La vera malattia

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Sembra quasi che questi residui della sinistra siano in pieno vittime dell’ideologia americana, ossia quella secondo cui le narrazioni non rispecchiano la realtà, ma la creano. Tutto questo, come del resto discende da tale visione, grazie all’egemonia  della  neolingua con la quale diventa reazionario chiunque rivendichi una sovranità politica ed economica o pretenda i diritti di cittadinanza e di rappresentatività o non sia in accordo con le visioni della società globalizzata che si presenta come multietnica, ma al pari della patria di queste concezioni, tirannicamente monoculturale.  La verità o la ragione cessano di esistere per lasciare il posto ad una soffocante e nefanda logica amico – nemico: è vero ciò che è contro il nemico, fosse anche la più evidente delle menzogne.  Nemico che è poi definito appunto dai criteri semantici della neolingua.

L’assenza di un rifiuto di una commedia in cui il recitativo era palese, se non da persone sparse e per giunta prevalentemente di destra  ci dice bene come sarà il futuro che qualcuno vorrebbe condizionare con segregazioni, distanziamenti ad oltranza, di fatto sbaraccando la scuola, come la stessa vita politica: passata questa breve estate preagonica, il Paese salterà in aria e non ci sarà davvero più nulla a tenerlo insieme

Le comiche finali prima del dramma

Classe dirigente

Dunque lo Stato, a tutt’oggi, non è riuscito nemmeno a creare una classe di amministratori e di politici consci dei doveri della cosa pubblica nei confronti della nazione. Vizio antico, peraltro; si pensi allo scandalo della Banca Romana del 1892-94: ciò significa che dai tempi di Francesco Crispi a oggi, nell’arco di centoventi anni, poco o nulla è cambiato.

È valido ancora oggi, in sostanza, questo ritratto della grande borghesia italiana dei decenni tra il fascismo, la Seconda guerra mondiale, il boom economico e gli anni della recessione, tracciato da Piero Ottone nel suo libro Il gioco dei potenti (Milano, Longanesi & C., 1985, pp. 144-146):

 

Presto si tornò alla normalità [dopo l’aprile del 1945], e le grandi famiglie ripresero la loro esistenza. Un’esistenza dorata, senza dubbio, quale poteva essere permessa da grande ricchezza. Ma non certo volgare. Si era formata in Italia un’aristocrazia capitalistica che era giunta alla terza o quarta generazione, e aveva imparato ad apprezzare le cose belle. I Conti, i Falck, i Crespi abitavano in palazzi di città, avevano quadri preziosi alle pareti, erano circondati da vaste schiere di servitori, maggiordomi, cuochi, cameriere, giardinieri, autisti, ricevevamo artisti e scrittori. (A Londra, il presidente della Dunlop, una delle maggiori società industriali, invitava ospiti a pranzo senza alcun servitore, la moglie andava in cucina; all’estero, la decimazione della servitù era già un fatto compiuto; gli stranieri si meravigliavano dei nostri lussi, noi ci meravigliavamo della loro austerità.)

Alle date prestabilite, ogni anno, si trasferivano nelle ville in campagna, o sui grandi yacht, o a Vichy o ad Aix-les-Bains per la cura delle acque. Certo i nuovi ricchi mostravamo disprezzo. I Crespi sembrarono offesi quando furono infornati che Angelo Rizzoli, fondatore di dinastia, prima generazione, qui di “nouveau riche” (e si vedeva) ambiva a diventare loro socio nella proprietà del “Corriere della Sera”.

Ogni sintomo di innovazione era sgradito, naturalmente. Non concepivano il capitalismo come una guerra di concorrenza, tanto meno come un continuo avvicendamento che permettesse ai più abili di sostituirsi, di volta in volta, ai vecchi, ai deboli, ai sorpassati. In più di un caso si occupavano delle loro aziende da una certa distanza,  delegando il compito della conduzione ad appositi uomini di fiducia, che avevano la mentalità del ragioniere piuttosto che la figura del manager. Erano “gentlemen of leisure”, gentiluomini con molto tempo libero a disposizione. Quando lavoravo come inviato al “Corriere”, i tre fratelli Crespi, Mario, Aldo e Vittorio, venivano in via Solferino una volta la settimana, il giovedì mattina tra le dieci e le undici, chiacchieravano amabilmente col direttore politico e col direttore amministrativo, che vedevano separatamente, si infornavano sulle ultime novità romane, si congratulavamo perché in azienda tutto andava per il meglio, scuotevano la testa sulle bizzarrie del mondo, e poi se ne andavano, chi tornando ai suoi cavalli, chi alle sue collezioni di porcellane. L’amministratore, Giuseppe Colli, era soprattutto un guardiano dei costi. Dominava su tutti una costante preoccupazione: “quieta non movere”.

Sarebbe stato difficile immaginare un esempio più evidente di capitalismo statico, quasi pietrificato. Le grandi famiglie erano il simbolo della continuità, e meglio di ogni altro gruppo sociale dimostravamo che il fascismo non aveva rappresentato, nella storia d’Italia, una rottura, una interruzione violenta, ma piuttosto un normale stadio nella evoluzione nazionale, una tappa nella continuità, con molti legami con quello che era avvenuto prima e con quello che era avvenuto dopo; come un essere umano deve passare attraverso l’infanzia, l’adolescenza, la gioventù, e così avanti fino alla maturità e alla vecchiaia, allo stesso modo una nazione doveva avere a un certo momento della propria crescita il suo periodo autoritario, il suo Mussolini. Chiuso il periodo, impiccato il dittatore, tutto tornava a scorrere nello stesso alveo di normalità. Si poteva dire, parafrasando Stalin: “I Mussolini vengono e vanno, le grandi famiglie rimangono”.

Alberto Pirelli era ricevuto a Palazzo Venezia, e si riferiva a Mussolini come al “capo”; Giovanni Agnelli lo riceveva a Mirafiori (e qualche volta andava a Palazzo Venezia anche lui, naturalmente); i Crespi gli avevano dato una mano per allontanare Luigi Albertini. Però avevano sempre guardato il dittatore dall’alto in basso, come un tribuno di passaggio, di cui disapprovavano, sempre più spesso i discorsi e le decisioni; questa disapprovazione era sufficiente  per assolverli, ai loro occhi, da una collaborazione che era comunque obbligata, essendo ogni imprenditore costretto ad andare d’accordo col suo governo; era sufficiente perché si sentissero spiritualmente estranei, non coinvolti, non contaminati. Dopo il 1945, le grandi famiglie non desideravamo il ritorno del fascismo, preferivano la democrazia; ma non sentivano, verso quel Mussolini col quale avevamo avuto rapporti tollerabili, un odio particolare. Tutt’al più, disprezzo, perché aveva fatto la brutta fine che avevano previsto da sempre, la fine tipica di un tribuno.

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Integrazione

Un 39enne marocchino è stato arrestato per tentato omicidio plurimo per aver aggredito, cercando di strangolarla, una barista e alcune persone che hanno assistito alla scena. È successo nella notte in un bar di Reggio Emilia, frazione Cadè. L’uomo, residente in provincia di Potenza e con precedenti, è entrato nel locale ordinando una birra, ma si è lamentato del fatto che fosse troppo fredda e ha cominciato a insultare la donna dietro al bancone e poi le ha lanciato contro una bottiglia. La barista, cinese, l’ha rincorso con un mattarello, cacciandolo. Ma lui è tornato armato di un’asta metallica e l’ha colpita violentemente per poi arrivare quasi a strangolarla, provocandole lesioni per 40 giorni di prognosi. Diversi avventori hanno tentato di farlo desistere, ma lui li ha aggrediti. Quindi è salito sulla propria auto e ha cercato di investire sia la barista che i clienti. E’ fuggito, ma è stato rintracciato dai carabinieri che lo hanno fermato, non prima che speronasse una pattuglia. (ANSA)

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Civis Romanus sum

Non stupisce, ormai siamo abituati a una continuità col passato rivendicata in nome di una miserabile realpolitik per via della quale è impossibile dire di no, pensare soluzioni di rottura davvero alternative, alla fine meno costose delle minacciate penali e sanzioni economiche, politiche o “morali”.  Mentre invece era questo il momento di aprire, ebbene si, all’intelligenza proponendo un piano dei trasporti che si avvalga della tecnologia che oggi già permette di aggregare la domanda in tempo reale e di rispondere con un trasporto senza linee fisse, modificando il percorso per servire i cittadini che si muovono contemporaneamente nel medesimo bacino. Che si adegui a cambiamenti di stile di vita che suggeriscono di potenziare le formule di spostamento collettivo. Che faccia proprie le esperienze di città che hanno promosso la rete del ferro al posto degli autobus obsoleti che restano imprigionati nel traffico. E che preveda un vero risanamento con la sostituzione di vertici che hanno dimostrato incapacità e opacità, con soggetti di controllo e gestione svincolati dalla cosca del malaffarismo amministrativo, imprenditoriale e finanziario.

Atac-ati al tram

Progressismo madrileno

La piacevole signora, uno dei nuovi simboli del progressismo madrileno, è accusata di plagio del master universitario e ha dovuto lasciare la carica. Il punto, tuttavia, non è il merito della questione, ma l’impressionante contenuto della tesi dell’onorevole signora ministra, simbolo della deriva spagnola, europea, occidentale.

L’elaborato si centra nella descrizione della tecniche di procreazione assistita, considerate come “un chiaro elemento del patriarcato”. Per Carmen Montòn, medico, accesa sostenitrice della teoria del genere, a causa dei complicati trattamenti a cui la donna deve sottoporsi “la medicina e le tecniche di riproduzione assistita contengono chiaramente parametri sessisti” Per questa esponente di vertice della classe dirigente di un grande paese europeo, tali tecniche simbolizzano l’oppressione verso la donna. La prova? “La complessità che implica estrarre un ovulo rispetto alla facilità di ottenere il seme.“  Tombola. Da medico, non la sfiora il sospetto che la ragione stia nella diversa fisiologia maschile e femminile. No, è tutta colpa del patriarcato. Non potendo prendersela direttamente con il Creatore o con la natura, ha però smascherato il colpevole, il maschio della specie umana.

E’ solo l’inizio, giacché l’ineffabile ex ministra se la prende con la famiglia e le madri, anch’ esse eterodirette dall’eteropatriarcato. La famiglia, sostiene, “è la sconfitta storica del sesso femminile, la rovina di ciascuna donna.” Nonne, madri e figlie di ogni tempo sono delle “fallite” e delle “sconfitte” per essersi sposate e aver avuto figli, anzi “procreato”. Forse è per questo che nel breve periodo di gestione del ministero ha legiferato a favore della procreazione assistita di donne sole. Altra sconcertante citazione della tesi è “tutte sono figlie orfane, senza madre”, uno sproposito tratto da un testo di un’altra femminista, la scrittrice Victoria Sau, autrice de La Maternità Vuota. L’ispiratrice ideologica le ha suggerito quest’altra perla: “la maternità è stata fagocitata dalla paternità, semplice ruolo assegnato alle donne assoggettate al suo servizio. Per questo, la condizione di figlie orfane è comune a tutte le donne.“  Dopo aver pensato, scritto e pubblicato quanto sopra, le nominano al governo. Nessuna meraviglia per la dissoluzione incipiente e l’abisso in cui precipitiamo.

Non basta, poiché l’elaborato così prosegue: “il patriarcato, come sistema economico, politico e sociale che opprime e subordina la donna, si sostenta e riproduce attraverso istituzioni che operano in maniera costante. Due delle istituzioni più importanti del sistema patriarcale sono la maternità e la famiglia.” Una nota umoristica in un quadro raggelante: non avevamo mai immaginato la maternità come un’istituzione! Lei medico “non capisce perché tutto il peso dei trattamenti riproduttivi ricada sulla donna”, cosa che “nella prospettiva di genere, non accadrebbe nella medicina”.  Una scienza nuova altamente innovativa, indifferente alla circostanza (istituzionale?) che è la donna a partorire. Segue un’accusa alla ginecologia, colpevole di alleanza con l’aborrito patriarcato.

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=61019

Stato tribale

Secondo la stampa inglese il territorio italiano sarebbe ora a forte rischio di “tribalizzazione territoriale”, ovvero le bande di migranti potrebbero appropriarsi di aree e difenderle come usano fare nelle zone del centro Africa già attraversate da guerre civili e atavici conflitti tribali.

Rodolfo Ruperti, capo della polizia di Palermo, aveva dichiarato al Times che “la gang dei Vichinghi è sorta mentre la polizia sgominava l’organizzazione dell’Ascia Nera (struttura mafiosa nigeriana in Italia): quando elimini una gang, subito altre vengono a colmarne il vuoto”. Secondo le fonti britanniche si sarebbe ormai a cospetto di “organizzazioni molto gerarchiche, con capi presenti in ogni città”.

Il rischio secondo gli inglesi è che, messi alle strette (o progettando una supremazia sugli italiani) potrebbero anche armare i centri d’accoglienza, e coloro che vivono nei palazzi occupati, per fronteggiare le forze dell’ordine in eventuali focolai di guerriglia urbana: l’esempio dello sgombero nei pressi di Roma-Termini avrebbe potuto avere di queste conseguenze.

L’ulteriore restrizione dei flussi migratori verso la Gran Bretagna sarebbe stata operata dal governo di Londra dopo le relazioni dell’intelligence. Di più, il caso italiano sarebbe oggetto di studio e preoccupazione, al punto che Scotland Yard avrebbe consigliato maggiore controllo sui voli in entrata dall’Italia, e perquisizioni accurate sui vettori su rotaia e gomma che attraversano il canale. Dal canto loro i francesi hanno già in due occasioni fronteggiato gruppi paramilitari nelle banlieue parigine, ricorrendo all’esercito in supporto alla Gendarmerie.

Ma la politica italiana sarebbe quella di non allarmare la popolazione circa il rischio d’assalti da parte di gruppi “paramilitari extracomunitari”. Anche se bande sudamericane avrebbero già il controllo d’una decina di edifici a Milano e d’una zona non ben definita a Genova. Va rammentato che lungo l’Adriatico sarebbero già state segnalate bande di africani. Qualche funzionario di polizia ventila che ordini superiori avrebbero minimizzato il fenomeno, etichettandolo come ininfluente sotto il profilo dell’ordine pubblico. Evidentemente necessita attendere che si manifestino con i fatti, e cioè non basta qualche stupro o rapina per gridare al fenomeno diffuso.

Occorre che bande paramilitari di migranti assalgano aziende agricole e piccoli centri rurali, che s’approprino arma alla mano di pezzi del Paese… allora forse lo Stato democraticamente sonnacchioso si desterà, forse proponendo di dialogare con gli eventuali nemici. Il Papa ci dirà di perdonare loro ogni peccato, ma soprattutto qualcuno ci rammenterà che prima di tutto sono rifugiati politici.

14 settembre 2017

http://www.opinione.it/societa/2017/09/14/ruggiero-capone_migranti-nigeriani-paramilitari-times-the-guardian/

Gli alieni tra noi

Tuttavia è un fatto che, ad esempio un italiano contrariamente ad uno statunitense, abbia un diverso il concetto di morte e pericolo collettivi.

Il terrore da noi è quasi topografico. Io ad esempio posso raggiungere in tre ore di automobile il luogo nel quale il mio bisnonno ventenne combatté in trincea tornandone con i capelli bianchi per il terrore, in quarantacinque minuti di scooter raggiungo il villaggio di Marzabotto dove i tedeschi nel 1944 sterminarono centinaia di persone tra cui una parente di mia madre. Sulla facciata di una chiesa vicino alla mia vecchia abitazione intuisco ancora la scritta “opera dei liberatori” allusiva dei bombardamenti “alleati”. Gli stessi alleati che avevano atterrato la piccola palazzina nella quale trent’anni dopo sarei nato io o fatto un tirassegno mortale sullo zio di mio padre a guerra finita già da quattro giorni.

Se guardo un immigrato nordafricano, con buona pace dell’integralismo progressista dominante, una parte della mia mente ritorna inquieta ai Saraceni e ancor più indietro ai Punici.

Se guardo un francese rivedo in lui il soldato di Napoleone che nel 1796 entrò nella mia città da conquistatore e solo dopo da realizzatore.

O se penso all’islam (qualsiasi cosa esso sia) mi farà sempre venire in mente tanto civiltà ed eleganza quanto guerra, saccheggi ed ansia di conquista. E ciò, per reciprocità, varrà certo anche al contrario.

In Europa, Asia, Africa e Medioriente la palla della millenaria, sanguinosa partita è sempre lì a centro campo e in ben pochi osano toccarla con leggerezza.

Per un europeo la parola guerra significa città rase al suolo, cataste di soldati dilaniati e popolazioni civili decimate da saccheggi e pestilenze. Per un russo e un cinese essa assume addirittura il significato di genocidio, per un mediorientale purtroppo quotidianità. Si tratti del secondo conflitto mondiale, della guerra dei trent’anni o della rivolta dei Taiping, poco cambia.

Da Tokyo a Lisbona, i nostri muri sono ancora anneriti dal residuo degli incendi, le case piene di fantasmi e non sempre benevoli.

Per un americano guerra significa invece, nella peggiore delle ipotesi, una bara che torna con tutti gli onori da un fronte bellico lontano migliaia di chilometri. Le case degli americani bruciano solo per degli incendi casuali. I confini sembrano una astrazione burocratica, al peggio una questione di ordine pubblico.

E’ che di qua dall’oceano i confini connotano di benedetto terrore lo spazio mentale delle civiltà che li contengono. Ogni popolo ha avuto per secoli almeno un confine a spaventarlo e a connotarne la visione delle cose. Anche nel piccolo.

Anni fa mi trovai in Beluchistan a parlare con un soldato pakistano appartenente alla tribù guerriera degli Afridi. Mi raccontò di come gli abitanti del villaggio di fianco al suo fossero soliti saccheggiarli, rapire e violentare le loro donne. Probabilmente la cosa valeva anche al contrario. Quello era il confine che terrorizzava il suo villaggio. Quello il suo senso del limite che tuttavia lo aveva spinto a promettermi protezione tramite la sua famiglia se fossi andato dalle sue parti, oltre Peshawar. Mi scrisse un biglietto da consegnare ai suoi genitori. “Se non ti proteggono annunciagli che perderanno un figlio” mi disse. E per cosa? per ringraziarmi di un caffè che gli avevo preparato con la mia moca in camper mentre attendevo dei documenti dal consolato. Più o meno soffocanti e pressanti, tutti i popoli hanno avuto questo senso del limite ispiratore tanto del senso di pietà quanto di crudeltà. Sempre comunque del senso della misura.

Gli americani invece questo confine non lo hanno mai avuto e non li si può criticare per questo. Sono davvero un’altra cosa rispetto al resto del mondo, per tanti versi.

Il problema sorge però quando questa condizione pratica peculiare si è trasformata nel cosiddetto eccezionalismo americano. Da quando nel lontano 1630 i coloni inglesi, futuri americani, decisero di qualificarsi come “la città sopra la collina” giungendo fino ai già citati film nei quali gli USA si mostrano faro del mondo senza sentirsi ridicoli ed arroganti, per non parlare dei ben più preoccupanti Barak Obama che ha definito gli Stati Uniti come “l’unica nazione necessaria” o Bush che definì “impatteggiabile” lo stile di vita americano.

Potremmo fraintendere queste spacconate come un vezzo da popolo giovane e inesperto se non ci fosse di mezzo una enorme potenza militare, scientifica ed economica che sembra dare per scontato che tutto il mondo debba anche uniformarsi al proprio stile di vita alle proprie alleanze, interessi economici e visioni morali (tutti e quattro spesso indistinguibili l’uno dall’altro).

C’è da rimanere perplessi tra un volo di bombardiere Stealt e un film di Hollywood sul nuovo limite da superare, consuetudine o pregiudizio tradizionale da abbattere. Sembra quasi che tutti noi, con la nostra stessa esistenza, si metta in imbarazzo gli Stati Uniti e che ci si debba emendare dal peccato di non essere loro. Come i genitori proletari trattati da falliti dai figli perché finalmente assunti da una danarosa corporation dove si parla inglese tutto il giorno e si mangia sushi fatto da un cinese che si finge giapponese.

Non si tratta nemmeno del banale imperialismo dei tempi che furono. Il terribile Gengis Khan non mi risulta abbia mai chiesto altro che tributi e obbedienza ai popoli conquistati e in ogni caso non ha mai taciuto la propria natura di geniale predone. I patti erano chiarissimi tra conquistato e conquistatore.

L’esito di questa percezione eccezionalista americana temo invece non possa che essere catastrofico se vi saranno resistenze ed apocalittico se non vi saranno.

Articolo di Alessandro Cavazza per SakerItalia.it

“Antifa”

“Antifa” è l’abbreviazione gergale di “Azione Antifascista”, la galassia violenta e corpuscolare di gruppi rossi e neri (anarchici) che, da quando è stato eletto Trump, secondo loro esponente della frangia fascista della società, sono passati all’azione diretta. Picchiano, minacciano, interrompono riunioni della “destra” (altra galassia), a cui negano con le cattive l’agibilità politica, il diritto di riunione e di parole: “Hate speech is not free speech”, i discorsi d’odio non hanno (diritto alla ) libertà di parola, è uno dei loro slogan. Nutrono una ideologia anarco comunista, contro le “tre oppressioni: razzismo, sessismo, capitalismo”. Insomma si credono anti-sistema ma sono la guardia armata del Politicamente Corretto Totale, i picchiatori del conformismo del Sistema portato al parossismo demente.

Demente non è una esagerazione. Sono Antifa i gruppi che abbattono, o fanno abbattere, le statue del generale Lee e quella del “razzista” Cristoforo Colombo – uno sforzo supremo di “pulire” la storia americana di tutto il politicamente scorretto, per farne la società purificata della perfezione antirazzista e anti-Alt Right: reincarnazione impazzita, se ci si pensa, della “città luminosa sulla collina”, dell’America come “nazione necessaria” e purificatrice del mondo.

http://www.maurizioblondet.it/antifa-lo-sterminatore-las-vegas-non-si-dice/

Storie di casa loro

Talmente hanno spinto agli estremi il concetto di multiculturalismo che questo si è tramutato prima in frizione, poi in contrapposizione e ora in ribaltamento dei ruoli: in Svezia come in Olanda come in Belgio, essere bianco e cristiano significa essere letteralmente minoranza in casa propria in certi quartieri. E questo non è naturale. Può esserlo per le giovani generazioni, rincoglioniti semi-analfabeti apolidi che passano il tempo a bere, farsi di canne e pasticche e giocare con lo smartphone ma chi ha più di 35 anni ricorda cos’era la sua città. Io non sono cresciuto in una città piena di stranieri, i miei ricordi non contemplano bonghi, ristoranti etnici, money-transfer, strade in cui non trovi un bianco a pagarlo oro, tradizioni messe in discussione per non turbare l’altrui sensibilità. Io non voglio vivere in un palazzo dove ogni volta che la risorsa di turno cucina sembra che sia stato scoperto un cadavere in putrefazione: sono le sue tradizioni culinarie?Vada a cucinare a casa sua, qui l’odore di merda non è contemplato al desco. Per quanto si viva in un mondo dove addirittura si mette in discussione il sesso, aprendo ad opzioni di “sesso x” sulle carte d’identità, il progetto di far sentire uno svedese e uno del Ciad cittadini dello stesso Stato, è fallito. Signori miei, mettetevelo in testa: le razze esistono, sono sempre esistite e sempre esisteranno. Certe utopie andavano bene ai tempi di Olof Palme, quando il welfare svedese era Bengodi e la percentuale di stranieri sul totale della popolazione ancora risibile: fate un giro oggi alla periferia di Stoccolma e Goteborg, poi venite a parlarmi ancora di integrazione.

Quanto dico si configura come razzismo? Vi stupirò ma non me ne frega un cazzo. Possono varare tutte le leggi buoniste che vogliono ma se io con un africano o un pakistano non ho voglia di conviverci perché è sideralmente e lunarmente lontano da me e dai miei usi e costumi, non riusciranno a cambiare le cose: io continuerò a non volerli e a evitarli, usassero tutto l’ossitocina del mondo. Non esiste né un obbligo all’accoglienza, né alla tolleranza, né all’integrazione: almeno per ora, certo ma visto l’aria che tira, dubito che sia igienico forzare la mano sul tema. L’altra notte, infatti, un gruppo di residenti di un rione periferico di Roma, il Tiburtino III, dopo anni di manifestazioni, di proteste e di tavoli istituzionali, ha tentato di assaltare il centro di accoglienza di via del Frantoio.

A far scoppiare la rivolta, stando a quanto riportano i residenti, sarebbe stato il sequestro di una donna e di suo figlio che sono stati trattenuti dentro il centro di accoglienza, dove si erano recati per lamentarsi dopo lo scoppio di una lite tra gli immigrati e i ragazzi del quartiere, bersagliati da alcuni sassi. “Solo l’intervento massiccio della polizia con numerose camionette anti-sommossa ha frenato l’esasperazione dei cittadini”, spiega Fabrizio Montanini, portavoce del coordinamento dei comitati e delle associazioni del IV Municipio. Quando le forze dell’ordine sono giunte sul posto, a mezzanotte e mezza, però, la maggior parte delle persone si erano già disperse e hanno trovato soltanto un migrante ferito, un eritreo colpito da una coltellata alla schiena. Insomma, volevano le banlieue, le hanno trovate: Marco Minniti, forse, dovrà preoccuparsi ancora per la “tenuta democratica” dello Stato. E sul serio, questa volta, grazie al capolavoro creato in anni di politiche immigrazioniste criminali di PD e soci.
Ecco le parole di un residente, raccolte da “Il Giornale” nella sua edizione online di oggi pomeriggio: “Mandateli via o faccio un macello. Non li voglio più vedere. Non li reggo più. Non siamo razzisti ma adesso basta: la tolleranza è finita. Parlo per tutto il popolo italiano. Questi stanno a fà i baroni a casa nostra. Si devono comportare bene o se no se ne devono andare”. E’ razzismo questo? Se sì, provate con l’ossitocina. Ma attenti a dove potrebbe finirvi la bomboletta dell’aerosol, se andate al Tiburtino III: la pazienza è finita. L’istinto di sopravvivenza non lo si può sopprimere con nessun farmaco e nessuna mancia elettorale da 80 euro. E non esiste bene più grande da difendere, quando ormai non hai più nulla da perdere, che la combattere per quel ritaglio di normalità che significa tornare a vivere a modo tuo e in casa tua. Senza estranei. Né costrizioni buoniste. Ci andrà di mezzo anche chi merita davvero di essere aiutato? Cazzi suoi, gli mostrino la strada per Camera e Senato. E lì che deve andare a lamentarsi.