Se richiamo alla memoria le cinque o se volte nella mia lunga vita in cui ho provato a resistere al sopruso – pubblicamente, in situazioni pubbliche, su questioni di ingiustizia in cui davo per scontato l’appoggio di amici, compagni di scuola e colleghi – sono stato facilmente sconfitto perché mi son trovato solo. “Avanti miei prodi! Sfidiamo il potente!”, mi volto e i miei prodi son lì fermi, anzi hanno fatto un passo indietro, si chiamano fuori, non vogliono entrare nella faccenda, alcuni con mimica inequivocabile stanno segnalando al potente, perché li veda e ne tenga conto, che loro mi considerano pazzo, un fanatico, uno che si monta la testa …Si picchiettano la fronte col dito.
Succede sempre così, in Italia. Che gli altri, quando si tratta di non stare al sopruso pubblico, si tirano indietro. E’ per questo che alla fine alcuni dicono a sé e agli altri che “la soluzione è individuale”, e adottano l’individualismo competitivo e vincente – una posizione giustificata esistenzialmente, perché dopotutto uno ha una vita sola, appena sufficiente per conquistarsi un posto nel mondo – ma sbagliata sul piano filosofico. Perché “il problema è sociale”, non individuale. Benissimo dice Fanelli: non è solo o tanto lo Stato, quanto “la società” si occupa di perseguitare quelli che vogliono resistere al sopruso, “sino a quando il loro fallimento sara’ di monito agli altri”. Sono gli altri che, collettivamente, invocano la tua “crocifissione sulla Via Appia”.
Nei miei cinque o sei insuccessi, mi sono chiesto: come mai i compagni e i colleghi – che prima giuravano di non voler più stare al sopruso, che erano d’accordo con me – davanti al potente mi hanno lasciato solo? Solo ad andare all’assalto, che cosa ridicola. Come mai loro stavano fermi?
D’accordo, mettiamo in conto la viltà italiota. Ma non basta a spiegare tutto, anzi spiega poco. Se provo a rievocare cosa dicevano gli sguardi sfuggenti, i silenzi derisori o le mezze frasi di scusa dei “miei prodi” che mi avevano lasciato solo e ridicolo (e con la diserzione saldato su di noi il sopruso più forte di prima) trovo una riserva inconfessata: “Non sarà che seguendolo, sto dando troppo potere a lui? Che sto facendogli troppo favore, facendolo vincere, dandogli la soddisfazione di farmi dirigere da lui? Dopotutto, non sono completamente d’accordo con lui: ci sono cose nelle sue idee che non mi convincono; e io ho le mie idee. Mica è mio fratello, dopotutto. Se lui vince, io cosa ci guadagno?”.
Pensateci: è questo insieme di riserve mentali, di mancanza di generosità e di invidiuzze oscure che ammala radicalmente la nostra vita politica. Che, per esempio, rende mediocri, comprabili, deboli i nostri politici. Come?!, protesterete voi: sono loro, i politici, che “non hanno le palle”, che “non sono intelligenti”, che “non hanno le qualità di comando”!
E’ anche vero. Ma queste proteste nascono da un errore fondamentale: credere che “avere le palle” siano doti personali del personaggio. La verità è esattamente il contrario: il “valore sociale degli uomini che dirigono dipende dalla capacità di entusiasmo che gli dà la massa”, scrive Ortega y Gasset. Insomma, è il pubblico che dà al politico “le palle”, o gliele nega. La forza, il valore, le capacità non sono tanto nel politico individuale, quanto “precisamente quelle che il pubblico, la moltitudine, la massa pone” in lui come “persona eletta”. E non si parla qui di voti, ma di ben altra “elezione”: guai a pensare che una tecnica elettorale , o anche delle leggi, o una “morale” etica imposta da procuratori giudiziari ai politici “corrotti”, sia alla base di una società sana. La società sana è quella in cui il pubblico, le masse, la cittadinanza, si sente docile a personalità in cui riconosce delle qualità “elette”; e quindi dà loro, con generosità e senza riserve, la forza sociale che gli consentirà di sfidare il sopruso diventato istituzione, che è duro come l’acciaio, ed occorre molta forza unita per abbatterlo. La “personalità” di un leader politico è – in grandissima misura – quella che gli attribuiscono le masse; e il politico sarà indotto a diventare migliore da questa esigenza generosa del pubblico.
Manca il capitale sociale
Questo è il “capitale sociale”, ed è il pubblico che lo dà, dando la forza e la personalità al leader politico. O negandogliela, come per lo più avviene da noi.
Perché? Perché la società italiana è composta di una massa “di cui ogni membro crede di essere personalità direttrice”, “incapace di umiltà, entusiasmo e ammirazione dei superiori”- questa massa nega al capace il proprio capitale sociale, la propria forza d’urto. Ad ogni personalità audace nel pubblico campo, i milioni di individualisti si tirano indietro, avanzano le loro riserve mentali, si domandano : ma lui non ci guadagnerà troppo, se io lo faccio vincere?
https://www.maurizioblondet.it/perche-gli-italiani-amano-soprusi-delle-istituzioni/