I droni da ricognizione tattica iraniani hanno intercettato la portaerei statunitense USS Nimitz e il suo gruppo d’attacco già da quando sono entrati nello Stretto di Hormuz.
“ In questa operazione di tracciamento sono coinvolte la portaerei USS Nimitz insieme a 2 cacciatorpediniere (numerati) 114 e 104, navi da guerra 58 e 59, due piccole corazzate di pattuglia 9 e 12, e la nave della guardia costiera della Marina statunitense 1333. Gli Usa sono stati intercettati prima di entrare nello Stretto di Hormuz e nel Golfo Persico ”, ha spiegato il comandante della Forza Navale dei Guardiani del Corpo della Rivoluzione Islamica (IRGC), Contrammiraglio Ali Reza Tangsiri.
In un discorso tenuto questo mercoledì a margine di una cerimonia tenutasi nella città di Bandar Abás, nel sud dell’Iran, per l’incorporazione di 188 nuovi droni ed elicotteri alla Marina dell’IRGC , il comandante persiano ha apprezzato che il monitoraggio di tutto il Gofo Persico, dello stretto di Ormuz e del mare di Oman sarà possibile grazie a questi nuovi mezzi. Con questi nuovi velivoli saranno possibili spostamenti rapidi nel Golfo Persico, nello Stretto di Hormuz e nel Mare di Oman.
Durante questa cerimonia, hanno anche presentato per la prima volta tre tipi di droni navali a decollo e atterraggio verticale (VTOL), chiamati Sepehr, Shahab-2 e Hodhod-4, in grado di scattare foto e video di bersagli fissi. e cellulari nelle operazioni di combattimento.
Foto portaerei USA ripresa da drone iraniano
Nuovi missili anti nave
Inoltre l’Iran ha compiuto di recente un nuovo passo nel programma di potenziamento delle sue difese missilistiche visto che un nuovo vettore antinave sarebbe entrato a disposizione della marina Iraniana, come aveva annunciato l’ammiraglio Alireza Tangsiri, parlando all’agenzia di stampa Tasnim. Il nuovo missile dovrebbe essere un aggiornamento del Hormuz-2 (basato sul Fateh-110) e permetterebbe di colpire un bersaglio navale posto fino a 700 chilometri di distanza, contro i “soli” 300 chilometri di gittata della precedente versione.
Questa nuova arma assicurerebbe alla Marina del Corpo delle guardie della rivoluzione la capacità di mettere sotto controllo tutte le navi militari in navigazione e ormeggiate in tutto il golfo Persico e nella zona nord-occidentale dell’Oceano Indiano. Le forze missilistiche iraniane sarebbero quindi in grado di colpire qualsiasi obiettivo in tutta l’area del Golfo Persico e delle sue propaggini.
Missili iraniani Hormuz 2 in lanci di esercitazione
Un potenziale ulteriore campanello d’allarme per gli Stati Uniti che hanno inviato un gruppo d’attacco da pochi giorni nel Golfo persico dove si teme che una possibile provoczione possa far scoppiare un conflitto.
Le autorità iraniane hanno avvertito che risponderanno a qualsiasi provocazione e in questo momento le misure decretate e annunciate da Pompeo prevedono l’embargo totale contro la Repubblica Islamica dell’Iran. Questo significa che, se la Marina USA sequestrerà navi commerciali iraniane in acque internazionali, l’Iran considererebbe questo un atto di guerra e non esiterebbe a rispondere. Probabilmente, come dicono vari osservatori, questo è esattamente lo scenario che Washington (e Israele) vuole provocare per avere una giustificazione per un attacco aeronavale contro l’Iran.
Il gioco si fa molto rischioso mentre il gruppo d’attacco della US. Navy solca le acque del Golfo Persico sotto lo sguardo vigile delle forze iraniane (e dei satelliti russi).
Secondo una fonte russa, a Sochi, il 14 Settembre si è svolta un riunione di vertice fra il presidente Putin e il leader bielorusso Lukashenko. Mentre i due leader stavano negoziando, sono apparsi 3 aerei, bombardieri USA B52 Stratofortress, volando dalla nase aerea di Norfolk in Gran Bretagna e appoggiati da 3 caccia bombardieri F-35 che si sono avvicinanti alla zona del Mar Nero prospicente a Sochi, assieme a 3 aerei Sentinel della RAF britannica e due aerei Tank USA per rifornimenti e questo è stato interpretato come una possibile minaccia per il presidente russo, tanto che il comando russo ha messo in allarme la difesa aerea di Mosca.
Non è chiaro se questa era una semplice esercitazione o una strategia per portare un attacco contro la Russia eliminando in un colpo solo i due leader che si trovavano in riunione in quel momento. Nessuno è in grado di dirlo ma niente si può escludere.
Le provocazioni degli USA e della NATO in questo periodo sono frequenti e avvengono “a pelo” dello spazio aereo russo sul Mar Nero e sul Mar Baltico, includendo l’utilizzo delle fortezze volanti, B-52 Stratofortress , aerei in grado di portare ordigni nucleari.
Mig-31 Difesa aerea russa
In risposta si sono alzati in volo due “cigni bianchi”, bombardieri strategici russi TU-160 M, armati di missili, che sono costantemente in volo e Mosca li ha fatti posizionari sul mare del nord nelle vicinanze della Norvegia, sul mare di Barents, per farli entrare in azione sulla Gran Bretagna in caso di necessità, accompagnati da 4 caccia Mig-31 e da un aereo da comunicazione e appoggio che faceva da tramite.
L’informazione è confermata dal canale Telegram che segue tutti i voli che avvengono sui cieli europei e che ha fornito anche i numeri di matricola degli aerei.
In caso di attacco alla Russia, la dottrina di risposta russa prevede di colpire la Gran Bretagna e Londra in particolare come principale nemico strategico in Europa e questo spiega perchè la rappresaglia russa sarebbe diretta in questo caso contro le basi militari in Gran Bretagna.
Aerei russi TU-160 “Cigno Bianco”
E significativo che in questo periodo avvengono frequenti voli di fortezze volanti B-52 Stratofortress nei cieli dell’ Ucraina dove il Pentagono ha preso il comando delle forze presenti nel paese e utilizzano le forze speciali statunitensi e canadesi che operano nella stessa Ucraina.
Questo è inteso come una minaccia dalle autorità russe assieme al posizionamento dei missili antiaerei Patriot che il Pentagono ha installato in tutti i paesi dell’est confinanti con la Russia, dal Baltico alla Romania e alla Georgia. Naturalmente di quanto accade nei cieli dell’Europa la cittadinanza europea non è assolutamente informata e i movimenti di queste froze aeree non sono rilevanti per i media e per le fonti di informazioni ufficali.
Si continua a ballare sul “Titanic”.
Cento milioni di dosi di Sputnik V, il vaccino russo in fase di sviluppo contro il Covid-19, saranno fornite a diverse nazioni latinoamericane una volta completate le loro prove, come indicato dal Fondo per gli investimenti diretti di quel paese europeo.
Secondo quanto indicato da Kiril Dmitriev, il capo del citato fondo russo, il 9 settembre si è convenuto di inviare 32 milioni di dosi in Messico e, successivamente, sono stati stipulati accordi per inviarne fino a 100 milioni in più a vari paesi della regione.
“Ora, la questione più complessa è produrre un numero sufficiente di vaccini per soddisfare la domanda. Siamo disposti a firmare accordi con diversi paesi, ma per noi èimportante farlo in modo responsabile in base alle capacità di produzione”, ha detto l’alto funzionario.
Tra le nazioni che riceverebbero le dosi dell’antidoto russo c’è il Brasile, dove il governo di Vladimir Putin ha già accettato di fornire vaccini allo Stato del Paraná.
Come azione complementare, la produzione congiunta di questo vaccino sarà avanzata in diversi laboratori brasiliani e si cercheranno accordi simili con le nazioni vicine.
L’obiettivo della Russia è produrre almeno 200 milioni di dosi entro la fine del 2020 in territori stranieri e raggiungere i 500 milioni nel corso del prossimo anno.
Il programma di sviluppo del vaccino Sputnik V prosegue nonostante le sanzioni degli USA.
Con questi e altri bombardieri strategici da attacco nucleare, compresi i B-2 Spirit, la US Air Force ha effettuato sull’Europa dal 2018 oltre 200 sortite, soprattutto sul Baltico e il Mar Nero a ridosso dello spazio aereo russo.
A queste esercitazioni partecipano i paesi europei della Nato, in particolare l’Italia. Quando il 28 agosto un B-52 ha sorvolato il nostro paese, gli si sono affiancati caccia italiani per simulare una missione congiunta di attacco.
Subito dopo cacciabombardieri Eurofighter Typhoon dell’Aeronautica italiana sono partiti per schierarsi nella base di Siauliai in Lituania, supportati da un centinaio di militari specializzati. A partire dal 1° settembre vi resteranno per 8 mesi, fino all’aprile 2021, per «difendere» lo spazio aereo del Baltico. È la quarta missione Nato di «polizia aerea» effettuata nel Baltico dalla nostra Aeronautica.
I caccia italiani sono pronti 24 ore su 24 allo scramble, al decollo su allarme per intercettare aerei «sconosciuti», che sono sempre aerei russi in volo tra qualche aeroporto interno e l’exclave russa di Kaliningrad attraverso lo spazio aereo internazionale sul Baltico.
La base lituana di Siauliai, in cui sono schierati, è stata potenziata dagli Stati uniti, che ne hanno triplicato la capacità investendovi 24 milioni di euro. Il perché è chiaro: la base aerea dista appena 220 km da Kaliningrad e 600 da San Pietroburgo, distanza che un caccia tipo l’Eurofighter Typhoon percorre in pochi minuti.
Perché la Nato schiera a ridosso della Russia questi e altri aerei a duplice capacità convenzionale e nucleare? Non certo per difendere i paesi baltici da un attacco russo che, se avvenisse, significherebbe l’inizio della guerra mondiale termonucleare. Lo stesso avverrebbe se gli aerei Nato attaccassero dal Baltico le città russe limitrofe.
La vera ragione di tale schieramento è quella di accrescere la tensione, fabbricando l’immagine di un pericoloso nemico, la Russia, che si prepara ad attaccare l’Europa. È la strategia della tensione attuata da Washington, con la complicità dei governi e dei parlamenti europei e della stessa Unione europea.
Tale strategia comporta un crescente aumento della spesa militare a scapito di quella sociale. Un esempio: il costo di un’ora di volo di un caccia Eurofighter è stato calcolato dalla stessa Aeronautica in 66.000 euro (compreso l’ammortamento dell’aereo). Una somma, in denaro pubblico, superiore a due retribuzioni medie lorde annue.
Ogni volta che un Eurofighter decolla per «difendere» lo spazio aereo del Baltico, brucia in un’ora, in Italia, due posti di lavoro.
Mi hanno sempre affascinato gli spruzzi del mare che si infrange sul muretto del Melecon e la storia di un popolo, descritto come fiero e dignitoso, che ha lottato contro l’imperialismo statunitense.
E così, per festeggiare il 40esimo anniversario di matrimonio, ho deciso insieme a mio marito, di andare a visitare la capitale di Cuba dopo un breve soggiorno sulle spiagge.
Il Melecon l’ho percorso, una domenica mattina, per un lungo tratto, circa 5 chilometri, dal quartiere Avedado all’Avana Vecchia. Più che una passeggiata è, eccezion fatta dell’ultima parte più frequentata, un percorso ad ostacoli disseminato di tombini aperti di dimensioni anche ragguardevoli, di voragini più o meno profonde, di lunghi tratti sconnessi in cui dell’asfalto resta un lontano ricordo.
Dall’altra parte della strada, cantieri che hanno tutta l’aria di essere fermi, propongono dai loro cartelloni progetti di grattacieli dalle architetture avveniristiche mentre si alternano sul lungomare edifici , che pur ostentando una loro originaria bellezza sono vittime di un profondo degrado dovuto ad una prolungata trascuratezza, e costruzioni minimali nate solo per dare ricovero, prive di qualsiasi testimonianza di amore verso di esse e di vita al loro interno, tranne che per poveri panni stesi penzolanti da finestre senza infissi che si affacciano sul mare come occhi perennemente spalancati.
L’Avana vecchia ripete lo stesso copione, tra marciapiedi dissestati o quasi interamente sbriciolati, buche e ruscelletti dovuti a perdite d’acqua dalla rete idrica (nella casa particular che ci ha ospitati l’acqua scendeva dal rubinetto in un sottilissimo filo) si possono ancora trovare, tra edifici cadenti ornati da matasse inestricabili di fili elettrici, scorci affascinanti con case in stile coloniale ben conservate, che spesso ospitano piccoli musei, mostre o librerie, viuzze pulite e aiuole con panchine.
Decine di minuscoli negozietti vendono gli stessi identici articoli, alcuni si improvvisano venditori esponendo una manciata di questi sui gradini delle strette e ripide scale negli ingressi, senza portoni, di palazzine fatiscenti.
Da turisti ci siamo sentiti un po’ fuori luogo e visti solamente come una macchinetta sputasoldi. Ogni pochi metri trovi chi ti vuole proporre dove andare a mangiare, a comprare sigari, chi ti propone taxi, cocotaxi, bicitaxi. Taxisti che mentre guidano attirano l’attenzione di chi cammina per strada suonando, praticamente in continuazione, il clacson dando vita a vere e proprie jam session.
Il tutto immerso nella luce abbacinante del sole caraibico, nel fumo dei tubi di scappamento di eroici veicoli che sfidano il tempo, in odori pungenti di urina e fognature, nelle note di musica che a un certo punto smetti di chiederti da dove provenga perché sembra far parte dell’aria che respiri.
Fuori città le immancabili baraccopoli stanno a testimoniare, insieme a chi ti ferma per strada per chiedere soldi, che L’Avana, in fondo, non è dissimile da tutte le altre capitali del mondo.
Fuori dal centro le auto che percorrono le strade diventano sempre più rare per lasciare posto a bus (cinesi) che trasferiscono turisti, a scooter, camioncini che trasportano persone, biciclette, carretti trainati da un cavallo.
In città svettano grattacieli di 20 piani, e anche più, che ospitano hotel, ma anche cliniche ospedaliere, ognuna dedicata ad una branca specialistica. Università e Casa degli Studenti sono imponenti.
Le fermate dei vecchi bus che arrancano faticosamente sono sempre affollatissime.
A parte alcune zone, come ad esempio la bellissima Avenida del Paseo e alcune parti della città vecchia, le strade non godono propriamente di un servizio di nettezza urbana.
Quello che viene citato dalle guide come “centro commerciale” è in realtà una anonima costruzione di architettura “moderna” con all’interno una salita vagamente elicoidale, dalla cui pavimentazione mancano alcuni piastroni, che porta ad un piano dove si trovano un negozio di articoli elettronici, uno di articoli per la casa – la maggior parte ancora imballati negli scatoloni impilati al centro del locale – , uno di abbigliamento, una pelletteria ed una profumeria. Nel bar mi dicono che si suoni musica jazz cubana.
Ma agli Avanensi sembra importare poco, specialmente ai giovani concentrati sui loro smartphone e sulla cura del loro aspetto, delle contraddizioni di questa città che vede Mercedes ultimo modello sfrecciare accanto a vecchie Lada, villette ben curate accanto a palazzine diroccate, preferiscono non pensarci stordendosi di alcool e musica, quasi ad impedire di svegliarsi da un sogno, quel sogno di giustizia sociale per cui ha dato la vita il celebrato Comandante Che Guevara, quel sogno con cui Castro ha vinto un braccio di ferro contro l’imperialismo statunitense facendo pagare il prezzo di quella vittoria al popolo cubano – lui non ha sofferto delle privazioni causate dall’embargo- , quel sogno che, a quanto pare, a Cuba non si è realizzato.
Ciò che colpisce, sono le cifre che la Cina ha messo in gioco per assicurare la Grecia al suo progetto. Al Pireo, fino ad oggi, COSCO ha investito – in un decennio – 800 milioni di euro, cifra che è bastata per trasformare l’antico porto nell’hub delle esportazioni cinesi verso la UE, e farlo passare dalla capacità di gestire 685 mila containers che aveva nel 2010, a 5 milioni di oggi, un aumento di 8 volte. Passa di lì il 10 per cento delle merci cinesi esportate in Europa. Nei prossimi 5 anni, i cinesi intendono investire altri 600 milioni di euro nel Pireo, espandere ulteriormente il porto container ed “entrare sempre più nel settore alberghiero e nelle crociere”. Il numero di turisti cinesi che visitano la Greci raddoppia da un anno all’altro, e nel 2020 sarà sui 400-500 mila presenze; sicché la Cina ha inaugurato un volo diretto Shanghai-Athene.
Nell’insieme, gli investimenti che la Cina ha programmato di fare in Grecia sono di 3 miliardi di euro in 5 anni, ossia 600 milioni di euro l’anno.
Sottolineo, di queste cifre, la levità. La piccolezza. Niente che non fosse alla facile portata della Germania, col suo surplus annuo di export di 250 miliardi; basta pensare alle centinaia di miliardi che Deutsche Bank e Commerzbank hanno sprecato in cattivi investimenti dovunque nel mondo tranne in Europa, dalla Turchia a Wall Street , per mancanza di occasioni d’investimento in Europa data l’austerità che Berlino ha imposto a tutti membri. Col risultato che “le imprese tedesche hanno investito i loro profitti all’estero, aiutando di fatto a finanziare le importazioni straniere” (Adam Tooze)
e senza ricavare profitti, tra l’altro. Ma che dico, mal investimenti? Basta paragonare i 3 miliardi cinesi in Grecia con i 12 miliardi che la sola Deutsche Bank ha pagato in multe per i suoi trucchi sul Libor ed altre malversazioni agli … Stati Uniti.
Con 600 milioni qui e là, in tutti questi anni, la Germania poteva tenersi legata la Grecia – facendo tra l’altro in buon affare (la COSCO dal porto del Pireo, ricava ovviamente profitti, avendone aumentato di un terzo la superficie e quadruplicato la redditività). Invece, che cosa è andata a fare la Merkel nelle sue visite ufficiali ad Atene? Mai a dare un soldo, ma questo è il meno; a fare della Grecia la discarica delle sue scelte migratorie dementi – senza alcun compenso. Ma questo non è ancora tutto. Quando la Merkel è comparsa in visita ad Atene, è stato per imporre , fra aspri rimproveri di “vivere al disopra dei propri mezzi” – al”suo” Tsipras, che ha reso il suo schiavo – di non spendere.
Apprendiamo infatti – dal China Daily – che nell’anno in corso, il governo conservatore di Atene ha approvato investimenti cinesi per 611,8 milioni di euro, “che erano stati precedentemente congelati dal governo di Tsipras per un periodo di 18 mesi” per il divieto imposto dalla UE.
Già, perché senza mai cacciare un centesimo, e continuando a rimproverare i greci di aver voluto vivere al disopra dei propri mezzi accettando di indebitarsi troppo con la banche germaniche e francesi, e quindi devono soffrire, per giunta Bruxelles (ossia Berlino) e la NATO (ossia gli USA) “dal punto di vista geopolitico, i partner occidentali sono preoccupati che il flirtare della Grecia con La Cina potrebbe indebolire il fianco sud-est della NATO e dell’UE”.
Stanno parlando del fianco sud-est già “indebolito” dalla Turchia di Erdogan . Della NATO in stato di “morte cerebrale” secondo il capo della sua maggior forza armata europea. Di Stati Unitidi cui persino la Merkel riconosce che non si può più confidare come difensori della UE. Gli Stati Uniti in condizione tale, che secondo un sondaggio Rasmussen in 2018 , il 31 % degli elettori americani ritengono che l’America “vedrà una seconda guerra civile nei prossimi 5 anni”, con i trumpisti armati contro gli anti-Trump.
Circa 18000 combattenti hanno lasciato la Cina per Idlib, dal 2015 hanno la loro enclave al-Zanbaqi al confine con la Turchia. Attualmente ci sono circa 40000 uiguri a Idlib, tra cui donne e bambini.
Molta attenzione è stata (recentemente) rivolta agli uiguri dai media occidentali. Improvvisamente gli uiguri sono al centro dell’attenzione occidentale, perché? Per ragioni democratiche o umanitarie? No, in ogni caso gli uiguri non sono importanti per l’occidente come gruppo. Vivono nella provincia più occidentale della Cina; Xinjiang, situata sulla Via della Seta. Appartengono alla fede musulmana (sunniti) e hanno stretti rapporti con la Turchia (la loro lingua è legata al turco e molti uiguri parlano turco). In Cina, dato il comunismo (si può effettivamente parlare di comunismo capitalista), alla gente non piace vedere una prominenza della religione. Molte fonti parlano dell’oppressione degli uiguri, ma non ci sono prove reali. Ecco perché così tanti uiguri (18000 sono solo una stima approssimativa) sono partiti per la Siria e in particolare per Idlib. che confina con la Turchia e ha un proprio partito; il Partito islamico del Turqistan (TIP), sotto la supervisione del servizio segreto turco e dagli stretti legami cogli altri gruppi presenti a Idlib: Tahir Ahrar al-Sham, al-Qaida e SIIL. Si dice che gli uiguri del Partito islamico del Turqistan abbiano trasformato la città di al-Zanbaqi (proprio al confine turco) in un campo isolato (enclave). Non sappiamo molto di ciò vi succede, è una città proibita. Questi uiguri affermano di essere al-Qaida e si rifiutano di tornare in Cina (dove sarebbero perseguiti e molto probabilmente condannati a morte).
I jihadisti a Idlib
La popolazione siriana è ancora presente a Idlib: secondo le informazioni dell’Ufficio centrale di statistica della Siria, Idlib aveva una popolazione di 98791 abitanti nel 2004 e nel 2011 era di circa 165000. Prima che i jihadisti (compresi gli uiguri) iniziassero il terrorismo contro la popolazione siriana e dichiarassero la cosiddetta rivoluzione, col sostegno dell’occidente, gli abitanti erano principalmente musulmani sunniti, ma c’era anche una minoranza cristiana. La minoranza cristiana fu costretta a “islamizzarsi” e i restanti sunniti siriani dovettero partecipare alle pressioni di tali jihadisti sponsorizzati dall’occidente. La propaganda dei media occidentali è che l’Aeronautica siriana in cooperazione coi russi bombarda e uccide (su vasta scala) la popolazione siriana a Idlib. La vera storia è che i jihadisti (compresi gli uiguri), lentamente ma inesorabilmente uccidono il popolo siriano, confiscano le terre agricole di cristiani e sunniti, confiscando case e trasformano le donne in schiave. Fortunatamente, la maggior parte della popolazione siriana fuggì, circa 66000 nel 2011, e diverse migliaia negli anni successivi. La Siria bombarda principalmente le case vuote in cui i jihadisti si sono trincerati e anche l’enclave degli uiguri. Naturalmente vi sono vittime civili, come in tutte le guerre. Ma la maggior parte dei morti sono jihadisti e i loro aiutanti caschi bianchi, di al-Qaida. Anche gli ospedali da campo dei jihadisti vengono bombardati (questi non sono ospedali dello Stato siriano). I cittadini siriani che vivono ancora a Idlib e dintorni non ricevono assistenza medica e vivono con 20-30 dollari al mese se sono fortunati.
Conclusione
Di recente, 22 Paesi firmavano una dichiarazione per porre fine a detenzione forzata e violazioni dei diritti contro musulmani e minoranze nei “campi di concentramento” nella regione autonoma dello Xinjiang nella Cina nord-occidentale. Sulla base di certe fonti, gli uiguri sarebbero radicalizzati, anche se l’occidente chiama questo campo di rieducazione. Tale protesta dall’occidente è legata alle gravi perdite ad Idlib. L’occidente, il solo ad aver firmato tale dichiarazione, sponsorizza (o ha sponsorizzato) molti cosiddetti gruppi di “opposizione” a Idlib, come i caschi bianchi (al-Qaida) e altri 22 gruppi tra cui Jaysh al-Islam (ora Ahrar al-Sham). Se Idlib cadesse, i restanti jihadisti potranno ritornare in Europa, solo gli uiguri non possono tornare, la Cina li condannerà a morte! Erdogan della Turchia recentemente visitava la Cina cercando un equilibrio in questa difficile situazione. Da un lato, il Paese non può permettersi di entrare in conflitto con la Cina e la Russia. Nel frattempo la Turchia è “passata” al campo geopolitico di Russia e Cina, ricevendo i missili S-400 acquistati in Russia, venendo quindi sanzionata dall’UE. Resta il fatto che la Turchia in effetti sponsorizza i jihadisti e riceveva petrolio dallo SIIL nel 2016, venduto in Europa. Si svolge un gioco difficile.
Mentre unità navali della NATO stanno pattugliando il Mar Nero a poche miglia dalle coste russe, nel porto di Cuba sono arrivate alcune navi della Flotta del Nord della Marina Militare russa .
Queste navi, capitanate dalla fregata lanciamissili, Ammiraglio Gorshkov, si trovano al largo dell’isola di Cuba, in un’operazione di pattugliamento della costa cubana, decisa alcuni giorni fa da Mosca.
La presenza delle unità navali russe, testimonia i nuovi rapporti di collaborazione tra i due paesi in un momento delicato per l’isola fatta oggetto di minacce e ritorsioni dagli Usa a causa dei rapporti di cooperazione con il Venezuela. Le esercitazioni navali in acque cubane erano frequenti fino agli anni’90, quando la flotta sovietica si spostava di fequente a Cuba.
Le navi, arrivate da due giorni al largo della capitale l’Avana, dove è prevista una visita di cortesia degli ufficiali russi alle autorità cubane e scambi di informazioni.. Insieme alla fregata sono entrate in porto la nave logistica Elbrus e il rimorchiatore Nikolai Chiker.
La partenza delle unità navali russe era avvenuta dal porto di Severomorsk lo scorso 26 febbraio. Dall’inizio del viaggio hanno già percorso circa 28.000 miglia nautiche. Specialisti militari americani hanno calcolato che, la fregata Ammiraglio Gorshkov, con i suoi missili ipersonici potrebbe raggiungere abiettivi situati sulla costa degli Stati Uniti in soli 6,1 minuti sulla base della distanza di 234 miglia circa che separa la Habana dalla Florida secondo informazioni degli specialisti militari.
Ammiraglio Gorshkov
Questi missili possono colpire obiettivi in movimento che volino anche all’altezza di soli 10 Mt. e ad una velocità di 960 Mt. al secondo, mettendo in rilievo che il missile USA Tomahawk può arriare a solo un terzo di questa velocità.
La nave russa menzionata è anche equipaggiata con
con la Filin 5P-42, un aparato di interferenze optico-visuali, in grado di sparare un fascio di laser che possono annientare un obiettivo a lunga distanza in un meccanismo di difesa integrata.
Questa tecnologia può intercettare vari tipi di missili a corta distanza, sopprimere laser infrarossi e dispositivi di visione notturna.
In una dimostrazione di forza che ha innervosito le autorità statunitensi, la fregata Ammiraglio Gorshkov è armata con un cannone a poppa da 130 mm., mdettendo in evidenza che le unità navali USA dispongono di un armamento inferiore di 57 mm.
La presenza di queste navi russe potrebbe rappresentare una minaccia per la Florida, in una situazione simile a quella che si affrontò durante la crisi dei missili di Cuba negli anni ’60. Lo schieramento di queste navi avviene nel mezzo delle tensioni registrate fra Washington e La Havana ed è entrato in una nuova fase segnata da frequenti contatti di alto livello fra la flotta russa e quella cubana. Questo rappresenta una fattore di disturbo per le autorità statunitensi.
Con la fine dell’inverno e la prevedibile re-intensificazione dei movimenti di migranti dalla Bosnia e dalla Serbia verso l’Europa occidentale e settentrionale, Trieste si accinge ad affrontare il quinto anno consecutivo come snodo importante, ormai tra i principali, della cosiddetta “rotta balcanica”[1]. Il lasso di tempo considerato fa riferimento alla nascita mediatica del termine “rotta balcanica” nell’estate del 2015, quando flussi massicci di profughi sfociati in una crisi internazionale fecero conoscere al grande pubblico l’esistenza di una via di accesso alle frontiere europee per i migranti provenienti da Medio Oriente e Asia; una rotta che in realtà era praticata già da almeno un decennio. Incongruenze anagrafiche si riscontrano anche per le successive vicende della rotta balcanica: data per morta nel marzo 2016 in seguito agli accordi tra Unione Europea e Turchia, essa ha in realtà ripreso vigore già pochi mesi dopo. Nel giro di un paio di anni, più precisamente a partire dall’estate del 2018, il flusso di migranti in viaggio su di essa, per numeri e condizioni di vita drammatiche se non per l’interesse suscitato, ha eguagliato la situazione immediatamente precedente alla crisi del 2015.
Sulla rotta balcanica occorre procedere con ordine. Una più realistica ricostruzione cronologica del fenomeno potrebbe datarla intorno alla metà degli anni 2000. Il movimento di profughi provenienti principalmente dall’Afghanistan e dalle zone di Iraq e Turchia abitate da curdi si verificava allora sottotraccia rispetto alla rotta del Mediterraneo centrale attraverso il Canale di Sicilia, una costante fino alla crisi del 2015. La rotta di terra balcanica rivestiva un’importanza marginale per i profughi provenienti da est rispetto alle direttrici marittime: quella dalla Turchia verso le coste calabresi, usata in particolare dai curdi tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, e quella da Patrasso e Igoumenitsa in Grecia verso i porti adriatici della penisola, praticata in maniera sempre maggiore da afghani. Gli aumentati controlli nei porti di partenza e i frequenti respingimenti da quelli d’arrivo come Venezia, Ancona e Bari, spinsero una porzione progressivamente più ampia di migranti a tentare la risalita della Penisola Balcanica nell’entroterra, attraverso Macedonia, Serbia e Ungheria. La rotta di terra permetteva un viaggio più diretto a chi entrava in Grecia dalla Turchia passando il fiume Evros, piuttosto che non attraverso il Mar Egeo, e permetteva di evitare le lunghe attese nei porti greci prima di riuscire ad imbarcarsi per l’Italia. A giudicare dai dati disponibili[2], il sorpasso avvenne tra il 2012 e il 2013. Proprio a partire da quegli anni, infatti, si verificò un nuovo fenomeno: l’arrivo in Turchia di milioni di rifugiati dalla guerra in Siria, che presto iniziarono a defluire dal paese anatolico per cercare di raggiungere l’Europa centrale e settentrionale. L’arrivo dei siriani creò le premesse per un cambiamento radicale, in termini di numeri e di visibilità mediatica: nel giro di due anni la “rotta balcanica” avrebbe strappato a quella mediterranea il primato su entrambi i fronti.
Non servirà soffermarsi sugli eventi tra il settembre 2015 ed il marzo 2016, quando il cosiddetto “corridoio umanitario” fece affluire attraverso i paesi della ex-Jugoslavia quasi un milione di persone. Sarà forse invece più utile sottolineare come la chiusura dei confini e gli accordi con la Turchia, che in cambio di cospicui finanziamenti prevedevano che i migranti giunti in Grecia vi venissero riammessi e scambiati con richiedenti asilo di nazionalità unicamente siriana da ricollocare all’interno dell’Unione Europea, non hanno che momentaneamente bloccato o ridotto i flussi lungo la rotta balcanica. Nel 2016 e 2017 decine di migliaia di migranti si sono concentrati principalmente in Grecia e in Serbia, attendendo l’occasione giusta per proseguire il loro viaggio, tornato ad essere, improvvisamente e con gran beneficio dei trafficanti, più arduo e costoso. Il lessico transnazionale dei migranti si è arricchito in questi anni di un nuovo termine-chiave: il “game”, giocare il quale indica il ripartire dopo un periodo di attesa forzosa in una delle tappe obbligate prima di un confine particolarmente ostico, il riprovare il passaggio di livello nella interminabile partita con la polizia. Dall’inizio del 2018, dati i respingimenti sempre più sistematici da parte degli agenti croati lungo il confine con la Serbia, relativamente breve e facilmente controllabile, la gran parte dei migranti bloccati in questo paese si sono spostati verso la Bosnia. In particolare, una forte concentrazione di migranti si è creata nel cantone dell’Una-Sava, la punta settentrionale del paese ed il punto più vicino all’ambito confine esterno di Schengen e a Trieste. Ma vediamo come la rotta balcanica ha influenzato la situazione a Trieste nel corso degli ultimi anni.
Nel 2015-2016, la nuova direttrice di transito attraverso i Balcani ebbe l’effetto di togliere centralità all’Italia come tappa obbligata per un numero di profughi di varia nazionalità: in particolare sparirono quasi del tutto i già menzionati afghani e curdi (in gran parte iracheni) che, anche quando diretti verso Scandinavia, Belgio o Germania, utilizzavano Roma o Milano come rendez-vous con i trafficanti che ne organizzavano gli spostamenti, permanendo per periodi anche lunghi e in diversi casi optando per chiedere asilo in Italia.
Al contrario, Trieste ed il Friuli Venezia-Giulia subirono l’influenza della rotta balcanica in maniera molto evidente, seppur per vie traverse. Una modesta percentuale dei profughi in transito lungo il corridoio umanitario balcanico, una volta giunta in Austria (o dalla Slovenia), optava infatti per puntare a Sud e venire in Italia, dove avevano parenti o conoscenti o dove speravano di avere maggiori possibilità di vedersi riconosciuto il diritto all’asilo (l’Italia offriva – e offre tuttora – ai cittadini afghani uno dei più alti tassi di riconoscimento in Europa). Questo flusso è cresciuto con l’aumento della componente pakistana tra i migranti della rotta balcanica: per i pakistani infatti l’Italia è di solito la prima scelta come meta di richiesta asilo e dalla metà del 2016 essi costituiscono la netta maggioranza dei richiedenti asilo in Friuli Venezia-Giulia (oltre che una delle nazionalità più numerose tra i richiedenti asilo in tutta Italia).
Un’altra componente fondamentale fra i richiedenti asilo a Trieste e in regione è costituita dai cosiddetti “Dublino”. Si tratta di richiedenti asilo che non hanno ottemperato alle clausole del trattato di Dublino, una serie di accordi tra i paesi UE che prevedono che il richiedente si fermi nel primo paese europeo dove giunge e viene identificato, che diventa quindi il suo paese di competenza. Fatte salve alcune eccezioni (come il blocco delle attivazioni dei casi Dublino verso la Grecia a partire dal 2009), gli evidenti squilibri di questo sistema, che mette in prima linea i paesi dell’Europa meridionale ed orientale, non hanno impedito ai paesi dell’Europa settentrionale di servirsene sistematicamente per scremare il numero di richieste di asilo da gestire. Così, ben prima della rotta balcanica, tra i richiedenti asilo a Trieste figurava già una cospicua popolazione di “Dublino” provenienti da Norvegia, Svezia, Danimarca o Gran Bretagna che, passati attraverso la penisola nel loro itinerario verso Nord, avevano lasciato le impronte e la competenza in Italia, e vi erano di conseguenza stati rispediti. Altri ancora erano riparati in Italia dopo che la loro richiesta di asilo nei paesi nordici aveva ricevuto esito negativo e si era profilata per loro la minaccia di una deportazione verso il paese di origine. Tecnicamente “Dublino” di competenza altrui, la farraginosità del sistema ed in particolare la lentezza delle istituzioni italiane nel richiedere ai paesi competenti la presa in carico dei soggetti, garantiva loro buone possibilità di una seconda chance di richiesta asilo. Questa tipologia di richiedenti asilo è aumentata esponenzialmente nei mesi successivi alla “fine” della rotta balcanica. Dalla metà del 2016 e per buona parte del 2017, uno stillicidio continuo di afghani e iracheni è giunto in Friuli Venezia-Giulia dai valichi alpini dopo aver ricevuto un esito negativo in Scandinavia o, molto più di frequente, dopo aver essersi visti costretti ad attendere tempi lunghissimi senza poter sostenere l’audizione per la richiesta asilo, mentre la priorità assoluta veniva data ai siriani, come successo regolarmente ad esempio in Germania. Da cui la decisione di molti di venire in Italia ed in particolare in Friuli Venezia-Giulia, unica regione dove già esistevano comunità di rifugiati loro compatrioti (ed un effetto di straniamento in regione dinnanzi alle minacce austriache di chiusura del Brennero e del Tarvisio in funzione anti-clandestini, in un momento in cui il flusso di migranti era diretto quasi unidirezionalmente da nord a sud).
L’effetto congiunto di questi due tipi di flussi, oltre ai più sporadici casi di arrivi via mare dalla Turchia, fece quasi quadruplicare, nell’arco di due anni, tra il 2015 ed il 2017, il numero dei richiedenti asilo a Trieste, che passarono da 350 a 1200. A partire dall’inizio del 2018, l’Italia ha iniziato ad attivare sistematicamente i casi Dublino, con un focus particolare sul Friuli Venezia-Giulia. Il risultato non è stato però una diminuzione dei flussi in arrivo dal Nord Europa, quanto una situazione di incertezza per i nuovi arrivati che, abbandonata la Germania o i paesi scandinavi, hanno preso a fare la spola tra Francia e Italia, cercando di far passare i termini per la decorrenza della competenza Dublino e poter così accedere all’audizione per la richiesta di asilo.
L’Imam ha propagandato l’odio contro tutti gli “infedeli” e ripetutamente chiamato ad attaccare rappresentanti di altre fedi. Ha pubblicato video in arabo sul famoso video hosting di YouTube, ma i moderatori e la gestione della piattaforma non hanno intrapreso alcuna azione di censura. Sfortunatamente, la polizia dello Sri Lanka, insieme alla piattaforma, ha ignorato la minaccia terroristica degli islamisti radicali, e alla fine questo ha portato a molte vittime.
Si sono verificate in totale otto esplosioni. L’oggetto dell’aggressione Gli islamisti divennero chiese cattoliche in tutto lo Sri Lanka, così come gli hotel più popolari tra i turisti. La prima ondata di esplosioni si è verificata durante i servizi pasquali nei templi delle città di Colombo, Negombo e Batticaloa la domenica mattina.
Lo Sri Lanka è tornato a uno stato di costante odio religioso, che è stato rilevante fino al 2009, quando le autorità dello stato dell’isola hanno risolto il problema della radicalizzazione dei musulmani. Per un decennio, lo Sri Lanka è stata una località popolare, visitata da milioni di turisti da tutto il mondo.
Al momento, è noto su un certo numero di templi, hotel e luoghi affollati attaccati:
• Tempio di Sant’Antonio, Kochchikade;
• Tempio di San Sebastiano, Negombo;
• Tempio di Sion, Battikaloa;
• Hotel Cinnamon Grand, Colombo;
• Hotel Shangri-La, Colombo;
• Kingsbury Hotel, Colombo;
• Zoo Dehiwala a Dehiwala-Gora Lavinia;
• Il complesso di appartamenti di Mahavila Gardens, Dematagoda;
.Al momento, è noto che sette persone sono state arrestate con l’accusa di aver commesso un atto terroristico. Una riunione di emergenza si è tenuta tra la leadership delle strutture di potere dello stato, le aree colpite sono già state sigillate e le chiese e gli alberghi in tutta l’isola sono sorvegliati dalla polizia e dalle forze speciali per evitare nuovi attacchi terroristici.
Il coprifuoco è stato imposto. Agli isolani e ai turisti è stato vietato visitare i templi, dal momento che gli attacchi degli islamisti possono essere ripetuti. Il primo ministro dello Sri Lanka Ranil Vikremesinghe ha condannato gli attacchi di Twitter, invitando gli abitanti dello Sri Lanka a “rimanere uniti e forti”.
Meno del 10% della popolazione cristiana vive sull’isola, ma allo stesso tempo, migliaia di cristiani sono venuti ai templi per la Pasqua. È noto che quasi mezzo milione di cristiani vivono nello Sri Lanka. Tuttavia, la religione principale è il buddismo. Il 70,2% della popolazione si considera buddista, il 12% indù, il 9,7% aderisce alle credenze islamiche e un altro 7,4% – i cristiani. L’imam musulmano Zahran Hashim e il terrorista islamico Abu Mohamed che lo hanno aiutato sono già stati identificati dalla polizia. L’identità di altri terroristi non è ancora stata rivelata.
Cosa sono le Alture del Golan
Le Alture del Golan sono un altopiano che guarda verso la Siria e la Valle del Giordano, e che a causa della sua posizione strategica è stato fin dall’antichità al centro di dispute e scontri militari.
I territori di Israele dal 1948 al 1967
Prima della guerra del 1967, le Alture erano sotto la sovranità e il controllo della Siria ed erano abitate da circa 150mila siriani. Il conflitto iniziò dopo che Egitto, Siria e Giordania aumentarono la loro presenza militare ai confini di Israele, che decise di attaccare per anticipare le mosse dei suoi avversari arabi: nel giro di sei giorni l’esercito israeliano sottrasse la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai all’Egitto, Gerusalemme Est e la Cisgiordania alla Giordania e le Alture del Golan alla Siria. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò una risoluzione chiamata “terra in cambio di pace” (risoluzione 242), secondo la quale Israele avrebbe dovuto restituire i territori occupati in cambio del riconoscimento ufficiale dello stato israeliano, nato nel 1948, da parte dei tre paesi arabi. La risoluzione fu approvata anche dagli Stati Uniti, ma non fu mai applicata, perché gli stati coinvolti non si misero d’accordo su chi avrebbe dovuto fare il primo passo.
Nel dicembre del 1981 Israele approvò una legge che estendeva «leggi, giurisdizione e amministrazione» israeliane alle Alture del Golan. La legge, che prevedeva l’annessione di fatto dell’altopiano, fu giudicata «senza alcun effetto legale internazionale» dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che chiese al governo israeliano di ritirarla. Negli anni successivi il governo israeliano e quello siriano tennero diversi colloqui segreti per accordarsi sulla fine dell’occupazione militare di Israele. I negoziati si interruppero però nel 2011, con l’inizio della guerra in Siria.
Oggi le Alture del Golan sono abitate da circa 25mila drusi arabi e da 20mila coloni israeliani. La loro importanza per Israele è soprattutto strategica: l’altopiano è visto come una cosiddetta “buffer zone“, “zona cuscinetto”, che divide il territorio israeliano dalla Siria, dove negli ultimi anni si è rafforzata in maniera rilevante e notevole la presenza dell’Iran, storico nemico di Israele. Il governo guidato da Netanyahu ha parlato più volte della necessità di tenere lontani dai propri confini i soldati iraniani, che stanno aiutando il regime del presidente siriano Bashar al Assad a riprendere il controllo del suo paese. Israele considera la presenza dell’Iran una seria minaccia alla sua sicurezza nazionale, come dimostrano gli attacchi aerei compiuti in Siria negli ultimi mesi per colpire obiettivi iraniani o di Hezbollah, gruppo radicale libanese alleato dell’Iran.(1)
IL COMANDANTE DELLE FORZE DI TERRA IRANIANE PROMETTE DI LIBERARE LE ALTURE DEL GOLAN IN SIRIA DA ISRAELE
Il generale Kioumars Heydari, comandante delle forze di terra dell’esercito della Repubblica islamica dell’Iran, ha promesso di liberare le alture del Golan in Siria, che furono occupate da Israele nella guerra del 1967.
“Abbiamo inseguito i nemici fino alle alture del Golan, presto saliremo sul Golan e abbatteremo l’entità sionista,” Brig. Il gen. Heydari ha detto durante un discorso durante una parata del giorno dell’esercito a Teheran il 18 aprile.
Il mese scorso, gli Stati Uniti hanno riconosciuto la sovranità di Israele sulle alture del Golan occupate. Il passo è stato condannato dalla Russia, dall’Iran, dall’Unione europea, dalla Lega araba e persino dalla Turchia.
Il comandante iraniano ha continuato a criticare un’altra decisione degli Stati Uniti che riconosce il Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica (IRGC) come un gruppo terroristico. Heydari ha detto che la decisione metterà in pericolo le truppe statunitensi in Medio Oriente.
“[La decisione] Rende le forze armate statunitensi una forza terrorista occupante che non godrà della sicurezza in nessuna parte del mondo”, ha aggiunto Heydari.
Due giorni fa, il parlamento iraniano ha approvato un disegno di legge che designava il Comando centrale dell’esercito americano (CENTCOM) che operava in Medio Oriente come gruppo terroristico. Il disegno di legge è stata una risposta alla recente decisione di Washington contro l’IRGC.
Le osservazioni del generale Heydari mostrano che l’Iran sta per rispondere alla politica estera ostile degli Stati Uniti in Medio Oriente, che ha già messo la regione sull’orlo di una nuova guerra.