La domanda stessa è sbagliata: non c’è nessuno per cui votare. Il punto è che non abbiamo una classe dirigente. Meglio: la società italiana non sa e non vuole darsi una classe dirigente; essa esiste, ma la società non la riconosce quando la vede, e non la vota. Io stesso mi sono illuso che questa inedita alleanza 5Stelle e Lega potesse esprimere una classe dirigente: i 5 Stelle palesemente non sanno nemmeno cos’è, quindi non hanno fatto “selezione delle elites” – e Salvini palesemente non è all’altezza intellettuale che la crisi post-moderna esige e i trucchi sporchi che i poteri costituiti stanno giocandoci; anche se ce lo dobbiamo tenere caro, perché se sparisce lui, vanno al potere i puri e semplici collaborazionisti e traditori.
Se mi chiedo come va formata una classe dirigente – ossia responsabile verso la comunità (la patria) e insieme all’altezza culturale dei tempi – mi vengono in mente esempi della storia di grandi popoli.
Pietro il Grande (1672-1725) si accorse che la Russia non aveva una classe dirigente all’altezza dei tempi, e brutalmente impose l’occidentalizzazione, deformando forse per sempre l’anima russa. E soprattutto negli aspetti tecnologici, avendo sperimentato che l’arretratezza russa portava sconfitte militari: non a caso Toynbee lo definì “homo occidentalis mechanicus neobarbarus”. Ma trasformò i boiardi in una burocrazia militare e nazionale.
E nei suoi viaggi tra Amsterdam e Londra e Vienna, onnivoro e insaziabile volle vedere e studiare la zecca di Londra, gli ospedali, l’università; matematica e anatomia e chimica, strategia e (soprattutto) nautica militare: è celebre il fatto che lavorò in incognito, operaio fra gli operai, in un cantiere navale olandese: operazione che i dirigenti grillini desiderosi di “decrescita felice” farebbero bene ad imitare, e la Confindustria ad offrire loro in una serie di visite guidate alle superstiti industrie del Nord – per metterli al corrente delle complessità che ignorano.

Il Giappone si accorse, dopo l’intervento delle cannoniere dell’ammiraglio Perry (1853), che per mantenersi indipendente e sovrano doveva imparare dall’Occidente come farsi armi moderne, una base industriale, e non solo; anche armi culturali e giuridiche. “L’antico ordine sociale venne rovesciato e si elaborò un nuovo diritto, che aprì la strada alla costituzione di un’organizzazione capitalistica della produzione. Le corporazioni furono soppresse nel 1868. I samurai furono autorizzati a dedicarsi alle attività commerciali, i contadini venivano trasformati in proprietari. I samurai furono dapprima presi a carico dallo Stato”.
Centinaia di giovani nobili furono spediti all’estero con l’ordine di apprendere non solo le tecniche, dalle industrie alle ferrovie, ma le istituzioni e il diritto commerciale dell’Europa; essi dovevano farsi imprenditori – imprenditori-guerrieri, patrioti.
Allo stesso modo, la Turchia per diventare moderna andò a scuola della Prussia. E in Italia? Mi basti citare il ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile: il suo liceo classico – con la sua severità che faceva da selezione e sbarramento al facilismo italiota – mirava coscientemente a creare una classe dirigente capace di “imparare ad imparare” ed assumersi le responsabilità verso una nazione di cui (attraverso il latino e il greco) conosceva la profondità e il prestigio storico. Chi parla di studi “umanistici” non sa quello che dice: tutti i tecnici e scienziati, da Marconi ad Italo Balbo a Fermi o Federico Caffè, vengono da “studi classici”. Le scuole tecniche sono utili anzi necessarie, ma semplicemente non a formare una classe dirigente.
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