Fuga con svista

Siria nord orientale, un F22 Raptor americano, il caccia da superiorità aerea più avanzato dell’aviazione Usa, cerca di ostacolare due bombardieri Mig 25 russi in missione per distruggere le fortificazioni Isis sull’Eufrate. I piloti russi chiamano perciò appoggio il temibile mig 35 e il Raptor se ne fugge verso l’Irak. Si tratta di uno dei tanti episodi della guerriglia americana in medio oriente volta a preservare i suoi terroristi e a tenere sotto scacco la Siria per quel che si può, ma in questo caso le giustificazioni del Pentagono hanno valicato qualsiasi limite: i caccia fuggono, ma le parole invece sfuggono e rivelano le verità che milioni di struzzi non vogliono sentire e migliaia informatori consapevoli del loro ruolo si guardano bene dal rivelare e analizzare.

Il portavoce del Comando centrale della US Air Force, ha detto che c’è un aumento di comportamenti pericolosi da parte dell’aviazione russa nella Repubblica araba siriana e che la più grande preoccupazione è di abbattere un aereo russo perché le sue azioni sono viste come una minaccia per le nostre forze aeree e terrestri”. Qualsiasi persona di intelligenza media si chiederebbe perché mai esista questa preoccupazione visto che i russi combattono l’Isis e il terrorismo e gli americani sostengono di farlo, dunque dovrebbero essere alleati, ma anche come mai, vista questa apprensione, gli aerei Usa cercano di impedire le azioni russe contro l’Isis. Nessuno ha fatto questa ovvia domanda, ma il portavoce dell’air force è stato comprensivo e ha svelato l’arcano: ” spesso i jet russi e siriani attraversano il nostro spazio aereo sul lato orientale del fiume Eufrate”. Dunque non lo sapevamo, ma esiste uno spazio aereo americano in Siria, che fino a prova contraria è ancora uno stato sovrano ed esiste guarda caso proprio nel territorio ancora occupato dalle bande di terroristi siano essi libertador a cachet, alquaedisti o resti dell’Isis. Facile vedere dentro questa tracotanza che avvilisce qualsiasi rimasuglio di diritto internazionale, chi siano i veri alleati degli Usa.

estratto da https://ilsimplicissimus2.com/2017/12/11/abomini-e-pinzillacchere/

 

Vincere non basta

Non capisco, o lo capisco troppo bene, perché svilire a “spettacolare pacchianata”, a “ridicolo”, a “parodia del passato” il gesto del generale croato-bosniaco Slobodan Praljak, ingegnere e regista nella vita civile, che ha ingerito una fiala di veleno, suicidandosi, proprio mentre il Tribunale penale internazionale dell’Aia per “i crimini di guerra nella ex Jugoslavia” lo condannava a vent’anni. Quando un uomo paga con la vita la coerenza a se stesso, ai suoi princìpi, alle sue azioni, quali che siano state, merita rispetto. Lasciamo pur perdere che fra le accuse principali mosse a Plaljak c’è quella, risibile, di aver distrutto l’antico ponte di Mostar (solo i nazisti, forse più attenti all’arte che agli esseri umani, rinunciarono a far saltare il Ponte Vecchio di Firenze perdendo, con ciò, diecimila soldati, mentre degli americani è stato trovato un progetto per spazzar via la Torre di Pisa perché non riuscivano ad aver ragione di quattro –quattro- mitraglieri tedeschi che vi si erano appollaiati). Non si tratta di questo. Perché il plateale gesto di Praljak ha un alto valore, oltre che etico, politico: è il rifiuto spettacolare della giustizia dei vincitori. Il premier croato Andrej Plenkovic ha così commentato: “L’atto di Praljak parla in modo chiaro dell’ingiustizia morale nei confronti di sei croati condannati oggi dal Tpi”. E ha proseguito contestando la decisione di una “corte politica”. Ma lo stesso discorso, suicidio a parte, si può fare per il generale serbo-bosniaco Ratko Mladic condannato una settimana prima all’ergastolo, per gli stessi motivi, dal Tpi.

Tutto ha inizio con i processi di Norimberga e di Tokyo quando, per la prima volta nella Storia, i vincitori non si accontentarono di essere più forti dei vinti ma si sentirono anche moralmente migliori così da avere il diritto di giudicarli. In tal modo si finiva per far coincidere il diritto con la forza, la forza del vincitore.

I processi di Norimberga e di Tokyo suscitarono forti perplessità proprio negli ambienti liberali internazionali. Scriveva l’americano Rustem Vambery, docente di diritto penale, sul settimanale The Nation del 1° dicembre 1945: “Che i capi nazisti e fascisti debbano essere impiccati e fucilati dal potere politico e militare, non c’è bisogno di dirlo; ma questo non ha niente a che vedere con la legge…Giudici guidati da ‘sano sentimento popolare’, introduzione del principio di retroattività, presunzione di reato futuro… ripristino della vendetta tribale, tutti questi erano i punti salienti di quella che la Germania di Hitler considerava legge. Chiunque conosca la storia del diritto penale sa quanti secoli, quanti millenni, ci sono voluti perché esattamente il contrario di questa storia e di questa prassi nazista fosse universalmente riconosciuto come parte integrante del diritto e della giustizia”. E Benedetto Croce, in un discorso tenuto all’Assemblea Costituente il 24 luglio 1947, affermava: “Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra”. E The Guardian ammoniva nel 1946: “Il processo di Norimberga apparirà giusto o sbagliato nella storia a seconda del futuro comportamento delle nazioni che ne sono responsabili”. Ciò che hanno combinato sovietici e americani dopo la fine della seconda guerra mondiale dà la risposta a questa domanda.

Anche se vi manca l’applicazione del principio di retroattività io non ho mai avuto fiducia nel Tribunale Internazionale dell’Aia alla cui giurisdizione, tra l’altro, sono sottratti, chissà in nome di che, i politici e i militari americani. Come ribadii qualche anno fa, in una conferenza che si tenne a Lugano, a Carla Del Ponte che di quel Tribunale dell’Aia è stata Pubblico ministero. Ma se si vuol credere al Tribunale dell’Aia per i crimini commessi nella guerra di Bosnia ben altri dovrebbero essere coloro da trascinare sul banco degli imputati. Sono i principali esponenti di quella imprecisata entità che si chiama Comunità internazionale.

Il collasso dell’Urss aveva provocato il disfacimento della Jugoslavia. Slovenia e Croazia ottennero facilmente il riconoscimento di Stati dalla Comunità internazionale, sotto la spinta, in particolare per la Croazia cattolica, della Germania e del Vaticano. Allora anche i serbi di Bosnia chiesero un’altrettale riconoscimento o la possibilità di unirsi alla madrepatria serba. Una Bosnia multietnica, a guida musulmana, si giustificava solo all’interno di una Jugoslavia multietnica (era stato un capolavoro di Tito, e prima ancora dell’Impero austroungarico, tenere insieme tre comunità, croata, serba, musulmana, che si sono sempre detestate). Ma quello che era stato facilmente concesso dalla Comunità internazionale a croati e sloveni venne negato ai serbi di Bosnia. E questi scesero in guerra. E la stavano vincendo, sia perché, come i croati, potevano contare sulla confinante madrepatria, mentre i musulmani bosniaci non avevano un retroterra e ricevevano solo uno sporadico sostegno dall’Iran, sia perché sono ritenuti, sul terreno, almeno fino all’avvento dei guerriglieri dell’Isis, i migliori combattenti del mondo –si deve alla resistenza serba quel ritardo nell’attacco all’Unione Sovietica che, complice il Generale Inverno, fu fatale a Hitler. Ma la Comunità internazionale, europei in testa seguiti dagli americani, decise che quella guerra i serbi non la dovevano vincere e i vincitori furono trasformati in vinti.

E’ stato così creato uno Stato, la Bosnia, che non era mai esistito e che viene tenuto in piedi con lo sputo ed è pronto a esplodere in ogni momento. Come dimostrano le grandi manifestazioni popolari di questi giorni in Croazia e in Serbia che fanno emergere un odio che le sentenze del Tribunale dell’Aia non fanno che rinfocolare.

Sarebbe bastato che la cosiddetta Comunità internazionale avesse riconosciuto ai serbi quello che loro spettava e la guerra di Bosnia, con i suoi crimini e i suoi misfatti, non ci sarebbe mai stata. E nemmeno le sentenze, di assai dubbia legittimità, del Tribunale dei vincitori.

Massimo Fini

La Cina si avvicina

Nell’ambito della One Belt One  Road , Pechino guida l’iniziativa ”16 + 1” che sta rafforzando la cooperazione con 11 paesi membri della UE e cinque  paesi balcanici: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia e Slovenia. La regione ha una popolazione di 120 milioni di persone.

La ferrovia Ungheria-Serbia fatta coi cinesi.  E’ solo il primo tratto di una futura rete che unirà i Balcani meridionali.  Anzi, molto oltre: 
la linea Baku-Tbilisi -Kars che unirà il Mar Nero al Caspio.

 

La cooperazione ha come punta   di  lancia  le  INFRASTRUTTTURE.  Il premier Orban  ha stretto con la Cina un accordo per una linea ferroviaria  nord-Sud dalla Polonia ai Balcani meridionali.   La maggior parte degli investimenti cinesi   sarà concentrata in Ungheria.  Il 28  novembre è partito da Mortara il primo treno merci cinese diretto  a  Chendu Cina,   17 vagoni con merci italiane. La frequenza   dei convogli dipenderà  dall’intensità del’interscambio.

https://www.maurizioblondet.it/superstato-canaglia-berlino-forse-si-smarca/

I nuovi nomadi

Durante i tre anni di ricerca per il mio libro La terra dei nomadi: come sopravvivere in America nel ventunesimo secolo, ho frequentato centinaia di persone che erano arrivate alla stessa risposta. Hanno rinunciato a una casa tradizionale e sono passati all’”immobiliare su ruote”. Camper, rimorchi, furgoni, pick-up e perfino una Prius recuperata e altre auto. A molti di loro rinunciare al comfort materiale ha permesso di sopravvivere, e di recuperare nel frattempo un piccolo grado di libertà e autonomia. Ma ciò non significa che la vita sulla strada sia facile.

Il mio primo incontro con un gruppo di “nuovi nomadi” è avvenuto nel 2013, nel parcheggio per camper del deserto Rose, a Fernley, in Nevada. Era abitato da appartenenti al mondo del “precariato”: lavoratori temporanei che svolgevano lavori di breve durata con stipendi bassi. I suoi cittadini erano girovaghi a tempo pieno, che dimoravano in camper o veicoli simili, anche se almeno uno di loro aveva solo una tenda in cui vivere. Molti avevano più di 60 o 70 anni, vicini o già nel mezzo della tradizionale età della pensione. La maggior parte non poteva permettersi di smettere di lavorare – o di pagare l’affitto.

Fin dal 2009, l’anno dello scoppio della bolla immobiliare, gruppi di lavoratori di questo tipo si sono spostati ogni autunno nei parcheggi per case mobili che sorgono intorno a Fernley. Molti avevano viaggiato per centinaia di chilometri – e subìto le consuete umiliazioni del controllo dei precedenti penali e del dover urinare in una tazza per il test antidroga – per avere la possibilità di guadagnare 11,5 dollari all’ora più gli straordinari lavorando in magazzini temporanei. Avevano intenzione di rimanere fino all’inizio dell’inverno, benché molte delle loro case su ruote non fossero progettate per viverci in zone a temperatura sottozero.

http://vocidallestero.it/2017/12/07/vivono-in-macchina-lavorano-per-amazon-ecco-a-voi-i-nuovi-nomadi-americani/

E’ matematico

http://ilariabifarini.com/perche-la-disuguaglianza-cresce/

di Ilaria Bifarini Ogni tanto, tra le varie notizie di propaganda che dipingono un paese irreale, in cui un aumento quasi impercettibile del Pil -peraltro stimato- e una diminuzione lievissima del tasso di disoccupazione attualmente alle stelle -perlopiù legata a fattori stagionali- vengono spacciati per crescita, trapela qualche dato reale sullo stato di salute del Paese. Uno di questi è quello divulgato ieri dall’Istat -e precedentemente anche dall’OCSE- sul livello di disuguaglianza interno alla popolazione: mentre una fascia ristretta della popolazione diventa sempre più ricca la schiacciante maggioranza si impoverisce. In un solo anno, dal 2015 al 2016, la percentuale di italiani a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 28,7% al 30%. Il trend non è solo a livello nazionale, ma rispecchia una tendenza globale in atto già da decenni ed è strettamente collegato alla modello “di sviluppo” neoliberista e alla finanziarizzazione dell’economia ad esso connessa. Se osserviamo i valori relativi al reddito medio del 99% della popolazione più povera e dell’1% più ricco, osserviamo come i primi siano cresciuti fortemente a partire dal dopo guerra fino agli anni 70, contro un ritmo più moderato del secondo gruppo. Improvvisamente il trend si inverte, inizia il rallentamento della ricchezza del 99% più povero (cioè la stragrande maggioranza della popolazione del mondo, cioè noi) a fronte di un’impennata del reddito dell’1% più ricco. Cosa accade in questi anni? Di certo non è casuale che proprio il 1973, anno della crisi petrolifera e della conseguente stagnazione, segni la data di morte del keynesismo e il trionfo indiscusso della dottrina neoliberista. L’economia reale lascia il passo alla finanza, che diventa sempre più predatoria e totalizzante, l’apertura al commercio mondiale diventa sempre più completa e priva di protezioni statali, l’inflazione e il debito pubblico diventano i nemici giurati mentre l’austerity il nuovo culto. L’indice di Gini, che misura il livello di disuguaglianza all’interno di una popolazione, cresce su scala globale, come riflesso di un modello economico fallimentare e infondato applicato a livello universale. In uno studio effettuato sul caso degli Stati Uniti è stato stimato che una crescita del 2% del Pil comporta una decrescita del reddito del 90% della popolazione. Siamo dunque di fronte a un modello economico di crescita antisociale in cui all’aumento del reddito globale corrisponde un impoverimento della quasi totalità della popolazione, ad eccezione di una ristretta fascia di élite che si fa sempre più esclusiva. Basti pensare che nel 2012 metà della ricchezza mondiale era concentrata in soli 64 individui. Oggi la stessa ricchezza è detenuta da un manipolo limitatissimo di otto persone. D’altronde le proiezioni dell’OCSE sul lungo periodo parlano chiaro: saremo sempre più poveri e più diseguali, tanto che da qui a una quarantina d’anni il tasso di disuguaglianza aumenterà del 40%. La correlazione con il modello economico neoliberista, e in particolare con il mantra dell’austerity, è talmente evidente che persino il Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione icona delle politiche neoliberiste, in un suo studio (Neoliberalism Oversold, IMF, 2016) ha dovuto riconoscere la fallacia di questa politica.

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Meraviglie digitali

“Tutto quello tu puoi fare sul tuo smartphone, Pegasus lo fa attraverso il “tuo” telefono. Accendere la telecamera e guardare quello con cui parli o le altre persone attorno a te, accendere il microfono ed ascoltare … può fare anche cose che tu, sul tuo cellulare, non sai fare: infilarci dentro files non tuoi, togliere i tuoi, manipolare i dati del telefono. Pegasus se ne infischia della criptazione, “legge” comunque chiamate e testi in arrivo e partenza. Inoltre, può cancellare se stesso, sottraendosi ad indagini legali o di polizia in caso di bisogno. ‘ Il miglior spyware mai inventato fino ad oggi.

NSO Group lo vende il suo Pegasus. A 650 mila dollari ogni 10 smartphone “infiltrati”, più un mezzo milione di “diritti di installazione”.

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La perfida Albione

Il 16 febbraio 1938 Mussolini dà incarico a suo genero, il conte Ciano, ora Ministro degli Esteri di scrivere al suo ambasciatore a Londra, Dino Grandi, una lunga lettera “personale e segreta” che, naturalmente, il Capo del Governo ha personalmente dettata. Il Duce prega l’ambasciatore di abboccarsi “senza indugio” con il Primo Ministro. Egli “sa” che Hitler è ormai deciso a realizzare l’annessione dell’Austria. In tale eventualità non ci si può attardare ulteriormente ed esitare più a lungo se si voglia veramente salvare l’Europa e la pace. “Senza essere”, scrive egli, “più desideroso di ieri di tendere la mano agli inglesi, tiene a dar loro quest’ultima opportunità di salvare la barca dal naufragio”. Attendere ancora sarebbe follia. Egli suggerisce l’avvertimento che ”tutte le carte del gioco possono non rimanere sempre nelle stesse mani”.
Il 17 Grandi riceve il messaggio. Il 18 è ricevuto da Chamberlain. Il Primo Ministro apprezza la comunicazione. La sua buona volontà è fuori discussione. Ciò non ostante egli è ben lungi dall’essere sicuro che i suoi punti di vista personali siano condivisi da tutti gli altri membri del suo gabinetto. Quando Chamberlain riceve l’ambasciatore d’Italia ha al suo fianco Anthony Eden. Il colloquio, abbastanza agitato, non dura meno di tre ore. Finalmente, il Primo Ministro finisce per accettare un incontro. Il suo segretario di Stato agli Esteri non è d’accordo. All’uscita dal colloquio mobilita i suoi amici. Il 20 febbraio, durante un tempestoso consiglio dei Ministri, Eden dà le proprie dimissioni sbattendo la porta. Una crisi ministeriale si apre a Londra. La proposta del Duce non ha più seguito.
Hitler ha accuratamente e un poco ansiosamente seguito questi passi. Nota il loro insuccesso con soddisfazione poiché non tiene affatto a una conferenza internazionale che potrebbe imbrigliarlo. Ormai sa di non avere più nulla da temere da una Italia completamente isolata.
In queste condizioni il Führer giudica giunto il momento di realizzare il suo sogno di sempre attaccando la povera piccola Austria. Nel 1935 aveva già approfittato della tensione italo-britannica per decidere il riarmo del Reich; nel 1936 aveva profittato delle sanzioni per rioccupare la Renania; nel 1938 approfitterà delle medesime circostanze favorevoli per effettuare una simile operazione di forza. Il 12 marzo le sue truppe invadono il territorio della sventurata repubblica austriaca che d’altronde, i trattati del 1919 avevano avuto cura di mantenere disarmata.

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59772

Dal Mistyc River all’Honduras, storia di un tacchino all’americana

Di fatto insomma tutti i massacri compiuti dall’occidente quando non vengono celebrati sono ignorati, nascosti, attribuiti ad altri:

il Simplicissimus

800px-Pequot_warC’è una insurrezione in corso, ma voi non lo sapete, perché i media del fake globale non ve lo dicono e le notizie trapelano solo dalle reti informative al di fuori del sistema Nato: si tratta dell’Honduras che sta insorgendo dopo un decennio di dittatura americana esplicita, preceduta da un vero e proprio saccheggio delle multinazionali appoggiate dalle armi e dai servizi di Washington tanto da fare del Paese quasi il prototipo della politica Usa in America Latina. Sulle ragioni vicine e lontane di ciò che sta accadendo  potete leggere questo articolo . Consideratelo come una sorta di introduzione all’ipocrisia dell’impero che ha il suo rito fondativo, il suo simbolo, il suo salmo goglottante di tacchino nel giorno del Ringraziamento che apre la sagra bottegaia e consumistica del Natale.

Già, ma in prima luogo cosa ringraziano fin dal 1637 anno nel quale la festa divenne in qualche modo ufficiale? Il…

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E io cosa ci guadagno?

Se  richiamo alla memoria le cinque o se  volte   nella mia lunga vita in cui ho provato a resistere al sopruso  – pubblicamente, in situazioni pubbliche, su questioni di ingiustizia in cui  davo per scontato l’appoggio di amici,  compagni di scuola e colleghi –   sono stato facilmente sconfitto perché mi son trovato solo. “Avanti miei prodi! Sfidiamo il potente!”, mi volto e i miei prodi  son lì fermi, anzi hanno fatto un passo indietro, si chiamano fuori, non  vogliono entrare nella faccenda, alcuni con mimica inequivocabile stanno   segnalando al potente, perché  li veda e ne tenga conto, che loro mi considerano   pazzo, un  fanatico, uno che si monta la testa …Si  picchiettano la fronte col dito.

Succede sempre così, in Italia. Che gli altri, quando si tratta di non  stare al sopruso pubblico, si tirano indietro.  E’ per questo che  alla fine alcuni  dicono a sé e agli altri che “la soluzione è individuale”, e  adottano l’individualismo competitivo e vincente – una posizione giustificata esistenzialmente,  perché dopotutto uno ha una vita sola, appena sufficiente per conquistarsi un posto nel mondo – ma sbagliata sul piano filosofico.  Perché “il problema è sociale”, non individuale. Benissimo dice Fanelli: non è solo o  tanto lo Stato, quanto “la società” si occupa di perseguitare quelli che vogliono resistere al sopruso, “sino a quando il loro fallimento sara’ di monito agli altri”.  Sono gli altri che, collettivamente,  invocano la tua “crocifissione sulla Via Appia”.

Nei miei cinque o sei insuccessi,  mi sono chiesto: come mai i compagni e i colleghi – che prima   giuravano di non voler più stare al sopruso, che erano d’accordo con me – davanti al potente mi  hanno lasciato solo? Solo ad andare all’assalto, che cosa ridicola. Come mai loro stavano fermi?

D’accordo, mettiamo in conto la viltà italiota. Ma non basta a spiegare tutto, anzi spiega poco. Se provo a rievocare cosa dicevano  gli sguardi sfuggenti, i silenzi derisori o le mezze frasi di scusa dei “miei prodi”  che mi avevano lasciato solo e ridicolo  (e con la diserzione saldato  su di noi il sopruso più forte di prima) trovo  una riserva inconfessata: “Non sarà che seguendolo, sto dando troppo potere a lui? Che sto facendogli troppo favore, facendolo vincere,  dandogli la soddisfazione di farmi dirigere da lui? Dopotutto,  non sono   completamente d’accordo con lui: ci sono cose nelle sue idee che non mi convincono; e io ho le mie idee.  Mica è mio fratello, dopotutto. Se lui vince, io cosa ci guadagno?”.

Pensateci: è questo insieme di riserve mentali, di mancanza di generosità  e di invidiuzze oscure che ammala radicalmente la nostra vita politica. Che, per esempio,  rende mediocri, comprabili,  deboli i nostri  politici. Come?!, protesterete voi: sono loro, i politici,   che “non hanno le palle”, che “non  sono intelligenti”, che “non hanno le qualità di comando”!

E’ anche vero. Ma queste proteste nascono da un errore fondamentale: credere che “avere le palle”  siano doti personali del personaggio. La verità è esattamente il contrario:   il “valore sociale degli uomini che dirigono dipende dalla capacità di entusiasmo che gli dà la massa”, scrive Ortega y Gasset. Insomma, è il pubblico che dà al politico “le palle”, o gliele nega.   La forza, il valore, le capacità  non sono tanto nel  politico  individuale, quanto “precisamente quelle che il pubblico, la moltitudine, la massa pone” in lui come “persona eletta”.  E non si parla qui di voti, ma di  ben altra “elezione”: guai a pensare che una tecnica elettorale , o anche  delle leggi,  o una “morale” etica imposta da procuratori giudiziari ai politici “corrotti”, sia alla base  di una società sana. La   società sana è quella in cui il pubblico, le masse, la cittadinanza, si sente docile a personalità in cui riconosce delle qualità “elette”;  e quindi dà loro, con generosità e senza riserve, la forza sociale che gli consentirà di sfidare il sopruso diventato istituzione, che è duro come l’acciaio, ed occorre molta forza unita per abbatterlo.   La “personalità”  di un leader  politico è – in grandissima misura –   quella  che gli attribuiscono le masse;  e il politico sarà indotto a diventare migliore da questa esigenza generosa del pubblico.

Manca il capitale sociale

Questo è il “capitale sociale”, ed è il pubblico che lo dà, dando la forza e  la personalità al leader politico. O negandogliela, come per lo più avviene da noi.

Perché? Perché  la società italiana è composta di una massa “di cui ogni membro crede di essere personalità direttrice”, “incapace di umiltà, entusiasmo e ammirazione dei superiori”-  questa massa nega al capace  il proprio capitale sociale, la propria forza d’urto.   Ad ogni personalità audace nel pubblico campo,   i milioni di individualisti si tirano indietro, avanzano le loro riserve mentali,   si domandano : ma   lui non ci guadagnerà troppo, se io lo faccio vincere?

https://www.maurizioblondet.it/perche-gli-italiani-amano-soprusi-delle-istituzioni/

Strano ma vero

Poiché Mussolini non smise mai d’essere un socialista, e lo dimostrò con riforme (l’IRI, l’INPS, l’ONMI, lo IACP, l’INAIL, la Banca d’Italia Statale, ecc) che lo resero, nei fatti, in grado di reggere anche alle critiche di un socialista radicale come Bombacci. Il quale, fu conquistato dalle riforme mussoliniane: proprio lui, che lavorò per molto tempo per l’URSS e che iniziò – si deve dirlo – quella collaborazione economica che poi sfruttarono a man bassa i comunisti emiliani nel dopoguerra.

Così, in silenzio, dopo l’8 Settembre 1943, Bombacci raggiunge Mussolini a Gragnano, e diventa un collaboratore assiduo, oltre che l’amico di sempre. Ebbe un vago incarico presso il Ministero dell’Interno ma si sa, nella caligine di Salò dominata dai tedeschi, tutto era vago ed impreciso.

La “socializzazione” dell’Economia è opera sua e, addirittura – non potendo essere messa in pratica durante la pallida Repubblica di Salò – è rimasta come vago cenno anche nella nostra Costituzione, agli art. 3 e 35, laddove però è sparito il riferimento più importante: la gestione comune (imprenditori-lavoratori) dell’impresa, la nota Mitbestimmung tedesca.

Viene spontanea una domanda: perché Mussolini, che ebbe il potere assoluto, non portò avanti questi progetti come Capo del Governo, per tanti anni?

Perché Mussolini, di là delle sue “sparate” ben note, quando incontrava sulla sua strada i dettami del grande capitale, agrario ed industriale, non contava più una cippa.

Vi fu anche un momento storico importante – e per questo i ragazzotti in nero di Vicenza mi fanno più pena che altro – nel quale Mussolini fu giocato proprio dallo squadrismo: il delitto Matteotti.

Vedremo dopo perché.

Leggi tutto su http://carlobertani.blogspot.com/2017/12/strano-ma-vero.html

Birmania forever

Stavolta l’articolo è decisamente più lungo del solito, perché in realtà ce ne sono due: quello di Blondet e quello di Dezzani

(MB:  Che ci è andato a   fare El Papa in uno  stato buddhista, senza cristiani, per di più a prendere le parti della minoranza musulmana sovversiva, istigata dagli occidentali e dall’Arabia Saudita? Mi accingevo a scrivere un articolo per provare a spiegare – ma vedo che Federco Dezzani ne ha gà scritto uno molto  migliore. La sua frase chiave:

“Gli USA […] per aumentare la pressione mediatica su Rangoon si sono limitati ad inviare in viaggio apostolico Jorge Mario Bergoglio, che in Asia come in Medio Oriente, dimostra così di seguire pedissequamente l’agenda dei poteri che l’hanno portato al soglio petrino”.

 Esegue come un automa, o teleguidato, la politica che nell’area era stata dettata da Hillary e da Obama.  Una “politica papale” grottesca). 

“Crisi umanitaria” in Birmania: è sempre questione di petrolio e infrastrutture

29 novembre 2017da Federico Dezzani

 

Nella ex-Birmania, oggi Myanmar, è riesplosa la tensione tra la minoranza mussulmana e la maggioranza buddista. Washington e Londra hanno istallato ai vertici dello Stato il premio Nobel Aung San Suu Kyi, perché avvallasse la secessione della strategica regione mussulmana dell’Arkan. La giunta militare birmana, però, non intende cedere ed ha rafforzato i legami con la Cina: in palio ci sono i giacimenti di idrocarburi e la strategica via di comunicazione che unirebbe Pechino all’Oceano Indiano, senza passare dallo Stretto di Malacca. Si ripropone lo stesso schema sperimentato durante l’occupazione del Giappone, durante cui buddisti e mussulmani combatterono rispettivamente contro e a favore degli inglesi.

I mussulmani Rohingya, una vecchia conoscenza dell’impero britannico

Trascorrono gli anni, i decenni ed i secoli, ma la geopolitica non cambia e con lei restano immutati gli elementi basilari del contesto umano-geofrafico: divisioni religiose, minoranze etniche, catene montuose, stretti marittimi, vie di comunicazione, etc. etc. Certo, gli attori che si contendono l’egemonia non sono sempre gli stessi, ma il teatro dove si sfidano subisce pochissimi cambiamenti: è quindi sufficienti studiare cosa accade in passato, per capire il presente ed anticipare il futuro.

Corre l’anno 1942: l’impero nipponico è al suo apogeo, estendendosi dalla Manciuria alle isole Salomone, passando per la strategica Singapore che presidia lo Stretto di Malacca e separa l’Oceano Pacifico da quello Indiano. La Cina, schierata a fianco degli Alleati, riceve armi e mezzi attraverso una via di comunicazione costruita ad hoc: è la “Burma road” che consente ai rifornimenti angloamericani di passare dall’Oceano Indiano alla Cina continentale, attraverso la Birmania sotto controllo britannico. La volontà di tagliare questa strategica via di comunicazione, unita alla sete di materie prime, spinge Tokyo ad invadere la Birmania, partendo dalla Thailandia occupata.

Nel marzo 1942 cade la capitale Rangoon, obbligando gli inglesi a ritirarsi nella vicina India. I giapponesi possono avvalersi nella loro avanzata del sostegno di alcuni strati della popolazione birmana: i giovani nazionalisti ed i buddisti salutano con favore l’ingresso dell’occupante asiatico, che promette la liberazione dal giogo inglese. Al contrario, la minoranza mussulmana rimane fedele alla corona inglese e riceve armi ed equipaggiamenti da Londra per frenare la marcia dei giapponesi e dei loro alleati locali. La regione di Arkan, oggi Rakhine, è teatro di sanguinosi scontri etnici tra i buddisti-filogiapponesi ed i mussulmani-anglofili.Questi ultimi, concentrati nel litorale settentrionale, vicino al moderno Bangladesh, si chiamano Rohingya.

Una strategica via di comunicazione che unisce la Cina all’Oceano Indiano raggirando Singapore, la presenza di idrocarburi, una maggioranza buddista schierata su posizioni nazionaliste-militariste, una minoranza mussulmana su posizioni anglofile: sono questi gli elementi che, rimasti immutati a distanza di 75 anni, permettono di capire quanto sta avvenendo in Birmania.

Oggetto di un colpo di Stato di ispirazione socialista nel 1962, la Birmania rimane ai margini della Guerra Fredda. Fomentate nel 1988 alcune rivolte studentesche che anticipano la tentata rivoluzione colorata di Piazza Tienanmen, crollato il Muro di Berlino nel novembre 1989, anche Rangoon è sospinta dagli angloamericani verso “la democrazia”.

Nel maggio del 1990, si svolgono le prime elezioni libere dall’avvento dei militari, dominate dalla figura di Aung San Suu Kyi: figlia del “padre della patria” che contrattò con gli inglesi l’indipendenza del 1947, educata in Inghilterra, trascorsi alle Nazioni Unite, sposata con un cittadino britannico, Aung San ha tutte la carte in regola per traghettare la Birmania dall’economia pianificata al libero mercato. La giunta militare, conscia delle spinte centrifughe che attraversano il Paese, non ha però nessuna intenzione di abdicare: rifiutato l’esito delle elezioni, l’altisonante “Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo” scioglie l’assemblea ed arresta i leader politici d’opposizione. Lo smacco, per Washington e Londra, è cocente: assegnare il Premio Nobel per la Pace a Aung San Suu Kyi (1991) è una contromisura d’effetto, sebbene di scarsa efficacia. Gli anni ‘90 ed i primi dieci anni del XXI secolo trascorrono, infatti, senza che Rangoon mostri segni di ravvedimento, lasciando Aung San relegataagli arresti domiciliari.

D’altronde, le priorità degli Stati Uniti sono altre in quel momento: Bill Clinton deve espandere la NATO ad Est e ridisegnare i Balcani, George W. Bush sogna di ridisegnare il Medio Oriente e piantare la bandierina in Afghanistan, cuore dell’Eurasia. Mentre gli angloamericani dilapidano migliaia di miliardi di dollari in Iraq, la Cina cresce però vorticosamente: l’establishment liberal realizza che lo stesso Paese dove le aziende americane hanno delocalizzato sarà anche la maggior minaccia all’egemonia statunitense. Barack Hussein Obama lascia il Medio Oriente, dopo aver scientificamente appiccato l’incendio (Primavere Arabe del 2011), per focalizzarsi sull’Oceano Pacifico e su Pechino: è il “pivot to Asia”, che mira a contenere l’avanzata cinese con una serie di accordi politici-militari-economici (in primis, il TTP).

La Birmania, quindi, torna prioritaria. Il Segretario di Stato Hillary Clinton incontra Aung San Suu Kyi nel 2011, durante la sua visita ufficiale nel Paese asiatico1, ribadendo la predilezione di Washington per il Nobel della Pace, Nel 2015 si svolgono le elezioni legislative cui può partecipare anche la formazione della Aung San Suu Kyi, Lega Nazionale per la Democrazia: la vittoria arride, ovviamente, al “nuovo”. Alla Suu Kyi toccherebbe la presidenza, ma il passaporto britannico del defunto marito e dei figli le impediscono di assumere formalmente la carica, obbligandola ad assumere funzione equipollente di “Consigliera dello Myanmar”: con grande soddisfazione, Barack Obama riceve il premio Nobel alla Casa Bianca nel novembre 2016, affermando che è finalmente giunto il momento di revocare le sanzioni economiche alla Birmania2.

Il progetto di “democratizzazione” della Birmania contempla però, qui come in molte altre realtà (Russia, Iraq, Libia, Siria, etc. etc.), anche la frantumazione della Birmania, attraverso la secessione di importanti zone del Paese, dove vivono minoranze etniche e linguistiche. L’installazione ai vertici della Birmania di Aung San Suu Kyi dovrebbe infatti facilitare la secessione del mussulmano Arkan: la quasi concomitante comparsa nel 2016dell’Arakan Rohingya Salvation Army, formazione militare con forti legami con l’Arabia Saudita3, scatena la violenza nella regione e l’immediata reazione dello Stato centrale. Le tensioni riesplodono e, come ai tempi dell’occupazione giapponese, il Paese si polarizza: la giunta militare, espressione della maggioranza buddista-nazionalista, cerca appoggio presso la potenza asiatica emergente, la minoranza mussulmana, i celebri rohingya, è adoperata dagli angloamericani per i propri scopi.

Nel 2017, la potenza asiatica emergente non è ovviamente il Giappone, bensì la Cina: eppure l’interesse di Pechino per la Birmania è dettato dalle stesse ragioni che spinsero Tokyo ad allargare la propria sfera di influenza fino a Rangoon. Materie prime (la Birmania è un importante produttore di gas naturale e petrolio) e vie di comunicazioni. Come gli inglesi costruirono la “Burma Road” per raggiungere la Cina dall’Oceano Indiano, senza passare dallo Stretto di Malacca, oggi i cinesi progettano di sboccare sull’Oceano Indiano attraverso la Birmania, raggirando così Singapore ed un eventuale blocco angloamericano dello Stretto. La moderna “Burma Road” scorre, ovviamente, sui binari dei treni ad alta velocità/capacità ed è parte integrante della “Nuova Via della Seta”, il grande piano di infrastrutture ferroviarie/marittime/aeroportuali con cui la Cina vuole coprire l’intera Eurasia4.

La minoranza mussulmana dei rohingya è invece utile agli angloamericani come, e forse più, del 1942. Oltre ad essere in ottimi e storici con Londra e Washington, quest’etnia di fede islamica, da sempre ostile ai buddisti-nazionalisti, è concentrata nella regione dell’Arkan (oggi Rakhine) dove le ferrovie e gli oleodotti cinesi dovrebbero sfociare nell’Oceano Indiano5. La secessione della regione mussulmana, oltre a seppellire l’attuale Stato birmano, servirebbe quindi a vanificare la strategia di Pechino per raggirare lo Stretto di Malacca.

Gli angloamericani si sarebbero attesi dal premio Nobel una pubblica presa di posizione a favore dell’insurrezione mussulmana, primo passo verso l’indipendenza: la Aung San Suu Kyi, però, consapevole che tale mossa comporterebbe la sua immediata deposizione da parte della giunta militare che controlla ancora de facto il Paese,ha sinora taciuto, attirandosi pesantissime critiche dagli ambienti anglofoni che ne hanno curato l’ascesa.

La difesa dei rohingya è sinora toccato alla solita Amnesty International, basata a Londra, ed all’americanaHuman Rights Watch“Burma: Military Massacres Dozens in Rohingya Village6“Myanmar: contro i rohingya è pulizia etnica7”, etc. etc. Gli USA, attraverso il nuovo Segretario di Stato, Rex Tillerson, hanno avvalorato la tesi della “pulizia etnica” ai danni dei mussulmani, ma si sono sinora astenuti dall’imposizione di nuove sanzioni: per aumentare la pressione mediatica su Rangoon si sono limitati ad inviare in viaggio apostolico Jorge Mario Bergoglio, che in Asia come in Medio Oriente, dimostra così di seguire pedissequamente l’agenda dei poteri che l’hanno portato al soglio petrino.

 

 

Di fronte all’aumentare della violenza interna e degli assalti mediatico-diplomatici, la giunta militare ha reagito rafforzando ulteriormente il dialogo con la Cina: il comandante in capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, si è recentemente intrattenuto sei giorni a Pechino, incontrando il Presidente Xi Jinping ed il suo omologo cinese8. Un’analoga visita dovrebbe prossimamente essere svolta anche dalla Aung San Suu Kyi9, testimoniando che il Nobel per la Pace, di fronte al rischio di balcanizzazione del suo Paese, si sta allontanando dai vecchi mentori.

La dinamica di fondo, lo spostamento del potere da Washington a Pechino, gioca a favore della giunta militare e dell’integrità della Birmania. Qualche pericoloso colpo di coda da parte dell’impero angloamericano è però inevitabile: l’imposizione di nuove sanzioni o, più probabilmente, la comparsa anche a Rangoon e dintorni dell’ISIS e dei “mujaheddin stranieri”.


http://federicodezzani.altervista.org/crisi-umanitaria-in-birmania-e-sempre-questione-di-petrolio-e-infrastrutture/

e a parlare di Cristo è stata lei, la buddista. El Papa se l’è dimenticato

(Dal commento di Sandro Magister):

C’è stato un solo momento in cui è stato fatto il nome di Gesù e annunciato il suo Vangelo, nei discorsi della prima giornata della visita di papa Francesco in Myanmar.

Solo che a dire queste parole non è stato il papa, ma la consigliera di Stato e ministra degli esteri birmana Aung San Suu Kyi, di fede buddista:

Gesù stesso ci offre un ‘manuale’ di questa strategia di costruzione della pace nel  Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

“Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo”.

Una nobile lezione di  diplomazia, stile  e spiritualità,   per chi la vuol  capire.

L’articolo PERCHE’ MAI BERGOGLIO IN MYANMAR, SE NON IN MISSIONE “AMERICANA”? è tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.