Il fascismo e la previdenza sociale

“Dopo i primi provvedimenti del 1923 – scrive Vinci (Stefano Vinci, Il fascismo e la previdenza sociale (Annali della facoltà di Giurisprudenza di Taranto, Cacucci editore, 2011)– con i quali fu stabilito il riordino del Fondo per la disoccupazione involontaria affidato alla CNAS, senza però finanziamenti da parte dello Stato, si assistette nel 1926 ad una forte espansione della «mano pubblica» con l’avvio del monopolio assicurativo attuato attraverso il riordino della Cassa nazionale infortuni (CNI); nel 1927 alla istituzione dell’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi estesa nel 1929 alle malattie per gente di mare; nel 1929 alla previsione dell’assicurazione contro gli infortuni anche per le malattie professionali”.
La Cni venne sostituita nel 1933 dall’Infail  (Istituto nazionale fascista contro gli infortuni sul lavoro) e nello stesso anno viene costituito l’Infps (Istituto nazionale fascista della previdenza sociale). Segue nel 1935 la promulgazione di un testo unico sul Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale  che disciplinò il frammentato sistema previdenziale per l’invalidità e la vecchiaia, la disoccupazione, la tubercolosi e la maternità.  Alcune modifiche al sistema, si legge ancora nello studio,”furono apportate nel 1939, quando fu accolto il principio della reversibilità della pensione ai superstiti, rinviando al ’45 l’erogazione effettiva della prestazione, e fu abbassata l’età del pensionamento a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne, con aggiustamenti nella misura delle prestazioni, adeguate fino al 1943″. In quell’anno si tentò anche di realizzare l’unificazione delle assicurazioni per malattia con l’istituzione dell’Ente Mutualità “che, nei propositi della legge 138/1943 avrebbe dovuto condurre alla completa unificazione degli istituti di assistenza malattia, ma che di fatto non riuscì a realizzare tale intento”.
Un rilievo è d’obbligo: tutti capiscono la differenza tra una Cassa di previdenza cui si aderisce volontariamente e un sistema previdenziale pubblico che comincia di fatto nel 1933 con l’Infps poi divenuto Inps. Ciò non certo per fare apologia delle misure sociali introdotte dal fascismo ma per sottolineare che una bufala è anche raccontare la storia a metà, o manipolarla, o non valutarla con la serena obiettività che dopo 70 anni dovrebbe essere d’obbligo.

di Francesco Severini – 07/11/2018

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=61160

L’Ur-fascismo

Ora che il fascismo non può essere più utilizzato da sinistra in funzione dello scontro di classe, esso viene trasformato in una sorta di “male assoluto”, dai tratti metastorici, se non diabolicamente metafisici. E’ la stagione del “fascismo eterno”, dell’ Ur-fascismo – teorizzata da Umberto Eco nel 1995. Si tratta di un fascismo irreale, fuori dal mondo e dalla Storia. Nell’Ur-fascismo non c’è traccia dei complessi percorsi ideologici del ‘900. Di fronte all’Ur-fascismo a nulla serve invitare al ritorno alla Storia, alle analisi documentate e motivare. E’ sufficiente  pescare nel cilindro delle illazioni ed il gioco è fatto. Basta poco per risolvere la questione. Il fascismo ? Facile identificarlo: è il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, l’azione per l’azione , la paura della differenza, l’appello alle classi medie frustate , l’ossessione del complotto , la vita come guerra permanente e come conquista del mondo ,  il disprezzo per i deboli, il machismo, il populismo che va da Piazza Venezia alla Tv o internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la “voce del popolo”.
Su questo piano a nulla servono gli inviti  ad evitare certe assolutizzazioni, come quella recentissima del Presidente della Repubblica, che nel fascismo vede solo ombre. Né  hanno significato le tante e complesse interpretazioni che del fascismo si sono avute nel corso dei decenni. Fatica sprecata quella di Renzo De Felice e di tanti intellettuali, tutt’altro che “nostalgici”, impegnati su questi crinali:  Ernst Nolte,  Francis Ludwing Carsten,  George L. Mosse,  Tarmo Kunnas,  Antony James Gregor, tanto per citarne alcuni. Perfino l’antifascismo delle origini sembra un vecchio rudere da rottamare.
L’Ur-fascismo è un assoluto, inutile studiarlo. Basta farne un tabù, buono per tutte le stagioni, da demonizzare, un “mostro verbale” piuttosto che un nemico vero, in carne ed ossa, talmente lontano dalla realtà da renderlo incomprensibile nella sua essenza storica, quasi che settant’ anni e più siano passati inutilmente.

Mario Bozzi Sentieri

estratto da https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=60083

La perfida Albione

Il 16 febbraio 1938 Mussolini dà incarico a suo genero, il conte Ciano, ora Ministro degli Esteri di scrivere al suo ambasciatore a Londra, Dino Grandi, una lunga lettera “personale e segreta” che, naturalmente, il Capo del Governo ha personalmente dettata. Il Duce prega l’ambasciatore di abboccarsi “senza indugio” con il Primo Ministro. Egli “sa” che Hitler è ormai deciso a realizzare l’annessione dell’Austria. In tale eventualità non ci si può attardare ulteriormente ed esitare più a lungo se si voglia veramente salvare l’Europa e la pace. “Senza essere”, scrive egli, “più desideroso di ieri di tendere la mano agli inglesi, tiene a dar loro quest’ultima opportunità di salvare la barca dal naufragio”. Attendere ancora sarebbe follia. Egli suggerisce l’avvertimento che ”tutte le carte del gioco possono non rimanere sempre nelle stesse mani”.
Il 17 Grandi riceve il messaggio. Il 18 è ricevuto da Chamberlain. Il Primo Ministro apprezza la comunicazione. La sua buona volontà è fuori discussione. Ciò non ostante egli è ben lungi dall’essere sicuro che i suoi punti di vista personali siano condivisi da tutti gli altri membri del suo gabinetto. Quando Chamberlain riceve l’ambasciatore d’Italia ha al suo fianco Anthony Eden. Il colloquio, abbastanza agitato, non dura meno di tre ore. Finalmente, il Primo Ministro finisce per accettare un incontro. Il suo segretario di Stato agli Esteri non è d’accordo. All’uscita dal colloquio mobilita i suoi amici. Il 20 febbraio, durante un tempestoso consiglio dei Ministri, Eden dà le proprie dimissioni sbattendo la porta. Una crisi ministeriale si apre a Londra. La proposta del Duce non ha più seguito.
Hitler ha accuratamente e un poco ansiosamente seguito questi passi. Nota il loro insuccesso con soddisfazione poiché non tiene affatto a una conferenza internazionale che potrebbe imbrigliarlo. Ormai sa di non avere più nulla da temere da una Italia completamente isolata.
In queste condizioni il Führer giudica giunto il momento di realizzare il suo sogno di sempre attaccando la povera piccola Austria. Nel 1935 aveva già approfittato della tensione italo-britannica per decidere il riarmo del Reich; nel 1936 aveva profittato delle sanzioni per rioccupare la Renania; nel 1938 approfitterà delle medesime circostanze favorevoli per effettuare una simile operazione di forza. Il 12 marzo le sue truppe invadono il territorio della sventurata repubblica austriaca che d’altronde, i trattati del 1919 avevano avuto cura di mantenere disarmata.

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Strano ma vero

Poiché Mussolini non smise mai d’essere un socialista, e lo dimostrò con riforme (l’IRI, l’INPS, l’ONMI, lo IACP, l’INAIL, la Banca d’Italia Statale, ecc) che lo resero, nei fatti, in grado di reggere anche alle critiche di un socialista radicale come Bombacci. Il quale, fu conquistato dalle riforme mussoliniane: proprio lui, che lavorò per molto tempo per l’URSS e che iniziò – si deve dirlo – quella collaborazione economica che poi sfruttarono a man bassa i comunisti emiliani nel dopoguerra.

Così, in silenzio, dopo l’8 Settembre 1943, Bombacci raggiunge Mussolini a Gragnano, e diventa un collaboratore assiduo, oltre che l’amico di sempre. Ebbe un vago incarico presso il Ministero dell’Interno ma si sa, nella caligine di Salò dominata dai tedeschi, tutto era vago ed impreciso.

La “socializzazione” dell’Economia è opera sua e, addirittura – non potendo essere messa in pratica durante la pallida Repubblica di Salò – è rimasta come vago cenno anche nella nostra Costituzione, agli art. 3 e 35, laddove però è sparito il riferimento più importante: la gestione comune (imprenditori-lavoratori) dell’impresa, la nota Mitbestimmung tedesca.

Viene spontanea una domanda: perché Mussolini, che ebbe il potere assoluto, non portò avanti questi progetti come Capo del Governo, per tanti anni?

Perché Mussolini, di là delle sue “sparate” ben note, quando incontrava sulla sua strada i dettami del grande capitale, agrario ed industriale, non contava più una cippa.

Vi fu anche un momento storico importante – e per questo i ragazzotti in nero di Vicenza mi fanno più pena che altro – nel quale Mussolini fu giocato proprio dallo squadrismo: il delitto Matteotti.

Vedremo dopo perché.

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Fasciocomunisti

Fasciocomunisti

di Luca Mancini – 14/10/2017

Fasciocomunisti

Fonte: Appello al Popolo

Budapest. Estate 1939. Il partito delle Croci Frecciate, d’ispirazione fascista, era sempre più protagonista nel dibattito politico. Pochi mesi prima, alle ultime elezioni, esso era diventato la principale forza di opposizione al Partito dell’Unità Nazionale, che guidava l’Ungheria dal 1919, ossia dalla soppressione della Repubblica dei Consigli d’ispirazione sovietica. La sua era un’opposizione pugnace, ricca di manifestazioni eclatanti, articoli aggressivi sulle colonne del giornale di partito, dove si parlava di riforme radicali in favore dei ceti popolari. Un’opposizione nettamente diversa da quella sterile che perpetuava da vent’anni il Partito Socialdemocratico, il quale aveva serenamente accettato lo status quo e non faceva molto per cambiarlo, tant’è che alle suddette elezioni il successo delle Croci Frecciate fu proprio nei cosiddetti quartieri rossi dove vivevano perlopiù operai, studenti, piccoli artigiani e laureati senza lavoro. Basti pensare al caso della “rossa Csepel”: un’isola sul Danubio all’interno di Budapest, dove vi era un’alta concentrazione di fabbriche e case operaie e dove si consumò buona parte del successo delle Croci Frecciate, anche se essa era considerata tradizionalmente una roccaforte socialdemocratica.

 

Improvvisamente gli operai votavano a destra e nessuno riusciva a comprendere perché; eppure la risposta era davanti ai loro occhi: il Partito dell’Unità Nazionale aveva sempre promesso riforme radicali per i ceti popolari, ma queste promesse erano state costantemente disattese; i socialdemocratici non facevano più nessuna opposizione da anni, tanto che la gente iniziò a pensare che fossero d’accordo con il partito al governo; il Partito Comunista, invece, viveva in clandestinità dal 1921, quando una legge lo mise al bando come socialmente pericoloso, in quanto voleva sovvertire violentemente l’ordine costituito. In pratica, l’unica forza che propugnava un reale cambiamento erano le Croci Frecciate e la gente affamata non badava alle sottigliezze ideologiche, come pensava l’intellettuale di sinistra. Durante quell’estate il leader delle Croci Frecciate, Ferenc Szalasi, era in prigione. Poco tempo prima, egli e altri membri del suo partito erano stati condannati per vilipendio alla nazione, utilizzando proprio quella legge III del 1921 che metteva al bando il Partito Comunista. La corte affermò: “il crimine di vilipendio alla nazione può essere commesso non solo da un bolscevico, ma anche da un ben noto antibolscevico e studioso patriottico”. Com’è possibile che fascisti e comunisti potevano esser condannati per lo stesso crimine dalla stessa legge? La risposta era piuttosto semplice: essi erano considerati entrambi due partiti rivoluzionari perché volevano abbattere il sistema liberale e capitalista. Erano gli stessi militanti croce-frecciati a cogliere questa affinità con i comunisti, tanto che all’indomani della stipula del Patto Ribentropp-Molotov avvenne per le vie di Budapest qualcosa di incredibile: le Croci Frecciate organizzarono una grande manifestazione portando in piazza una massa di persone con i ritratti di Hitler, Szálasi e Stalin! Il patto venne interpretato da molti come la prova della formazione “di un fronte comune degli stati proletari contro le plutocrazie”, come scrisse il giornale del partito, e pertanto chiedevano l’abrogazione della legge III del 1921 che teneva prigionieri molti comunisti, ma soprattutto molti loro compagni di partito, tra cui il loro leader Szálasi, che finì di scontare la sua pena detentiva solo un anno dopo, nell’autunno del 1940. C’è da immaginarsi lo sgomento dell’élite intellettuale socialdemocratica o liberale, quando vide militanti di ispirazione fascista scendere per le strade con i ritratti di Stalin chiedendo di liberare i militanti comunisti. Tuttavia, questo aspetto è sempre stato sottovalutato sia dall’analisi politica che dalla storiografia, eccessivamente concentrate ad analizzare l’eccessivo nazionalismo e l’anticomunismo dei partiti fascisti, tralasciando altri importanti aspetti che li caratterizzavano, quali il corporativismo e soprattutto l’antiliberalismo. Questa visione probabilmente si perse nella seconda metà del ‘900 per evidenti motivi di opportunità ideologica da parte delle due superpotenze, ma invece era chiarissima negli anni ’30 e ’40. Ad ogni modo, Szalasi non giunse mai al potere per via democratica: divenne primo ministro soltanto nell’autunno del 1944 quando l’Ungheria era già stata occupata dalla Wehrmacht per via del tentativo di sganciamento dall’Asse. I tedeschi deposero il governo precedente e scelsero le Croci Frecciate come partner politico. Szàlasi, nonostante il suo potere fosse notevolmente limitato dalle contingenze belliche, si adoperò sin dall’inizio per una serie di riforme che avrebbero costituito l’inizio della rivoluzione sociale, tanto attesa dal popolo. Successivamente, diversi storici marxisti ungheresi evidenziarono una certa continuità rivoluzionaria tra il governo di Szálasi e il successivo governo comunista: lo storico marxista István Deák affermò che “la vittoria finale delle Croci Frecciate nell’ottobre del 1944 significò l’inizio di una rivoluzione sociale che continuò e continua”, evidenziando una certa continuità tra le politiche sociali iniziate da Szálasi e quelle adottate dal successivo regime comunista. Questo sottolineava, ancora una volta, lo spirito antiliberale e rivoluzionario che accomunava le due ideologie. Non è un caso, infatti, che molti degli iscritti e dei sostenitori del partito di Szálasi passarono successivamente tra le fila del Partito Comunista e divennero sostenitori attivi del neonato regime filo-sovietico. Questa non è un’eccezione, ma un avvenimento piuttosto comune che avvenne anche in altri parte d’Europa, prima fra tutte l’Italia, dove molti vecchi sostenitori del regime fascista entrarono nel PCI, considerato il partito più vicino alle loro idee sociali, come sottolineava il repubblichino Barna Occhini nell’ultimo numero della rivista culturale della RSI “Italia e Civiltà”, il 17 giugno 1944: “Roosevelt, Churchill, Stalin. Il gran discorrere di Roosevelt e Churchill e la forma e la sostanza dei loro discorsi hanno invariabilmente l’effetto di accrescere in noi, al confronto, la stima verso Stalin. Rispettiamo al confronto la serietà di Stalin, la sua semplicità di parole e di gesto, il suo andare allo scopo con energica silenziosa durezza. (…) E sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compari, che i fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia, quanto nella plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il vero nemico. Sempre essi hanno sentito di discordare, sì, dai comunisti su molti punti, ma anche di concordare con essi su molti altri, e precisamente e soprattutto di concordare su ciò che non vogliono. Vale a dire, noi e i comunisti concordiamo nel non volere più, né gli uni né gli altri, la vecchia società liberale, borghese capitalistica. E sappiano anche i Roosevelt, i Churchill e i loro compari, che quando la vittoria non toccasse al Tripartito, i più dei fascisti veri che scampassero al flagello passerebbero al comunismo, con esso farebbero blocco. Sarebbe allora varcato il fosso che oggi separa le due rivoluzioni. Avverrebbe tra esse uno scambio e un’influenza reciproca, fino alla fatale, armonica fusione”

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59600

Arte di Stato

L’architettura fu uno degli strumenti più importanti del progetto politico del fascismo. Agli edifici pubblici, in particolare, venne assegnata una funzione monumentale, nel quadro di un sistema di dominio composto da burocrazie di servizio e da clientele sociali. Il rapporto assiduo e di routine con il servizio pubblico (nei palazzi delle poste, negli uffici statali, nelle sedi INFPS e INA) assunse una dimensione solenne in spazi imponenti arricchiti da numerose forme di “arte di Stato”. Le ampie finestrature, le grandi vetrate, che caratterizzavano soprattutto le Case del Fascio e del Balilla intendevano rappresentare l’immagine della piena integrazione del fascismo nella vita sociale. Dall’esame degli edifici funzionali emerge, infine, la dimensione intensiva, di massa, particolarmente evidente nelle strutture dedicate all’infanzia: asili e colonie elioterapiche. Le misure tridimensionali di refettori, ricreatori e aule richiamavano una funzione pedagogica tesa a infondere i primordiali concetti della disciplina militare.

La politica architettonica costituisce uno dei più duraturi successi del fascismo, forse addirittura il più importante. Lo confermano la qualità delle costruzioni progettate e realizzate in quegli anni, le capacità professionali di molti dei suoi protagonisti, il disegno, sostanzialmente riuscito, di Mussolini e del fascismo di parlare ai contemporanei e ai posteri attraverso l’architettura. Indubbiamente la sopravvivenza di queste architetture, segni di un progetto interrotto di totalitarizzazione della società, pone ipoteche anche sulla memoria delle generazioni future. Come è stato notato, “molti italiani tornano a subire una rinnovata fascinazione per le città e i palazzi ‘costruiti dal duce’, che li introduce verso un giudizio tendenzialmente assolutorio nei confronti di un passato, in parte defascistizzato”[11].

http://rivista.clionet.it/vol1/dossier/architetture_tra_le_due_guerre/de-maria-interno-pubblico-nella-citta-del-fascismo

Colonialismo corporativo

L’Oltremare rappresentava infatti il laboratorio in cui l’esperimento sindacale e corporativo poteva trovare «le vere ed organiche condizioni e possibilità del suo pieno svolgimento fino ai limiti estremi», poiché «distrutto il vecchio sistema feudale» africano rimaneva «un terreno vergine», quindi «nessun limite e nessuna resistenza di forme di diritti e di organizzazioni preesistenti» [3]. L’impero fascista trovava perciò ulteriore legittimazione ideologica come «spazio sociale vuoto» – la definizione è sempre di Panunzio – in cui dare vita al più compiuto sistema corporativo della storia.

Il presente saggio prende in esame l’esperienza storica scaturita attorno a questo mito, seguendo l’evoluzione del dibattito nell’Italia degli anni Trenta e verificando l’attuazione di un indirizzo corporativo nei possedimenti coloniali, nel tentativo di valutare se e quanto il paradigma del “colonialismo corporativo” incise sull’imperialismo fascista. Si andrà così a riscoprire un tema rimasto finora in ombra in ambito storiografico, se si escludono un paio di eccezioni che tuttavia adottano prospettive analitiche almeno in parte differenti da quella qui privilegiata. Le eccezioni sono rappresentate dai contributi di Gian Luca Podestà [2004, 261-287], da un lato, e di Jens Steffek e Francesca Antonini [2015] dall’altro. Nel primo caso, in un ampio lavoro sulle politiche economiche nelle colonie italiane dell’Africa orientale, Podestà ha inserito un capitolo sulla legislazione fascista di fine anni Trenta, accreditandola appunto come “colonialismo corporativo”, ma di fatto facendo pochi riferimenti allo svolgimento del relativo dibattito ideologico, che invece – come si vedrà – attraversò l’intero decennio [4]. Nel secondo caso, Steffek e Antonini hanno affrontato il tema focalizzandosi principalmente sulle implicazioni geopolitiche insite nel discorso del “colonialismo corporativo”, ovvero soffermandosi sull’ambigua concezione fascista di un ordine internazionale basato sulla cooperazione tra Europa e Africa, ma lasciando in secondo piano le questioni inerenti l’organizzazione sindacale, la legislazione corporativa, le politiche del lavoro nelle colonie.

Nel presente contributo, si mira invece a rileggere l’ipotetica connessione tra politica coloniale e politica corporativa come tentativo di promuovere un originale modello di imperialismo, in grado di connotare il fascismo come fenomeno dotato di una propria idea di “civilizzazione” o di “modernizzazione” delle terre africane colonizzate.

Matteo Pasetti, Un “colonialismo corporativo”? L’imperialismo fascista tra progetti e realtà, “Storicamente”, 12 (2016), no. 38. DOI: 10.12977/stor655