Un patto per l’austerità perpetua

Un patto per l’austerità perpetua

La ratifica del Trattato di stabilità fiscale condurrà a una forma di austerità perpetua e a un restringimento mortale della democrazia in Europa. Proponiamo da MicroMega online un capitolo da “Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa” a cura di B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak (gli autori del “Manifesto degli economisti sgomenti“) , in questi giorni in libreria per Minimum Fax.

Il mito delle masse

Intese come artefici di ogni cambiamento lo si trova, negli ultimi decenni dell’800 in Sorel.

Nel frattempo, come dice Diego Fusaro, estensore della scheda :” si può parlare all’infinito di rivolte senza mai provocare un movimento rivoluzionario”.

Il che significa che fedi e miti sono duri a morire, anche perché non costano nulla: si possiedono (anche se sarebbe meglio dire che ne siamo posseduti).

Tutto questo per dire che l’italiano preferisce addurre l’alibi di essere istintivo e creativo, piuttosto che avere la pazienza di studiare un problema andando a verificare le fonti.

Da qui la fortuna dei blog dove ciascuno esprime la sua opinione (in nome della libertà) senza uno straccio di pezze d’appoggio.

In conclusione, prima di votare (per poi lamentarvi), almeno leggete i programmi di TUTTI gli schieramenti che si presentano nella vostra circoscrizione!

http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/speciali/elezioni_politiche_regionali_2013/liste_leader_programmi.html

La prevalenza del declino

di Alberto Bagnai

Con l’avvicinarsi dell’inevitabile epilogo, quello che la Storia ci racconta, il dibattito sull’euro assume toni sempre più concitati.

Il crescente nervosismo è comprensibile.

Da circa un trentennio l’Italia è governata dal partito unico del vincolo esterno: prima sotto forma di Sme, oggi, sotto forma di PUDE (Partito Unico Dell’Euro). I personaggi sono sempre quelli, e da trent’anni sono dietro, sotto, sopra, o dentro al governo. L’informazione, che è un bene costoso, è stata comprata da chi aveva i soldi per farlo: gli azionisti di maggioranza di questo partito unico, le grosse lobby finanziarie che dominano le scelte di Bruxelles. Ne è risultata una plumbea uniformità: nessuna voce di dissenso aveva finora raggiunto i media, eccezion fatta per alcune strampalate organizzazioni, o movimenti, o iniziative, meritatamente prive di credibilità agli occhi degli elettori, e visibilmente strutturali a un disegno reazionario di canalizzazione del dissenso (come il nostro caro amico Donald).

Ma ora la situazione è cambiata.

Per motivi vari e complessi, che vanno dal desiderio di alcuni politici e organi di informazione di predisporre un piano B onde evitare il totale discredito e assicurarsi la sopravvivenza (vedi Fassina), alla pressione che iniziative indipendenti e credibili hanno saputo promuovere presso i media tradizionali, capita che ogni tanto si riesca a sentire una voce seria e argomentata di dissenso, come quella di Claudio Borghi Aquilini. Per l’Italia questa è una grande novità. Non lo è, va da sé, per il resto del mondo, dove il dissenso serenamente motivato ed espresso accede da sempre agli organi di stampa più qualificati. Pensate a Krugman, che non solo nel 2012 sul New York Times, ma già nel 1998 su Fortune, si era espresso in modo critico sulla sostenibilità della moneta unica. Potrei aggiungere Roubini, Wolf, ecc.

Del resto, è evidente che i giornali espressione della comunità finanziaria internazionale, quelli letti da persone che ogni giorno devono prendere decisioni importanti, siano di qualità diversa rispetto ai nostri organi di stampa provinciali, gestiti vuoi da furbastri il cui unico scopo è quello di condizionare dei poveri di spirito (come Repubblica), vuoi da quattro gatti spelacchiati, che hanno venduto la propria credibilità per un piatto di lenticchie (come il Manifesto).

Prima, in Italia, certe informazioni si potevano avere solo accedendo a Internet e sapendo almeno l’inglese. Il digital divide era la miglior garanzia di sopravvivenza per il regime eurista, che infatti si è ben guardato dal prendere iniziative che potessero colmarlo. Ora queste informazioni stanno arrivando ai media tradizionali.

Del resto, avendo il monopolio dell’informazione, il PUDE giocava facile. Le menti migliori poteva tenerle nelle retrovie, a prendere le decisioni importanti, e in prima linea, sui media, poteva tranquillamente inviare una composita armata Brancaleone di ragionieri, opinionisti, giornalisti dalle giacche fantasiose, ex politici, ex manager, ex sindacalisti, ex qualsiasi cosa. Tanto bastava far presenza, non c’era bisogno di argomentare se non esponendo i due o tre paralogismi ad usum piddini: il teorema del cinghiale (per una grande area ci vuole una moneta grande), quello del pulcino (la nostra liretta verrebbe attaccata dai mercati), e quello di Morfeo (l’euro incarna il Fonno, pardon, il Fogno europeo).
Con questa amena silloge di stronzate una ciurma di venduti, di cialtroni, di disinformatori dilettanti ha potuto tenere in pugno un’intera nazione.

Ma ora è finita.

I dati cominciano a circolare, i cittadini desiderano averli (il successo di questo blog lo prova) e cominciano ad avere strumenti di valutazione, le trasmissioni che si arrischiano ad aprire una finestra sul web (gruppo Facebook, Twitter), vengono travolte dagli insulti quando perseverano sulla strada della disinformazione terroristica spicciola, e quelle che invece fanno scelte coraggiose vengono premiate dagli ascolti.
Il vento è cambiato, e, come si dice a Roma, non si può fermare il vento con le mani.

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Geopolitica

Geopolitica

l paese africano del Mali è improvvisamente assurto all’onore delle cronache quando, l’11 gennaio scorso, la Francia ha deciso di lanciarvi una campagna militare a sostegno del governo di Bamako contro i ribelli islamisti del Nord. Parigi ha incassato il sostegno morale dei quattordici membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e ora sta raccogliendo anche quello pratico d’alcuni Stati africani e della NATO. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata e quello della Difesa ammiraglio Giampaolo di Paola hanno annunciato che pure l’Italia darà il suo contributo, per ora sotto forma di «sostegno logistico» alle operazioni francesi.

Riflessioni pre-elettorali

Dal Blog di Carlo Bertani riproduciamo e condividiamo:

Questi soldi, anche se sono pochi, mi devono bastare perché la maggior parte degli uruguaiani vive con molto meno.”
José Alberto Mujica Cordano

Guardate bene questa foto: chi ritrae? No, non è un contadino kirghizo e nemmeno un meccanico ecuadoriano: è il Presidente della Repubblica dell’Uruguay e la foto non è datata – ossia quando ancora era un signor nessuno – bensì è recente. Vale a dire quando già era il Presidente José Alberto Mujica Cordano – questo è il suo nome – che è quasi sconosciuto in Europa: vedremo il perché.

José Alberto Mujica Cordano è un ex tupamaro, come Cristina Fernandez e il defunto marito, ossia faceva parte di un’organizzazione guerrigliera di estrema sinistra: incassa solo 800 euro dei 10.000 che gli spetterebbero dalla carica (“lo stipendio di un bancario”, afferma) e il resto lo devolve ad un fondo per la costruzione e l’ammodernamento delle case dei poveri.
Egli stesso vive in un barrio di periferia – poco di più di una favela – in una fattoria di proprietà della moglie con cavalli, mucche e galline e si sposta con un Maggiolino Volkswagen: per le occasioni ufficiali usa una Chevrolet Corsa, un’utilitaria anch’essa, che resta spesso a dormire nel garage del Palacio Suarez y Reyes, la residenza presidenziale, un’ala del quale è stata aperta ed usata come rifugio per i nullatenenti.
La prerogativa di viaggiare senza scorta non è soltanto dei reali nordici: anche José Mujica viaggia senza scorta – con solo la sua affezionate cagnetta bastarda come “scorta” – e parla con la gente: va dall’ortolano e lo ascolta, incontra qualcuno per strada e lo ascolta, ascolta la gente, il suo popolo, e “riporta”. Questa è democrazia: leggete l’articolo (1), ne vale la pena.
Cristina Fernandez non è così “francescana” – ma è una donna, e le donne si sa…vogliono sempre piacere… – però è una persona che, quando si trattò d’ammodernare la scuola, acquistò 3 milioni di PC portatili (facendo i rapporti con la popolazione italiana, sufficienti per 10 “leve”, ossia praticamente tutta la scuola “coperta”) e li diede gratuitamente ai ragazzi. Profumo, ancora aspettiamo i tablet: te li sei venduti? Erano balle? Siamo abituati.
Chiudiamo l’argomento Cristina Fernandez con un’affermazione che non ammette repliche: sono innamorato di lei perdutamente, perciò chi ne parla male soffrirà la mia lama -)). Mia moglie lo sa e soffre in silenzio: solo non vuol sentir parlare di viaggi in Argentina -)).
Lasciando gli scherzi, queste sono persone normali, che cercano di capire altre persone normali come loro: Cristina Fernandez ha quasi 60 anni ed una vitalità che fa invidia. Le sue tradizionali “nemiche” – ossia le donne della corte inglese – al confronto fanno pietà: il principe di Galles ha una amante/moglie che si sforza di apparire “conforme” alla corte (che non la vuole) ed è così diventata una gallina zeppa di rughe e con quattro peli stopposi al posto dei capelli, peraltro soffocati da copricapi da donna delle pulizie del Queens. La principessa Kate, che non ha nemmeno 30 anni, già sfiorisce con le gonne rigidamente “un dito sotto il ginocchio” e presto ingombrerà la testa con i terribili cappellini di corte.
Poco sopra abbiamo chiuso con un “siamo abituati” che a tutti noi, me compreso, è sembrato del tutto ovvio: non lo è per una mazza di niente!
Hollande guadagna una frazione di Napolitano ed il Quirinale costa di più di Buckingham Palace!
Non sono soltanto la spocchia e le ruberie, le menzogne e l’ignoranza che ammantano la nostra classe politica: sono stupidi come veramente è difficile esserlo. A cercarli fra la popolazione italiana bisogna sceglierli con cura: più sono stupidi, più li acchiappano e ce li fanno votare col Porcellum.
Il “merito”…fa quasi sorridere…meriterebbero solo un posto da passacarte d’infima categoria e stanno imbastendo la campagna elettorale più surreale della storia, mentre la popolazione se ne frega e li voterà solo per tornaconto personale. E la gente è più furba di quel che si pensi: Berlusconi toglie l’IMU? Bene! Dove li va a prendere i soldi?
Taglierà 80 miliardi dal settore pubblico: dimenticatevi sanità, scuola e giustizia, e nemmeno così potrà farcela. Allora ci ripensano, ed il PdL non va oltre una certa cifra.
Dall’altra parte si coprono di ridicolo ogni giorno che passa ed ogni volta che blaterano: Monti che parla di abbattere “i legami fra banche e mondo politico” ma…ma…deve “abbattere” se stesso?
Bersani non parla nemmeno più: ecco, taci che è meglio, perché dopo aver ascoltato il “pettinare le bambole” non desideriamo altro, grazie.
In un Paese senza lavoro si deve lavorare fino a 70 anni, in un Paese senza welfare il reddito di cittadinanza sarebbe inutile – parola della Fornero – perché “gli italiani si siederebbero e si farebbero delle gran pastasciutte”. Di grazia, se avessero quei quattro soldi marci cosa dovrebbero fare: prenotare una Ferrari?
Nessuno che faccia discorsi concreti e sforni qualche progetto: la politica, oramai in Italia, è diventata solo una questione di bilanci: dai quali – questo no, non si tocca – non deve diminuire il gettito che mantiene la classe politica più pagata d’Europa, nel Paese più indebitato del continente.
L’energia? Qualcuno ha detto una parola? L’agricoltura, il turismo, i trasporti…non una sola parola in tutta la campagna elettorale! Cosa vogliono fare? Tutto s’aggiusta spostando capitoli di bilancio da uno storno all’altro e infilando qualche tassa in più sulla gente? I 98 miliardi che devono allo Stato i gestori dei giochi, che fine faranno?
Dobbiamo ancora assistere alle liquidazioni milionarie, prese dalle casse dell’INPS per Cimoli, Fantozzi, eccetera…ossia di tutti gli incapaci nullafacenti manager di Stato?
Per quanto riguarda l’UE, Il FMI, la BCE, la BM e tutte queste benemerite istituzioni, ricordiamo che l’Argentina è risorta quando se n’è allontanata.
Niente, il continente latino-americano ha oramai preso una sua deriva e non ascolta più l’incantatore di serpenti Obama: solo in Messico – truffa elettorale – ed in Colombia – occupazione militare – gli USA riescono ancora ad avere un mezzo piede infilato in una mezza staffa.
Il Brasile commercia con l’India, l’Argentina con i cinesi…e via discorrendo: la vecchia Europa sta a guardare e, come per tutti i guardoni, finirà in una sega senza fantasia rimembrando i fasti di un tempo, quando Vasco da Gama superò il Capo di Buona Speranza e ci regalò cinque secoli di colonialismo.
Ci rimane una sola cosa da fare, se non si suicidano in massa: chiedere – almeno – gli osservatori dell’ONU sulle prossime elezioni. Sono truffatori di professione: non scordiamolo!

(1) Leggi: http://www.linkiesta.it/presidente-uruguay-guadagna-800-euro-al-mese

http://carlobertani.blogspot.com/2013/02/bienvenido-presidente.html

Deus quos vult perdere amentat

Fra qualche centinaio d’anni gli storici, se ci saranno ancora, s’interrogheranno sulle cause che hanno spinto l’Occidente ad abbandonare qualunque attività economica in grado di produrre qualcosa per darsi al gioco d’azzardo. Forse ci sarà bisogno anche di qualche specialista per analizzare la follia collettiva che spinge ad ignorare il catastrofico fallimento di un modello che doveva portare inimmaginabili ricchezza al pianeta e che invece lo sta precipitando nella carestia globale. E se le rivolte del pane non sono il segnale del fallimento di un sistema economico, allora cosa lo è?

Non è così per giornalisti, analisti e sacerdoti della globalizzazione che, non solo rispondono alla crisi alimentare con il business as usual, ma vedono profilarsi all’orizzonte l’ennesima occasione di profitto per quel capitalismo dei disastri così ben descritto da Naomi Klein. Già si riscaldano i motori del circo mediatico che accompagnerà l’ennesimo Live Aid – manna per le major dell’intrattenimento – cui seguiranno gli ennesimi stanziamenti di aiuti d’emergenza a base di semi più o meno geneticamente modificati ma comunque sempre ad alto impatto ambientale che finalmente apriranno alle corporation anche i mercati più poveri. Del resto è ben noto l’effetto devastante degli aiuti alimentari se non vengono impiegati per motivi strettamente emergenziali: nel peggiore dei casi provocano la creazione di un mercato parallelo basato sul contrabbando delle donazioni, nel migliore centinaia di migliaia di contadini rovinati dall’arrivo dei prodotti alimentari gratuiti si metteranno nel giro di qualche mese a fare la fila per un pasto, invece di guadagnarlo dignitosamente con il proprio lavoro.

Quello che bisognerebbe fare – non fra un mese o fra una settimana ma domani – è bloccare immediatamente “le azioni” delle materie prime alimentari (i cosiddetti future) per eccesso di rialzo, perché ciò che sta succedendo è proprio questo: i capitali speculativi in fuga dai mutui americani si sono riversati sulle materie prime alimentari per continuare indisturbati il loro gioco speculativo, un gioco che, grazie ai teorici del mercato globale, ha finito per colpire i consumatori più poveri senza beneficiare i produttori. Ai quali, da più di dieci anni, viene promesso che l’effetto perverso dell’entrata nel mercato globale – ovvero il crollo dei prezzi determinato dalla competizione al ribasso – sarebbe stato di breve durata e che i prezzi sarebbero risaliti. Peccato che, quando ciò accade, non c’è più nessuno che possa goderne i frutti a parte le grandi corporation della distribuzione, come da anni segnalano i sindacati contadini e le organizzazioni agricole del pianeta. Perché tutte – ma proprio tutte – le misure imposte dai fautori della globalizzazione si sono rivelate sbagliate: l’abbandono delle coltivazioni di sussistenza e dei prodotti tradizionali che affiancavano quelli importati nei mercati locali; la rinuncia a ogni strumento di controllo dei prezzi o almeno delle scorte alimentari che tradizionalmente vengono messe da parte per affrontare le annate cattive e che invece sono state allegramente messe sul mercato; la rinuncia alle entrate determinate dalle tariffe doganali che sono state ridotte o eliminate per aprire i mercati; la scelta di destinare grandi piantagioni al nutrimento degli animali per fornire al Nord del mondo la dieta a base di carne che uccide i cittadini occidentali; l’adozione acritica di un modello agricolo fondato sullo sfruttamento intensivo che lascia i terreni impoveriti e i contadini indebitati – per comprare pesticidi e fertilizzanti che, anno dopo anno, funzionano sempre meno. Se a tutto ciò si aggiunge la crisi climatica e la perdita di terreni agricoli dovuta alla desertificazione, ecco che il quadro si fa completo.

Che questo modello fosse in crisi lo segnalavano in parecchi. Molti meno sono stati quelli che non hanno abboccato alla trappola dei biocombustibili o che si sono posti il problema del picco petrolifero. Chi scrive è fra quei pochi eppure, pur conoscendo i rischi di sottovalutare il problema dell’esaurimento del petrolio o la pazzia di destinare terra agricola per fabbricare un suo sostituto, sono convinta che la causa della crisi alimentare non è l’aumento del costo dei trasporti e nemmeno la distruzione delle foreste tropicali – che per fare olio combustibile ha provocato un boom delle emissioni di gas serra. Troppo rapido, questo aumento dei prezzi, e totalmente scollegato dai ritmi dei raccolti e delle semine. Come ha scritto Roberto Capezzoli sul Sole 24 ore di qualche giorno fa: «Il flusso di denaro che proviene dagli hedge fund è tale da sommergere e alterare, per periodi più o meno lunghi, le tendenze tradizionalmente legate al clima, alle dimensioni dei raccolti e alla propensione al consumo». E’ infatti la speculazione alla borsa di Chicago, quella dove si scambiano i future sul riso, che ieri ha fatto schizzare il prezzo a 22,17 dollari per 100 libbre appena l’Indonesia ha annunciato che avrebbe sospeso le esportazioni. Ed è sempre la borsa di Chicago che proietta alle stelle il prezzo del grano dopo un analogo annuncio proveniente da Kazakhstan, Russia, Ucraina e Argentina, paesi che, da soli, coprono un terzo del mercato globale. E’ noto infatti che la fuga verso il protezionismo spaventa i mercati molto più della fame.

Ma se davvero si vuole salvare la faccia alla globalizzazione bisogna almeno mostrare che i furbetti di Chicago hanno per il cibo lo stesso rispetto che hanno per le società quotate in borsa, interrompendo subito le contrattazioni su questi titoli, quando ancora il settore non è così compromesso con la speculazione finanziaria come quello petrolifero. Solo così si possono convincere i paesi produttori a non barricarsi dietro le proprie frontiere e solo così si può prendere tempo per ripensare un modello agricolo che era già fallimentare prima di venire aggredito dal gioco d’azzardo. Al contrario, oltre al busines as usual, si assiste a una speculazione sulla speculazione: la crisi alimentare viene usata proprio per abbattere gli ultimi ostacoli che si opponevano all’avanzata della globalizzazione.

Come definire altrimenti l’annuncio reso ieri al Financial Times da una grande compagnia alimentare giapponese, la Nihon Shokuhin Kako, che confessava di essere stata costretta a comperare mais geneticamente modificato? Il fronte anti-ogm, fortissimo in Giappone, rischia di franare sotto il peso dei prezzi esattamente come rischiano di venire spazzati via tutti i discorsi sull’agricoltura sostenibile. Come leggere altrimenti le dichiarazioni del direttore generale della Fao su di una grande iniziativa per la prossima semina africana? Djouf propone una distribuzione massiccia di fertilizzante e di semi ai piccoli produttori per rilanciare lo sviluppo approfittando dei prezzi alti ma, così facendo, dà un colpo di spugna a tutti i discorsi sulla riduzione dell’impatto della chimica e sull’importanza del sistema tradizionale di selezione e scambio dei semi. Per non parlare poi delle riflessioni sull’importanza dei piccoli agricoltori sganciati dal mercato internazionale che, in un continente come l’Africa, sono ancora quelli che nutrono la maggior parte della popolazione. Inondare alcune zone di prodotti chimici e di semi ad alta resa – su cui pagare le royalties – non sembra il modo migliore per garantire la sicurezza alimentare dei poveri urbanizzati, ma è di sicuro il modo per cancellare definitivamente dai mercati locali i contadini rurali.

Sabina Morandi

Fonte: http://www.liberazione.it

17.04.08

Vi prego di guardare la data del post e di considerare se qualche candidato presente in una qualsiasi lista abbia tenuto conto nel suo programma di queste indicazioni.

Giannino & C.

Vorrei iniziare il mese di febbraio con una breve nota (meno male, dirà qualcuno) sull’Università. I liberisti alla Zingales & soci amano raccontarci la fiaba delle Università americane come modello da imitare. Ci vengono a raccontare sciocchezzai a proposito di come da quelle parti l’Università funzioni. Non sto dicendo che l’Università americana non funzioni, sto dicendo che funziona benissimo per una classe di abbienti e, come tale, perpetua al 90% la stessa classe dirigente che può permettersela.
Dunque per farvi capire bene di che livello è la fuffa liberista vi copio incollo il punto del “manifesto” di “Fermare il declino” a proposito dell’Università: “Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Non si tratta di spendere di meno, occorre anzi trovare le risorse per spendere di più in educazione e ricerca. Però, prima di aggiungere benzina nel motore di una macchina che non funziona, occorre farla funzionare bene. Questo significa spendere meglio e più efficacemente le risorse già disponibili. Vanno pertanto introdotti cambiamenti sistemici: la concorrenza fra istituzioni scolastiche e la selezione meritocratica di docenti e studenti devono trasformarsi nelle linee guida di un rinnovato sistema educativo.Va abolito il valore legale del titolo di studio”.
Vorrei farvi notare che la “concorrenza tra istituzioni scolastiche” e la “selezione meritocratica” si ottengono creando un sistema nel quale – esattamente come nelle Università americane – ogni istituzione universitaria si va a comprare sul mercato i docenti. Quell’Università che ha più soldi offre stipendi più alti e si accaparra i docenti ritenuti “migliori”. In questo sistema a seconda dei fondi disponibili le Università diventano di serie A o di Serie B. Ma come fanno le Università americane a rastrellare denaro? La favoletta liberista è che le Università acquistano fondi dalle donazioni di privati e dalla cooperazione con l’industria o lo Stato. Il che è vero ma non così vero come sembrerebbe perché le Università americane – come ovunque – hanno nelle tasse degli studenti (tecnicamente non sono tasse ovviamente, ma il pagamento per frequentare) il loro vero e principale strumento di sussistenza. E siccome gli studenti sono in un sistema liberistico, devono pagare: più è prestigiosa l’Università, più costa. Ho scelto di mostrarvi quanto costa un anno alla Cornell University, prestigiosa ma non la più prestigiosa. La prima colonna riguarda i non residenti nello Stato di New York, la seconda i residenti:

All Students NY State Resident Non-NY State Resident
Tuition and student activities fee

$27,273

$43,413

Housing

$8,112

$8,112

Dining

$5,566

$5,566

Books and supplies*

$820

$820

Personal and misc. expenses

$1,680

$1,680

TOTAL

$43,451

$59,591

La cosa che si nota subito è che in questo costo è conteggiato il vitto e l’alloggio. Il nostro studente per un anno non mangia e non dorme a casa, perciò se volete proprio essere rigorosissimi non considerate questa una perdita secca: a casa mamma e papà non spenderanno i soldini per sfamare il pargolo. Ma se anche togliete questa somma e vi volete limitare al dato base rimaniamo nella migliore delle ipotesi a più di 27.000 dollari e nella peggiore delle ipotesi a 43.000 dollari l’anno. Ammettiamo che il nostro studente rimanga tre anni (sarebbe meglio quattro, ma va bene tre), la sua famiglia spenderà tra gli 81.000 e i 129.000 dollari. Sì certo dollari non euro.  A spanne con un cambio euro/dollaro pari a 1,30 a 1 significa un minimo di 62.000 e un massimo di 99.000 euro. E sto parlando solo della “retta base”. Se vole aggiungere tutto il resto divertitevi.

Questo è il costo del sistema liberista. Ma Zingales, Giannino e tutta la gang liberista ci potrebbe dire: “ci sono sconti ai meno abbienti!”. Vero, alla Cornell ci dicono che: “Families with a total family income of less than $60,000, and total assets of less than $100,000 (including primary home equity), will have no parent contribution“. Il che significa che se guadagnate meno di 46.000 euro all’anno come nucleo familiare, ossia meno di 3846 euro medi al mese e non avete proprietà che superino il valore di circa 77.000 euro. potete mandare gratis il vostro figliolo promettente alla Cornell. A dire il vero del tutto gratis no ma diciamo, come si evince da un esempio sul sito della Cornell, a circa il doppio del costo medio delle università italiane. Va bene direte voi.

Va bene? Non vi illuderete che tutti quelli che  hanno i requisiti saranno accettati vero? Si fa una domanda e si spera di essere ammessi. Ignoro ogni anno quanti studenti entrino alla Cornell senza pagare ma, state certi, che non entrano tutti quelli che lo chiedono. Insomma un po’ di meritocrazia, perbacco!

La reale meritocrazia di questo modello universitario sono i soldi. Più siete ricchi più potrete studiare, più potrete studiare più vi si aprirà una carriera. Che il figlio dell’operaio della Ford abbia le stesse possibilità di frequentare l’università del figlio di un operaio italiano, è solo fuffa liberista. Il futuro di un mercato universitario come lo sognano quelli di “Fermare il declino” è questo. E’ stato già notato da un ottimo blogger che ha affrontato questo stesso argomento, che nell’Università di Chicago si spende di più, l’Università dove insegna Zingales.

Questo futuro vi può piacere o non piacere. Il punto non è questo, il punto è che non potete ignorarlo. In altre parole, questo è cosa c’è dietro la vaghezza dei proclami di “Fermare il Declino”. Pensate che l’Università italiana sia riformabile e che debba comunque garantire la massima istruzione possibile? Bene. Il modello di Zingales e sodali, mettetevelo in mente non va nella direzione di assicurare a tutti l’istruzione universitaria. E’ un modello di élite, punto.

Ars Longa | 1 febbraio 2013 alle 19:52 | Categorie: Economia, Politica italiana | URL: http://wp.me/pS8g4-cE