Il seguente articolo è tratto dal magazine on-line di analisi dei temi economici e sociali del Circolo SO.R.E.L. (Quaderni di Socialità Responsabilità Economia Lavoro), che intende offrire uno strumento trasversale per attualizzare i temi della partecipazione, del lavoro, della produzione e della democrazia diretta.
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Scisso tra il silenzio imbarazzato di molti e qualche flebile voce, interessata soprattutto alla dimensione estetica di quell’avventura, il centenario dell’impresa fiumana pare scivolar via senza che ci si ponga l’unica vera domanda che conta, se non si preferisce l’onanismo intellettuale alla capacità di trasformazione della realtà: a cent’anni dalla marcia dei legionari di Ronchi verso la “città olocausta”, qual è il lascito che può essere attualizzato di quell’esperienza?
A giudicare dall’urgenza delle sfide che la contemporaneità pone innanzi alle società europee, la Carta del Carnaro resta un faro che può illuminare la strada verso l’avvenire. In particolare, nel testo redatto da Gabriele D’Annunzio e da uno dei padri del sindacalismo rivoluzionario italiano, Alceste De Ambris, è soprattutto la carica social-rivoluzionaria a restare di cogente attualità. Già nel terzo articolo della Carta si definisce un concetto di sovranità inscindibile dalla dimensione sociale e dall’importanza del lavoro. «La Reggenza italiana del Carnaro è un governo schietto di popolo, “res populi” che ha per fondamento la potenza del lavoro produttivo», si legge. E, in un tempo in cui la terza età del capitalismo porta in dote disoccupazione strutturale e precarietà delle esistenze, non sarà inutile ricordare come tra le “credenze religiose” che chiudono la Carta del Carnaro (che nulla hanno a che vedere con le religioni, pur afferendo alla dimensione sacrale della vita) il lavoro è centrale perché «anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo». In una società in cui privatizzare è considerata una necessità e lo Stato arretra dinanzi all’aleatoria e prepotente aggressività del mercato, la Carta del Carnaro ci ricorda come lo Stato venga prima del proprietario, la comunità prima dell’individuo, la politica prima dell’economia. «Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro – recita il testo – Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale».
La Carta, poi, si apre con una dicitura significativa: “Della perpetua volontà popolare”. Oggi che esigenze e aspettative del popolo sono mortificate e la crisi della rappresentanza si mostra in tutta evidenza nelle degenerazioni dei sistemi capitalistici, si pone il dilemma di come costruire una diretta volontà popolare. Il binomio democrazia-liberalismo – imposto come elemento ineluttabile, come fosse un pleonasmo – va concettualmente spezzato. Ci può essere democrazia senza liberalismo, e su questo assioma va costruita l’alternativa. Ma non basta la denuncia intellettuale delle storture del presente – pur necessaria e auspicabile – per invertire la rotta. Servono competenze, alternative, proposte. Le sfide poste dall’automazione e dalla precarizzazione del lavoro, la mercificazione del mondo, la negazione del limite e la distruzione dei legami sociali, attendono risposte concrete, trasversali, radicali. Ma anche bagagli leggeri, menti aperte e una tremenda voglia di camminare.
Mario De Fazio
Parità fra i sessi, suffragio universale, eleggibilità delle donne a ogni carica, autonomia dei Comuni, istruzione primaria gratuita, assistenza sociale per gli ammalati e per i poveri. Tutto questo accompagnato da uno spiccato mecenatismo artistico-culturale, amore per il Comune-Stato che ricorda l’Italia del Cinquecento e una Costituzione all’avanguardia in Europa. Non è la descrizione di un sogno ma del periodo a cavallo fra il 12 settembre 1919 e il 25 dicembre del 1920, a Fiume, dove Gabriele d’Annunzio, per ribellione e sfregio alla Società delle Nazioni e per rivendicare una terra che era italiana creò lo Stato libero di Fiume. D’Annunzio occupò la città con una sua vera e propria “Compagnia di ventura”, fatta da nazionalisti, arditi della Prima guerra mondiale e volontari, fu l’incontro fra la Rivoluzione, che in seguito con quella stessa visione del mondo fu incarnata dal Fascismo, e la Reazione, incarnata dal mecenatismo, dalla guida di un esercito che reagiva alle decisioni della democratica Società delle nazioni. Lì si incontrarono militari, avventurieri, intellettuali, scrittori, patrioti che non volevano rinunziare a quel lembo di Italia.
Tutti contro la borghesia, sia quella di sinistra, massonica e esperta di traffici vari, sia quella affarista e liberaldemocratica, che aveva spinto gli Italiani ad andare in prima linea e, dopo la guerra, intendeva riprendere i propri traffici. Fra questi intellettuali particolari, due avevano particolare creatività: Guido Keller, uno dei migliori aviatori della squadriglia di Francesco Baracca, eroe di guerra, artista a modo suo, futurista e legionario fra i pù vicini a d’Annunzio: l’unico che gli dava del tu. Girava nudo con un’aquila sulla spalla, era salutista, nudista, bisessuale. Subito legò con un altro intellettuale sui generis, Giovanni Comisso, che disertò dall’esercito italiano per passare con la legione di d’Annunzio. Nella primavera del 1920 fondarono un’associazione: “Yoga”. (Yoga significa “unire”). Si tenevano riunioni aperte a tutti su aspetti culturali controversi: l’organizzazione dell’esercito, il libero amore, la nuova urbanistica, l’abolizione del denaro e, a novembre, fondarono la rivista “Yoga” con la testata fra due svastiche, simbolo della rinascita, della ripartenza, con una scritta sotto la testata: “Unione degli spiriti liberi tendenti alla perfezione”. Una rivista che era un grido di adesione a d’Annunzio e alla “Carta del Carnaro”.
A ripercorrere tutta questa storia con la riproduzione integrale di tutto il pubblicato della rivista (quattro fascicoli di difficilissima reperibilità) ci ha pensato Simonetta Bartolini, docente di Letteratura italiana contemporanea, una dei massimi esperti della letteratura del Novecento. Il libro (“Yoga”. Sovversivi e rivoluzionari con d’Annunzio a Fiume, Luni editrice, pagg. 380, euro 25,00) si avvale di un ampio saggio introduttivo e della riproduzione di tutto il pubblicato. Un libro di grande interesse per comprendere una componente poco conosciuta della cultura dell’Impresa fiumana. Ma Yoga cosa doveva unire? L’arcaico e il futuro, contro la modernità. Alla base, il culto dell’individuo e dello spirito, incarnato in una società governata da una aristocrazia guerriera, con una comunità che si richiama alla bellezza e fonda un’inedita morale. Una visione nietzscheana o, meglio ancora, dannunziana. In quelle pagine c’era già tutto, in maniera sorprendente: la critica contro la democrazia liberale, la globalizzazione (allora chiamata internazionalismo) contro la borghesia e contro l’industrializzazione che, grazie al capitalismo, ridusse in schiavitù masse di lavoratori (“industrie parassitarie”). Ma anche il richiamo alle tradizioni, al “genio italico” che i popoli tedesco, francese e inglese cercavano di soffocare, il richiamo alla sovranità monetaria per evitare che i popoli del Nord Europa potessero sottomettere il resto del mondo. A Fiume avevano capito tutto con decenni di anticipo.
*Yoga”. Sovversivi e rivoluzionari con d’Annunzio a Fiume, di Simonetta Bartolini, Luni editrice, pagg. 380, euro 25,00
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