Anche i nostri padri, la generazioni di quanti nacquero intorno al 1920, entrando nell’esercito avevano giurato fedeltà al sovrano, cioè a Vittorio Emanuele III di Savoia. Il quale ricambiò quel giuramento di fedeltà nel modo che sappiamo, l’8 e il 9 settembre 1943: piantandoli in asso, senza ordini, senza istruzioni, e mettendosi in salvo, mentre li abbandonava alla cattura e alla prigionia. Qui si vede la differenza fra casa Savoia e casa Asburgo. Francesco V non abbandonò i suoi soldati; Vittorio Emanuele III lo fece. Nostro padre, molti anni dopo la fine della guerra, tornò in Iugoslavia a recuperare la sua sciabola di ufficiale, che la sua vecchia padrona di casa gli aveva amorevolmente custodito, con non lieve rischio personale, per tutto quel tempo. Ora essa è là, in un angolo della casa paterna, malinconico ricordo di una promessa di fedeltà che fu mantenuta da una parte sola: dalla parte di quelli che giurarono, ma non da parte di colui al quale il giuramento venne fatto. Di quelle vicende nostro padre parlava poco, e forse poco volentieri; tenne sempre nel suo cuore i sentimenti che suscitò in lui, ex militare di carriera, quel giuramento non rispettato da parte del sovrano.
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