massiccia di fertilizzante e di semi ai piccoli produttori per rilanciare lo sviluppo approfittando dei prezzi alti ma, così facendo, dà un colpo di spugna a tutti i discorsi sulla riduzione dell’impatto della chimica e sull’importanza del sistema tradizionale di selezione e scambio dei semi. Per non parlare poi delle riflessioni sull’importanza dei piccoli agricoltori sganciati dal mercato internazionale che, in un continente come l’Africa, sono ancora quelli che nutrono la maggior parte della popolazione. Inondare alcune zone di prodotti chimici e di semi ad alta resa – su cui pagare le royalties – non sembra il modo migliore per garantire la sicurezza alimentare dei poveri urbanizzati, ma è di sicuro il modo per cancellare definitivamente dai mercati locali i contadini rurali.
Sabina Morandi
Fonte: http://www.liberazione.it
17.04.08
Vi prego di guardare la data del post e di considerare se qualche candidato presente in una qualsiasi lista abbia tenuto conto nel suo programma di queste indicazioni.
di Pierre Bourdieu*
Da un lato, una situazione economica e sociale inedita. Dall’altro, un dibattito pubblico mutilato, ridotto all’alternativa tra austerità di destra e rigore di sinistra. Come si definisce lo spazio dei discorsi ufficiali, per quale prodigio l’opinione di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? È ciò che spiega il sociologo Pierre Bourdieu in questo corso sullo Stato tenuto nel 1990 al Collège de France e pubblicato questo mese. (Le Monde Diplomatique)
Penso che la definizione esplicita in una società che si pretende democratica, e cioè che l’opinione ufficiale è l’opinione di tutti, nasconda una definizione latente, e cioè che l’opinione pubblica è l’opinione di quelli che sono degni di avere un’opinione. C’è una sorta di definizione censuaria dell’opinione pubblica come opinione illuminata, opinione degna di questo nome. La logica delle commissioni ufficiali è quella di creare un gruppo in grado di dare tutti i segnali esterni, socialmente riconosciuti e riconoscibili, della sua capacità di esprimere l’opinione degna di essere espressa, e nelle forme convenienti.
Uno dei criteri taciti più importanti nella selezione dei membri della commissione, in particolare del suo presidente, è l’intuizione, da parte di chi è incaricato della composizione della commissione, che la persona in questione conosca le regole tacite dell’universo burocratico e le riconosca: in altre parole, qualcuno che sappia giocare il gioco della commissione in maniera appropriata, quella che va oltre le regole del gioco, che lo legittima; non si è mai così tanto nel gioco come quando si va oltre.
In ogni gioco, ci sono regole e fair-play. A proposito dell’uomo cabilo §, o del mondo intellettuale, avevo utilizzato questa formula: l’eccellenza, nella maggior parte delle società, è l’arte di giocare con la regola del gioco, facendo di questo gioco con la regola del gioco un omaggio supremo al gioco. Il trasgressore controllato è la vera antitesi dell’eretico. Il gruppo dominante coopta i suoi membri su indizi minimi di comportamento, che sono l’arte di rispettare la regola del gioco fin nelle trasgressioni regolate della regola del gioco: la buona creanza, il contegno. È la celebre frase di Chamfort: «Il grande vicario può sorridere a una battuta contro la religione, il vescovo può riderne apertamente, il cardinale metterci del suo (1).»Più si sale nella gerarchia delle eccellenze, più si può giocare con la regola del gioco, ma ex officio, a partire da una posizione che sia tale da eliminare ogni dubbio. L’humour anticlericale di un cardinale è squisitamente clericale.
L’opinione pubblica è sempre una specie di realtà doppia. È quella cosa che non si può non invocare quando si vuole legiferare in campi non organizzati. Quando si dice «C’è un vuoto giuridico» (espressione straordinaria), a proposito dell’eutanasia o dei bimbi-provetta, si convocano delle persone, che si metteranno a lavorare con tutta la loro autorità. Dominique Memmi (2) descrive un comitato di etica [sulla procreazione artificiale], la sua composizione con gente disparata – psicologi, sociologi, donne, femministe, arcivescovi, rabbini, scienziati, ecc. – che hanno il compito di trasformare una somma di idioletti (3) etici in un discorso universale che colmerà un vuoto giuridico, cioè darà una soluzione ufficiale a un problema difficile che turba la società – legalizzare le madri portatrici, ad esempio. Se si lavora in questo genere di situazione, si deve invocare un’opinione pubblica.
In questo contesto, si capisce molto bene la funzione affidata ai sondaggi. Dire «i sondaggi sono con noi», è come dire «Dio è con noi» in un altro contesto. Ma la storia dei sondaggi è seccante, perché a volte l’opinione illuminata è contro la pena di morte, mentre i sondaggi sono piuttosto a favore. Che fare? Si fa una commissione. La commissione costituisce un’opinione pubblica illuminata che tradurrà l’opinione illuminata in opinione legittima in nome dell’opinione pubblica – che magari dice il contrario o non pensa proprio niente (come succede su molti argomenti). Una delle proprietà dei sondaggi consiste nel porre alla gente problemi che non si pone, nel suggerire risposte a problemi che non si è posta, quindi nell’imporre risposte. Non è questione di cercare vie traverse nella costituzione dei campioni, è il fatto di imporre a tutti problemi che sono sentiti dall’opinione illuminata e, per questa via, di proporre risposte generali a problemi sentiti solo da alcuni, quindi di dare risposte illuminate in quanto le si è generate con la domanda: si è dato vita a problemi che per la gente non esistevano, mentre la domanda era quale fosse il loro problema.
Vi tradurrò un testo di Alexander Mackinnon del 1828, tratto da un libro di Peel su Herbert Spencer (4). Mackinnon definisce l’opinione pubblica, ne dà la definizione che sarebbe ufficiale se non fosse inconfessabile in una società democratica. Quando si parla di opinione pubblica, si gioca sempre un doppio gioco tra la definizione confessabile (l’opinione di tutti) e l’opinione autorizzata ed efficiente che è ottenuta come sotto-insieme ristretto dell’opinione pubblica democraticamente definita: «È l’opinione, a proposito di un qualsivoglia argomento di cui si parli, espressa dalle persone più informate, più intelligenti e più morali della comunità. Essa viene gradualmente diffusa e adottata da tutte le persone dotate di una certa istruzione e di un sentire adeguato a uno Stato civilizzato». La verità dei dominanti diventa quella di tutti. Mettere in scena l’autorità che autorizza a parlare.
Negli anni 1880, si diceva apertamente all’Assemblea nazionale ciò che la sociologia ha dovuto riscoprire, e cioè che il sistema scolastico doveva espellere i figli delle classi più sfavorite. All’inizio si poneva la questione, che poi si è del tutto risolta in quanto il sistema scolastico si è messo a fare, senza esplicita richiesta, ciò che ci si aspettava da lui. Quindi, nessun bisogno di parlarne. L’interesse del ritorno sulla genesi è molto importante perché, nella fase iniziale, si rintracciano dibattiti in cui vengono espresse a chiare lettere cose che, in seguito, possono sembrare provocazioni dei sociologi.
Il riproduttore dell’autorità sa produrre – nel senso etimologico del termine: producere significa «portare alla luce» –, teatralizzandolo, qualcosa che non esiste (nel senso di sensibile, di visibile), e nel nome del quale parla. Deve produrre ciò in nome di cui ha il diritto di produrre. Non può non teatralizzare, non dare forma, non fare miracoli. Il miracolo più comune, per un creatore verbale, è il miracolo verbale, il successo retorico; deve produrre la messinscena di ciò che autorizza il suo dire, in altre parole dell’autorità in nome della quale è autorizzato a parlare. Ritrovo la definizione della prosopopea che cercavo prima: «Figura retorica attraverso la quale si fa parlare e agire una persona che viene evocata, un assente, un morto, un animale, una cosa personificata». E nel dizionario, che è sempre uno strumento formidabile, si trova questa frase di Baudelaire a proposito della poesia: «Maneggiare sapientemente una lingua, vuol dire praticare una specie di stregoneria evocatrice».
I chierici, quelli che manipolano una lingua sapiente come i giuristi e i poeti, devono mettere in scena il referente immaginario in nome del quale parlano e che parlando producono nelle forme; devono fare esistere quello che esprimono e ciò in nome di cui si esprimono. Devono insieme produrre un discorso e produrre la fiducia nell’universalità del loro discorso attraverso la produzione sensibile (nel senso di evocazione degli spiriti, dei fantasmi – lo Stato è un fantasma…) di questa cosa che sarà garante di ciò che fanno: «la nazione», «i lavoratori», «il popolo», «il segreto di Stato», «la sicurezza nazionale», «la domanda sociale», ecc. Percy Schramm ha mostrato come le cerimonie di consacrazione fossero il transfert, nell’ordine politico, delle cerimonie religiose (5). Se il cerimoniale religioso può trasferirsi così facilmente nelle cerimonie politiche, attraverso le cerimonie della consacrazione, è perché si tratta, nei due casi, di far credere che c’è un fondamento al discorso, il quale appare autofondante, legittimo, universale solo in quanto c’è la teatralizzazione – nel senso di evocazione magica, di stregoneria – del gruppo unito e consenziente al discorso che lo unisce. Da cui il cerimoniale giuridico.
Lo storico inglese E. P. Thompson ha insistito sul ruolo della teatralizzazione giuridica nel XVIII secolo inglese – le parrucche, ecc. –, che non si può comprendere completamente se non si vede che non si tratta di un semplice apparato, nel senso di Pascal, che verrebbe ad aggiungersi: è parte costitutiva dell’atto giuridico (6). Parlare forense in giacca e cravatta è rischioso: si rischia di perdere lo sfarzo del discorso. Si parla sempre di riformare il linguaggio giuridico senza mai farlo, perché è l’ultimo indumento: i re nudi non sono più carismatici. Ufficialità, o malafede collettiva.
Una delle dimensioni molto importanti della teatralizzazione è la teatralizzazione dell’interesse per l’interesse generale; è la teatralizzazione della convinzione dell’interesse per l’universale, del disinteresse dell’uomo politico – teatralizzazione della fede del prete, della convinzione dell’uomo politico, della sua fiducia in ciò che fa. Se la teatralizzazione della convinzione fa parte delle condizioni tacite dell’esercizio della professione di chierico – se un professore di filosofia deve aver l’aria di credere alla filosofia –, è perché è l’omaggio fondamentale del personaggio ufficiale all’autorità; è ciò che bisogna concedere all’autorità per essere un’autorità: bisogna concedere il disinteresse, la fiducia nell’autorità, per essere un vero personaggio ufficiale. Il disinteresse non è una virtù secondaria: è la virtù politica di tutti i mandatari. Le scappatelle dei preti, gli scandali politici sono il crollo di questa specie di fede politica nella quale tutti sono in malafede, la fede essendo una sorta di malafede collettiva, in senso sartriano: un gioco nel quale tutti mentono a se stessi e agli altri sapendo che anche quelli mentono a se stessi. È questa l’autorità…
note:
* Sociologo (1930-2002). Testo estratto da Sur l’Etat. Cours au Collège de France 1989-1992, Raisons d’Agir-Seuil, Parigi, 2012, in uscita il 5 gennaio.
(1) Nicolas de Chamfort, Maximes et pensées, Parigi, 1795.
(2) Dominique Memmi, «Savants et maîtres à penser. La fabrication d’une morale de la procréation artificielle», Actes de la recherche en sciences sociales, n° 76-77, Parigi, 1989, p. 82-103.
(3) Dal greco idios, «particolare»: discorso particolare.
(4) John David Yeadon Peel, Herbert Spencer. The Evolution of a Sociologist, Heinemann, Londra, 1971. William Alexander Mackinnon (1789-1870) ebbe una lunga carriera come membro del Parlamento britannico.
(5) Percy Ernst Schramm, Der König von Frankreich. Das Wesen der Monarchie von 9 zum 16. Jahrhundert. Ein Kapital aus der Geschichte des abendländischen Staates (due volumi), H. Böhlaus Nachfolger, Weimar, 1939.
(6) Edward Palmer Thompson, «Patrician society, plebeian culture», Journal of Social History, vol. 7, n° 4, Berkeley (California),1974, p. 382-405. (Traduzione di G. P.)
§ cabilo = dialetto berbero ?
Vorrei iniziare il mese di febbraio con una breve nota (meno male, dirà qualcuno) sull’Università. I liberisti alla Zingales & soci amano raccontarci la fiaba delle Università americane come modello da imitare. Ci vengono a raccontare sciocchezzai a proposito di come da quelle parti l’Università funzioni. Non sto dicendo che l’Università americana non funzioni, sto dicendo che funziona benissimo per una classe di abbienti e, come tale, perpetua al 90% la stessa classe dirigente che può permettersela.
Dunque per farvi capire bene di che livello è la fuffa liberista vi copio incollo il punto del “manifesto” di “Fermare il declino” a proposito dell’Università: “Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Non si tratta di spendere di meno, occorre anzi trovare le risorse per spendere di più in educazione e ricerca. Però, prima di aggiungere benzina nel motore di una macchina che non funziona, occorre farla funzionare bene. Questo significa spendere meglio e più efficacemente le risorse già disponibili. Vanno pertanto introdotti cambiamenti sistemici: la concorrenza fra istituzioni scolastiche e la selezione meritocratica di docenti e studenti devono trasformarsi nelle linee guida di un rinnovato sistema educativo.Va abolito il valore legale del titolo di studio”.
Vorrei farvi notare che la “concorrenza tra istituzioni scolastiche” e la “selezione meritocratica” si ottengono creando un sistema nel quale – esattamente come nelle Università americane – ogni istituzione universitaria si va a comprare sul mercato i docenti. Quell’Università che ha più soldi offre stipendi più alti e si accaparra i docenti ritenuti “migliori”. In questo sistema a seconda dei fondi disponibili le Università diventano di serie A o di Serie B. Ma come fanno le Università americane a rastrellare denaro? La favoletta liberista è che le Università acquistano fondi dalle donazioni di privati e dalla cooperazione con l’industria o lo Stato. Il che è vero ma non così vero come sembrerebbe perché le Università americane – come ovunque – hanno nelle tasse degli studenti (tecnicamente non sono tasse ovviamente, ma il pagamento per frequentare) il loro vero e principale strumento di sussistenza. E siccome gli studenti sono in un sistema liberistico, devono pagare: più è prestigiosa l’Università, più costa. Ho scelto di mostrarvi quanto costa un anno alla Cornell University, prestigiosa ma non la più prestigiosa. La prima colonna riguarda i non residenti nello Stato di New York, la seconda i residenti:
All Students | NY State Resident | Non-NY State Resident | |
Tuition and student activities fee |
$27,273 |
$43,413 |
|
Housing |
$8,112 |
$8,112 |
|
Dining |
$5,566 |
$5,566 |
|
Books and supplies* |
$820 |
$820 |
|
Personal and misc. expenses |
$1,680 |
$1,680 |
|
TOTAL |
$43,451 |
$59,591 |
La cosa che si nota subito è che in questo costo è conteggiato il vitto e l’alloggio. Il nostro studente per un anno non mangia e non dorme a casa, perciò se volete proprio essere rigorosissimi non considerate questa una perdita secca: a casa mamma e papà non spenderanno i soldini per sfamare il pargolo. Ma se anche togliete questa somma e vi volete limitare al dato base rimaniamo nella migliore delle ipotesi a più di 27.000 dollari e nella peggiore delle ipotesi a 43.000 dollari l’anno. Ammettiamo che il nostro studente rimanga tre anni (sarebbe meglio quattro, ma va bene tre), la sua famiglia spenderà tra gli 81.000 e i 129.000 dollari. Sì certo dollari non euro. A spanne con un cambio euro/dollaro pari a 1,30 a 1 significa un minimo di 62.000 e un massimo di 99.000 euro. E sto parlando solo della “retta base”. Se vole aggiungere tutto il resto divertitevi.
Questo è il costo del sistema liberista. Ma Zingales, Giannino e tutta la gang liberista ci potrebbe dire: “ci sono sconti ai meno abbienti!”. Vero, alla Cornell ci dicono che: “Families with a total family income of less than $60,000, and total assets of less than $100,000 (including primary home equity), will have no parent contribution“. Il che significa che se guadagnate meno di 46.000 euro all’anno come nucleo familiare, ossia meno di 3846 euro medi al mese e non avete proprietà che superino il valore di circa 77.000 euro. potete mandare gratis il vostro figliolo promettente alla Cornell. A dire il vero del tutto gratis no ma diciamo, come si evince da un esempio sul sito della Cornell, a circa il doppio del costo medio delle università italiane. Va bene direte voi.
Va bene? Non vi illuderete che tutti quelli che hanno i requisiti saranno accettati vero? Si fa una domanda e si spera di essere ammessi. Ignoro ogni anno quanti studenti entrino alla Cornell senza pagare ma, state certi, che non entrano tutti quelli che lo chiedono. Insomma un po’ di meritocrazia, perbacco!
La reale meritocrazia di questo modello universitario sono i soldi. Più siete ricchi più potrete studiare, più potrete studiare più vi si aprirà una carriera. Che il figlio dell’operaio della Ford abbia le stesse possibilità di frequentare l’università del figlio di un operaio italiano, è solo fuffa liberista. Il futuro di un mercato universitario come lo sognano quelli di “Fermare il declino” è questo. E’ stato già notato da un ottimo blogger che ha affrontato questo stesso argomento, che nell’Università di Chicago si spende di più, l’Università dove insegna Zingales.
Questo futuro vi può piacere o non piacere. Il punto non è questo, il punto è che non potete ignorarlo. In altre parole, questo è cosa c’è dietro la vaghezza dei proclami di “Fermare il Declino”. Pensate che l’Università italiana sia riformabile e che debba comunque garantire la massima istruzione possibile? Bene. Il modello di Zingales e sodali, mettetevelo in mente non va nella direzione di assicurare a tutti l’istruzione universitaria. E’ un modello di élite, punto.