Da ieri sera me li immagino darsi di gomito sghignazzando, quelle due sagome mentre confezionano l’apoteosi della presa per il culo. Quello dell’alto profilo mentre consiglia Brunetta abilitato a passare sotto ai suoi tornelli, l’altro, l’uomo della provvidenza, che se la ride di gusto pensando al futuro dei giovani incantati dalla sua predica a Rimini, mentre gli rifila certi avanzi avvelenati.
Me li figuro: uno che dice “ma dai divertiamoci, ti propongo Giorgetti così imparano quei debosciati meridionali a ammorbarci con la questione meridionale”. E l’altro, “ma non è troppo?”, e poi però “ ma si, hai ragione, godiamocela, in fondo si vive una volta sola”. E il tecnocrate che fa: “e se affidassimo la digitalizzazione a Colao così si capisce subito che si tratta di vendere più telefonini e app per controllare che ‘sti cialtroni stiano alla catena h24?”. E la suprema carica, “ma si se lo meritano. E guarda, rilancio, diamo la Giustizia a una cancelliera di tribunale della Sacra Rota, che capiscano una volta per tutte che noi schifiamo i diritti fondamentali ma pure quelli aggiuntivi dei gay, delle donne, e pure dei vecchi, tanto noi due siamo immortali come il manuale Cencelli”.
A guardare quella foto comparsa su tutte le testate in occasione dell’Incarico, dovevamo capire che quei sorrisi erano un avvertimento trasversale in sintonia con la trattativa Stato-mafia, che erano il ghigno dei boia di mezza tacca che non si curano di affilare la scure o la lama della ghigliottina: che mica ci meritiamo una morte asettica, disinfettata e sicura come sarebbe da aspettarsi da carnefici abilitati e efficienti.
E chissà che delusione per quelli che avevano confidato nel dominio dei tecnici, dei preparati, dei tagliatori di teste provetti, dei gran liquidatori che avrebbero fatto piazza pulita di parassiti, falsi invalidi, veri straccioni, pesimorti, scansafatiche. E che smacco per quelli che avevano creduto fosse arrivato il castigamatti profeta della distruzione creativa come un necessario pogrom, come un salutare massacro di selvaggi renitenti al progresso. E che frustrazione per i Cottarelli, i Giavazzi, i Bocconi boys, che seduti come stiliti sulle colonne del Corriere e del Sole 24 Ore hanno anticipato la weltanschauung draghiana pensando di avere già le forbici in mano e un piede nell’Esecutivo.
Come già visto, questo è il governo più esclusivamente fatto di meridionali. Lo dico senza malanimo – malanimo di cui mi accusano i lettori del Sud – ma questo significa che è fatto di persone che hanno dell’economia una idea arretratissima, paleo-assistenziale, da analfabeti; che conoscono solo “imprenditori” come il papà di Di Maio o Di Battista, povere persone che hanno qualche macchina di movimento terra e non sperano altro che strappare qualche sub-appalto in un programma di spesa pubblica per rifacimento di manti stradali. E il peggio, è che non sanno né vogliono sapere che al Nord esistono altre industrie, avanzate, imprenditori d’eccellenza sui mercati internazionali; hanno proprio una chiusura mentale. Si è visto dall’ indifferenza-estraneità con cui hanno trattato le provincie del Nord travolte dl Covid-19.
400 miliardi!
Del resto, la meridionalità deteriore il governo l’ha già dimostrata nei suoi atti: facendo – in ritardo criminale – stanziamenti a pioggia e senza visione strategica, puntando a dare assegni di sussistenza e nemmeno riuscendoci, incapaci – o non volenti per malevolenza – di dare quello di cui i lavoratori hanno diritto, la cassa integrazione. E tutto ciò, mentre per settimane e mesi Conte favoleggiava di “400 miliardi” che ci sarebbero arrivati da “l’Europa”: frase che rivela, ancor più che l’attitudine (accertata) alla menzogna, quella all’autoillusione e all’irrealtà di gente per cui “400 miliardi” e “57 per spesa sanitaria” non hanno un significato vero e preciso, ma appartengono al mondo dei sogni meridionali tante volta mostrato da Totò, la ricchezza come una immensa gamella di spaghetti, su cui saltare, da cui prendere a manciate, il sogno di calmare la fame atavica senza limiti. 400 miliardi! A fondo perduto!
Pompeo ha affermato che i Balcani “rimangono un’area di competizione strategica”, candidabili insomma alle destabilizzazioni e primavere democratiche contro la zona d’influenza che vi ha Mosca. Sia nei Balcani, sia ad Atene, il segretario di Stato ha attaccato in termini inauditi “la Repubblica islamica dell’Iran, i cui terroristi hanno destabilizzato il Medio Oriente, trasformato il Libano in un paese cliente e contribuito a provocare la crisi dei rifugiati che continua a danneggiare la Grecia in questo momento”.
Insomma ha incolpato l’Iran di tutte le conseguenze dei tre decenni di guerre NATO nella regione e del conseguente spargimento di sangue e per i conflitti provocati, giù giù fino alle ondate di rifugiati – che invece ha prodotto la sua destabilizzazione dell’area secondo il piano Kivunim israeliano, e il ripetuto tentativo di smembrare la Siria e farne un califfato ISIS.
Pompeo non ha mancato, ovviamente, di denunciare “ l’influenza dannosa della Russia, in Grecia e nei paesi circostanti “,nonché la Cina che “usa i mezzi economici per costringere i paesi a concludere accordi svantaggiosi a beneficio di Pechino e lasciare i propri clienti fortemente indebitati “. Ossia ciò che da sempre ha fatto l’imperialismo americano, tramite il Fondo Monetario.
Che bisogno c’era di una alleanza americano-ellenica? La Grecia è già un membro della NATO. Ma per decenni trascurato da Washington che poteva contare sulla Turchia e la sua forza militare nell’Alleanza. Ora però con la destabilizzazione della Siria e il suo smembramento non riuscito per l’intervento russo e iraniano, e l’oscillazione di Erdogan come “alleato”, la Grecia – che ha una forza militare più notevole e preparata di quel che si crede, per storica diffidenza verso la Turchia – è ridiventata utile.
Lo ha detto chiaramente Geffrey Pyatt, l’ambasciatore Usa ad Atene: “Gli stati Uniti hanno “dato per scontato” Mediterraneo orientale per decenni. Ora lo stanno rimettendo al centro della loro riflessione, nella visione globale su come far avanzare gli interessi degli Stati Uniti …Nell’attuale fase di rinnovata competizione tra le maggiori potenze e con le più grandi scoperte di idrocarburi dell’ultimo decennio, questo crocevia globale di Europa, Asia e Africa è tornato in prima linea nel pensiero strategico americano”.
L’accenno alle grandi scoperte di idrocarburi si riferisce ai giacimenti scoperti al largo di Cipro, il cui sfruttamento avverrà in condominio con Sion. Bisogna ricordare che Erdogan ha minacciosamente preteso la parte per la Turchia, mandando navi da guerra a minacciare bellicamente (fra l’altro l’ENI).
Qui navi da guerra turche hanno bloccato la piattaforma Saipem 12000 dell’Eni nel febbraio 2018.
Ad Atene, Pompeo ha preso apertamente le parti della Grecia (ed Israele) su questa questione: “Abbiamo detto ai turchi che la perforazione illegale è inaccettabile. Abbiamo chiarito che le operazioni in acque internazionali sono regolate da una serie di regole”.
Insomma, mentre Trump lascia che Erdogan si ritagli sul territorio della Siria la fetta che gli era stata promessa fin dall’inizio della guerra (combattuta per procura coi finanziamenti sauditi e degli sceicchi, armando Daesh e gli altri islamisti tagliagole e i curdi ) per rovesciare Assad, voltando le spalle ai curdi ormai inutili, Washington si riposiziona militarmente in Grecia, adottandola come base per le future operazioni.
Il tutto, nel palese disprezzo degli “alleati europei” nella NATO. Come nota giustamente WSW, Pompeo è venuto in Europa e non ha visitato le tre più grandi capitali: né Berlino, né Parigi, e nemmeno Londra. In compenso è andato in Macedonia per esortare il governicchio locale di abbandonare il progetto di autostrada finanziato dai cinesi nel quadro della Belt and Road Initiative (BRI, la nuova Via della Seta) di Pechino, ed è venuto a Roma per ordinare al governicchio locale di rigettare gli accordi con Huawei e piantarla con l’adesione al BRI.
Nel nuovo concetto americano, l’Italia conta meno della Grecia perché noi siamo imbelli e disarmati, mentre appunto, la Grecia è militarmente più forte (per esempio ha mantenuto la leva obbligatoria di massa), è nemica storica della Turchia, e – grazie al “trattamento tedesco” subito dai greci – la Cina ha fatto acquisti importanti in Grecia. Strategici. Il porto del Pireo.
A luglio, il già sullodato ambasciatore degli Stati Uniti, Geoffrey Pyatt, ha dichiarato a Stars and Stripes che la base navale americana nella baia di Souda, in Grecia, utilizzata durante la guerra in Siria, è “praticamente satura“. I militari statunitensi non hanno visto di buon occhio gli investimenti cinesi nel porto del Pireo ad Atene: “Se vogliamo far attraccare una nostra nave da guerra al Pireo, la Cina può dire di no.”
Per l’America, è una tentazione strategica incoercibile tentare di assestare un colpo bellico mortale alla Cina prima che diventi troppo potente per essere sconfitta; “far pagare il prezzo “ alla Russia della sua vittoria politica in Siria; riconfigurare la NATO in termini di massima aggressione contro Mosca, puntando sui nuovi alleati come la Polonia e i baltici. Adesso o mai più: sanno bene, i pensatoi americani legati alla speculazione, che il sistema economico globale e liberista che hanno imposto, con cui hanno ciecamente reso potente la Cina, e dominato dalla finanza e dai suoi profitti usurari è al capolinea, e si regge solo con le banche centrali che creano trilioni a tasso sottozero, per mantenere gonfia la bolla, e in vita le varie imprese e banche zombi che – se aumentassero i tassi d’interesse – collasserebbero, indebitate come sono.
Fra un anno o tre, se non fra qualche mese, potrebbe essere troppo tardi. Adesso o mai più.
L’interesse nazionale ha fatto raramente capolino in queste dinamiche ed è comunque sempre stato marginale. Se ne è avuto una specie di succedaneo nel quarto di secolo che va dagli anni ’50 fino alla metà dei ’70, ma solo perché esso in qualche modo coincideva con l’interesse di Washington di evitare la crescita del Partito comunista, ma in realtà non si è mai governato al di fuori dal vincolo esterno che è diventato persino suicida quando ci si è totalmente sguarniti di fronte al doppio e consustanziale attacco dell’ordoliberismo europeo e dell’egemonia tedesca realizzatosi attraverso l’euro. Pazienza i padroni sarebbero stati due e per giunta in accordo tra loro: tutta l’intelligenza di cui è capace il Paese è stata usata al solo scopo di campare alla meno peggio, fra terze generazioni di industrialotti incapaci di pensare e dediti alle pessime imitazioni, di bottegai dell’uovo oggi e un ceto politico raccogliticcio e troppo spesso dedito all’affarismo.
Mi duole il mio Paese che non vede la rovina dei suoi giovani, sempre più precari della vita, carichi di pasticche, alcool e droga, spesso deboli e capricciosi, specchio fedele dei modelli imposti dalla comunicazione dominante, vittime di mille modelli negativi. Mi fa male l’abbandono degli anziani, il cinismo, la competitività litigiosa di un popolo che si è lasciato dividere, gli uni contro gli altri, risse da ballatoio, linguaggio da suburra, demolizione di tutto quanto ci univa, a cominciare dalla lingua imbastardita, fino alla fede comune tradita dai suoi custodi. Dolgono le città desertificate in favore di orribili periferie fatte di alveari, cubi e parallelepipedi, la grande bellezza, l’estetica, essenza di un popolo, sacrificata alla bruttezza, allo sfregio, al kitsch che avanza dappertutto. Sapemmo creare Venezia, Roma, Firenze, mille paesi e città armoniose e diverse, un territorio modellato dalla sapienza millenaria. Adesso, siamo riusciti a rendere orribili i paesaggi più belli del mondo.
Inventammo le università e oggi un’ignoranza di ritorno, tremenda perché soddisfatta di sé, pervade milioni di persone, abilissime peraltro a maneggiare gli idoli del tempo, telecomandi, smartphone, computer. Mi fa male un paese che fondò ovunque lazzaretti e ospedali attraverso la pietà popolare, lo slancio delle istituzioni religiose e la generosità di non pochi potenti, ma costringe i malati dell’orgoglioso Terzo Millennio a ore e ore di attesa su scomode barelle negli inferni metropolitani dal sarcastico nome di Pronto Soccorso.
Il governo Conte dichiara «eccellente» lo stato delle relazioni con la Russia quando, appena una settimana prima in sede Nato, ha accusato di nuovo la Russia di aver violato il Trattato Inf (in base alle «prove» fornite da Washington), accodandosi alla decisione Usa di affossare il Trattato per schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia.
Il 3 luglio, il giorno prima della visita di Putin in Italia, è stata pubblicata a Mosca la legge da lui firmata che sospende la partecipazione russa al Trattato: una mossa preventiva prima che Washington ne esca definitivamete il 2 agosto.
Lo stesso Putin ha avvertito che, se gli Usa schiereranno nuove armi nucleari in Europa a ridosso della Russia, questa punterà i suoi missili sulle zone in cui sono dislocate.
È così avvertita anche l’Italia, che si prepara a ospitare dal 2020 le nuove bombe nucleari B61-12 a disposizione anche dell’aeronautica italiana sotto comando Usa.
Una settimana prima della conferma dell’«eccellente» stato delle relazioni con la Russia, il governo Conte ha confermato la partecipazione italiana alla forza Nato sotto comando Usa di 30 navi da guerra, 30 battaglioni e 30 squadre aeree dispiegabili entro 30 giorni in Europa contro la Russia a partire dal 2020.
Sempre in funzione anti-Russia navi italiane partecipano a esercitazioni Nato di guerra sottomarina; forze meccanizzate italiane fanno parte del Gruppo di battaglia Nato in Lettonia, e la Brigata corazzata Ariete si è esercitata due settimane fa in Polonia, mentre caccia italiani Eurofighter Typhoon vengono schierati in Romania e Lettonia.
Tutto ciò conferma che la politica estera e militare dell’Italia viene decisa non a Roma ma a Washington, in barba al «sovranismo» attribuito all’attuale governo.
Le relazioni economiche con la Russia, e anche quelle con la Cina, poggiano sulle sabbie mobili della dipendenza italiana dalle decisioni strategiche di Washington. Basta ricordare come nel 2014, per ordine di Washington, venne affossato il gasdotto South Stream Russia-Italia, con perdite di miliardi di euro per le aziende italiane. Con l’assoluto silenzio e consenso del governo italiano.
L’attacco a Bankitalia e l’Economia malata
di Riccardo Gallo – Corriere delle Sera – Economia 18 marzo 2019
Quarant’anni fa, la mattina di sabato 24 marzo 1979, due drammi concatenati ferirono il governo dell’economia del paese. Primo, il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, fu arrestato e il governatore Paolo Baffi subì il ritiro del passaporto. La Procura della Repubblica di Roma li accusò di favoreggiamento e interesse privato in atti di ufficio nella vigilanza sul credito al gruppo chimico Sir-Rumianca di Rovelli. Secondo dramma, poche ore prima, Ugo La Malfa, presidente del Partito repubblicano italiano e da tre giorni ministro del Bilancio e vicepresidente del Consiglio del quinto governo Andreotti, fu colpito da un ictus cerebrale, morì il lunedì 26. Il giorno prima, venerdì 23, Antonio Maccanico, segretario generale al Quirinale, scrisse nei suoi diari che aveva appreso dal capo della Procura di Roma che un sostituto procuratore intendeva agire contro il vertice della Banca d’Italia, lui aveva sospettato fosse per una certa questione politico-affaristica, e allibito ne aveva informato Pertini, Baffi e La Malfa. Sabato 24 mattina, Ciampi, direttore generale della Banca, percorreva in auto via Nazionale per recarsi in ufficio quando incrociò un’ambulanza a sirene spiegate. Solo dopo seppe che trasportava in clinica La Malfa morente. Arrivato in Banca, s’imbatté nel ciclone giudiziario (lo raccontò Ciampi ad Arrigo Levi in Da Livorno al Quirinale, il Mulino 2010). The New York Times scrisse che l’assalto dei politici alla Banca d’Italia era paragonabile all’agguato delle Brigate rosse in via Fani un anno prima. Il proscioglimento arrivò in istruttoria nel 1981. Secondo Baffi (lettera a Giovanni Ferrara in Il grande gioco del potere, Sandra Bonsanti, Chiarelettere Milano 2013), quella vicenda si sommò ad altri motivi di angoscia per La Malfa e ne causò la morte. Gli altri motivi erano probabilmente il peso della scelta politica di fare un governo proprio con Andreotti e il rifiuto del senatore repubblicano Bruno Visentini a entrare nella compagine ministeriale.
Quattro anni prima, nell’estate 1975, Guido Carli si era dimesso da governatore e aveva indicato come successore, per la sua abilità a tenere rapporti politici, Ferdinando Ventriglia ben visto da Andreotti. La Malfa invece era riuscito a far nominare Baffi, per nulla sensibile a tali rapporti. È illuminante il saggio: Paolo Baffi, Servitore dell’interesse pubblico, lettere 1937-1989, a cura di Beniamino A. Piccone, Aragno Editore 2016. Il 31 maggio 1975, nelle sue ultime Considerazioni finali, alludendo alla guerra chimica e al dissesto delle aziende del settore, Carli aveva detto che l’insufficiente collegamento fra gli Uffici [ministeriali] del Programma e gli Istituti di credito speciale «può aver contribuito all’impostazione di programmi rivelatisi nel corso del tempo di impossibile attuazione; le imprese hanno puntato verso la conquista dei pareri programmatici nella convinzione che il credito non sarebbe mancato. In alcuni casi l’inclinazione a concedere agli uni ciò che era stato concesso agli altri ha portato a non preoccuparsi di duplicazioni di iniziative, dalle quali discendono distruzioni di ricchezza… Occorrerebbe affrontare con realismo l’esigenza di assegnare all’intermediario finanziario una parte più attiva nella gestione dell’impresa indebitata». Prima di andarsene, Carli aveva dunque suggerito che gli istituti speciali (vedi Imi) si caricassero sulle spalle la croce delle aziende chimiche da loro finanziate (vedi Sir). Il 28 febbraio 2019, in un incontro alla Treccani sul tema, dai più autorevoli esponenti della programmazione economica inizio anni Settanta non è stata pronunciata alcuna autocritica sulle distorsioni indotte nei mercati.
In quei giorni drammatici di quarant’anni fa, io lavoravo all’Imi con il presidente Giorgio Cappon a un improbabile piano di risanamento del gruppo Sir-Rumianca e alla costituzione di un consorzio bancario ai sensi della legge 787 del 5 dicembre 1978 che recepiva il suggerimento di Carli e che in definitiva avrebbe salvato l’Imi. Con articoli sul Corriere della Sera nel corso del dibattito parlamentare, Visentini aveva argomentato le sue perplessità su quella soluzione. Il primo dossier sulla scrivania del nuovo ministro del Bilancio era l’Imi-Sir. Io ero molto amico dei La Malfa e, prima del malore di sabato 24, Giorgio aveva fissato per il lunedì pomeriggio un mio incontro con Ugo ministro per illustrargli i termini economico-industriali del problema. L’affare che ispirò l’attacco alla Banca d’Italia riguardava però non la Sir, ma l’Italcasse e la pretesa di “sistemare” 300 miliardi di debiti dei Caltagirone. Lo scrisse Maccanico nel suo diario, lo confidò il giorno seguente Cappon a pochi di noi dell’Imi, lo disse Baffi (Cronaca di una vicenda giudiziaria, Panorama 11 febbraio 1990). Morto Ugo La Malfa, su richiesta di Giorgio per spirito di partito, Visentini accettò di subentrargli al Bilancio, affrontò il dossier Sir, pretese che Rovelli uscisse di scena, solo così fece approvare dal Cipi il piano per il consorzio bancario. Il quale poi non funzionò, si risolse in espiazione di colpa degli istituti speciali, con una parziale conversione di crediti a capitale per la copertura di perdite pregresse, fino a che nel 1980 la Sir fu commissariata e liquidata con una legge che ricalcò l’amministrazione straordinaria varata il 3 aprile 1979.
Pochi mesi prima di morire, al congresso del partito nel giugno 1978, Ugo La Malfa preannunciò la sua uscita di scena, ricordò che per risolvere i problemi del paese le aveva provate tutte, ma invano, perciò passava il testimone ai congressisti (L’avvenire che ho voluto, Edizioni della Voce 1978). Sull’economia reale indicò quattro problemi di fondo: il peso dell’eredità culturale protezionistica e autarchica; la proliferazione delle società partecipate dallo Stato al servizio di questo o quel politico; il lavoro nero; la disoccupazione nel Mezzogiorno.
Ci vollero altri 15 anni perché le scorie di protezionismo e autarchia ereditate dal ventennio fascista fossero sciolte con il completamento del Mercato unico europeo nel 1992. E tuttavia solo le medie imprese hanno innovato e si sono internazionalizzate, conseguendo benefìci di redditività e dando più lavoro, mentre le grandi in molti casi non ce l’hanno fatta e il sistema produttivo italiano nel complesso è declinato perché impreparato a competere senza protezione statale. Rigurgiti di incultura autarchica, trasversali agli schieramenti politici, alimentano tuttora slogan subliminali e perversi come settore strategico e compagnia di bandiera.
Il numero di società partecipate dalle Amministrazioni pubbliche è salito a 6.470 nel 2009 e a 9.184 nel 2016. Nonostante il ministro dell’Economia invochi rispetto per le società quotate, Lega e 5Stelle hanno occupato i cda perfino delle società controllate da Cassa depositi e prestiti, sbugiardandone il carattere privato sentenziato dalla Corte Costituzionale.
L’economia sommersa e illegale nel 2016 secondo l’Istat (ultima rilevazione) valeva più di 210 miliardi, il 12,4 per cento del pil, con un’incidenza di un terzo nei servizi e di un quarto nel commercio, nei trasporti, negli alloggi e nella ristorazione. Nel 1978, la percentuale dei lavoratori irregolari superava il 20 per cento (Gaetani d’Aragona 1979). Per il 2016 l’Istat lo ha calcolato al 16 per cento, ma con una punta del 47 per cento nei Servizi alle persone.
La disoccupazione nel Mezzogiorno è più che raddoppiata dall’8 per cento del 1978 al 18,4 del 2018 (Istat). L’indebolimento del Mezzogiorno trova riscontro in questi giorni nella vastità del ricorso al reddito di cittadinanza, che però è un indennizzo, non una soluzione delle cause del problema.
Il mancato superamento dei dualismi del paese e il perdurare degli attacchi istituzionali («Sono diversi anni che Bankitalia non ci prende», Di Maio 19 gennaio 2019) da quarant’anni sono due facce della stessa realtà.
Se i capi politici e militari dell’Italia avessero avuto una chiara concezione strategica, avrebbero sferrato subito, nell’estate del 1940, il colpo su Malta, che avrebbe reso la marina italiana padrona del Mediterraneo, proprio come i giapponesi sferrarono subito il colpo su Singapore: la flotta britannica di Gibilterra e quella di Alessandria si tenevano già pronte a evacuare il Mediterraneo. Non lo fecero quando si resero conto che l’Italia aveva dichiarato guerra, ma non aveva nessuna voglia di farla. Se l’Italia avesse preso Malta e Suez nei primi mesi di guerra, l’intero conflitto avrebbe avuto un andamento completante diverso, a noi molto più favorevole.
Ma per essere una grande potenza, bisogna che i capi possiedano una mentalità da grande potenza; cosa che non solo non avveniva, ma la realtà era tutto il contrario: una bella fetta delle classi dirigenti faceva il tifo per il nemico e si augurava la sconfitta dell’Italia. Questo obiettivo accomunava la grande borghesia finanziaria e industriale e la dirigenza dei partiti di sinistra, comunisti e socialisti, più i cattolici; in altre parole, nel 1940 esisteva già la convergenza d’interessi che avrebbe portato alla Repubblica democratica e antifascista del 1946, un brutto compromesso tra forze politiche e sociali diversissime, accomunate solo da una cosa: l’odio e il disprezzo per la propria Patria e il desiderio di mettersi al più presto possibile all’ombra di un protettore straniero: gli Stati Uniti per le classi dirigenti borghesi, l’Unione Sovietica per i dirigenti e i militanti socialisti e comunisti. Fra parentesi, il quadro non è mutato: quel senso di odio e disprezzo per la propria Patria e quel servile desiderio di mettersi al riparo di un potere straniero sono rimasti, sono solo cambiati gli schieramenti: ora a sostenere gli Stati Uniti (e l’Unione Europea) sono i gruppi dirigenti di sinistra, più il vertice della Chiesa cattolica (questa è la grande novità, si fa per dire), mentre a guardare con speranza alla Russia sono i gruppi populisti e sovranisti, considerati come espressioni della destra. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: che l’Italia non sa far da sola; non può far da sola; non può, per esempio, uscire dall’UE e neppure dall’euro, perché da sola non conterebbe nulla (come se attualmente contasse qualcosa): mentalità auto-svalutativa che è l’esatto contrario di quel che si richiede a un popolo, anche a un grande popolo, come lo è il popolo italiano, per essere una grande potenza.
Suez Gaz de France è quel colosso colpevole della terra dei fuochi attorno a Napoli – campi flegrei e litorale domizio – poiché fu proprio Gaz de France che allora era ancora azienda completamente di Stato francese, ad acquistare la Jacorossi Spa che aveva ricevuto nel 2001 la commessa dalla Regione Campagnia di bonificare e di organizzare la raccolta dei rifiuti nei campi flegrei e litorale domizio attorno a Napoli, la cosiddetta Terra dei Fuochi (cfr. )
E fu proprio Gaz de France, poi diventato Suez Gaz de France nel 2007, a presumibilmente costringere attraverso la Jacorossi a incrociarsi le braccia a 180 lavoratori socialmente utili mentre dava in appalto la raccolta rifiuti alla mafia (cfr Report Gabanelli)
E’ quella galassia che in joint venture con BNP Paribas, controlla Total(FinaElfErg), Lafarge, Imerys, Banca Leonardo (adesso passata a Crédit Agricole), persino Iberdrola e Transcor Astra.
BNP Paribas, bisogna forse ricordarlo, è quella banca che acquistò BNL dopo una battaglia mediatica senza precedenti contro Fazio che voleva preservarla, e così facendo divenne azionista di Bankitalia oltre il fatto che era già nel cartello delle banche dealer.
Infine la galassia Suez Bnp è quella che comunemente negli anni ho chiamato i “francorotti”, per designare appunto quel coagulo di potere concentrato che vede uniti nello sfruttamento delle risorse mondiali l’elite francese, ivi compreso l’apparato di Stato esagonale, e quelli che comunemente chiamo i “rothschilds”, diventati nome comune per nominare la casta dell’1% del mondo.
L’altro azionista è Gaetano Francesco Caltagirone, e a parte che non entro nelle cronache della città, che non conosco ma che immagino, quale è la ratio di mettere una persona fisica unica come terzo azionista di un colosso come ACEA, multinazionale ex municipalizzata che gestisce i servizi pubblici della Capitale d’Italia e, in gran parte, del paese?
Tutti gli imprenditori cavalieri coraggiosi del paese diventano i prestanome di altri poteri ben più forti oltre confine e off shore, così come i Benetton hanno in realtà solo il 26% in Austrade per l’Italia.
Perché per concludere, funziona così: il potere di battere moneta e di prestarla agli Stati, è all’apice molto organizzato, ed è ben rappresentato dalla galassia Frère-BNP-Suez, è alla base molto ramificato, cambia nome, è cangiante, è multinazionale, cambia passaporto.
Fino a quando una classe politica forte e determinata non deciderà di prendere il toro per le corna, e di ripulire la gestione della res publica dagli affaristi e dalla finanza, qualsiasi sindaco di Roma fallirà.
E la domanda sorge spontanea, ed è doverosa: come fa il Comune di Roma ad avere problemi finanziari se “controlla” la multinazionale in crescita di utili Acea?
Come mai accade questo? Ci ha studiato Luigi Zingales per la Chicago University. La sua conclusione è che la produttività italiana ha smesso di migliorare da metà degli anni ’90 non tanto perché il lavoro fosse troppo regolato e protetto, e nemmeno, tutto sommato, a causa delle inefficienze del sistema pubblico. La vera causa starebbe nella incapacità degli imprenditori di aver colto la rivoluzione delle telecomunicazioni, per ristrettezza culturale; la mancanza di criteri meritocratici nella selezione dei migliori .”Familismo e clientelismo” sono le due cause della nostra perdita, arretratezza culturale e intellettuale di un paese che, nel suo insieme, ha smesso lo sforzo di essere migliore nel mondo.
Siamo, a parte le valorose eccezioni, un popolo zombificato.
“Zombificazione” è il termine che usa per l’Italia un economista che simpatizza con la rivolta italiana, Bruno Bertez. “La banche italiane, riempite di titoli di debito pubblico (per volontà di Draghi), non fanno più il loro mestiere di aprire crediti. E siccome l’economia non produce più salari per la austerità imposta dai tedeschi, non c’è potere d’acquisto nel sistema italiano. Draghi ha aggravato il problema: i titoli di debito pubblico che lui ha incitato le banche italiane ad acquistare, sono titoli che (nel quantitative easing in corso) possono essere rifilati alla BCE: ciò ha permesso di mascherare la situazione detrimento del vero mestiere delle banche: finanziare le imprese, la crescita e l’occupazione.
Così, “il male italiano, a causa delle politiche imbecilli del suo establishment, dell’Europa, di Draghi, s’è installato nella zombificazione. In Italia, tutto ciò che è ufficiale, è zombi. Le stesse strutture del paese sono intaccate dalla zombificazione”.
E come non bastasse, “un patto vergognoso e infame hanno fatto le dirigenze italiane con Bruxelles, con la Merkel: noi prendiamo in carico e ci teniamo, in Italia, parcheggiate, le orde di migranti, e voi in cambio chiudete gli occhi sui nostri problemi che non abbiamo risolto”.
E’ esattamente il patto che hanno stretto Renzi e il Pd e le sinistre con la UE.
Per Bertez il voto populista è “la reazione delle forze primarie, istintive, sotterranee – magari primarie e rettiliane, non intelligenti ma vitali – che si alzano e dicono: non vogliamo continuare ad essere zombi, vogliamo vivere.” Fornire intelligenza a queste forze primitive vitali, sarà il compito del governo nuovo. Non domandatevi se è il caso di credergli. Bisogna domandasi invece chi sta remando contro, perché ci vuol mantenere zombi.
E quando i media chiederanno, provocatori, dove il governo troverà i soldi per mantenere le sue promesse, magari il governo risponderà: cominciamo da voi.
I giornali sono per il Sistema e contro il governo giallo-verde. Li pagate voi. Quanti ne leggete? Di molti io stesso non sapevo nemmeno che esistessero.
Il raid in Siria ha chiaramente evidenziato come, in Italia, siano due le forze “liberal” su cui gli angloamericani possono fare indiscusso affidamento. Si tratta del Partito Democratico (Gentiloni: “L’Italia è da sempre un coerente alleato dell’America, chiunque sia a governarla. È una scelta di campo. E non dipende solo dal fatto che gli americani ci liberarono del nazifascismo, ma da una difesa continua dei nostri valori. Nessuna stagione sovranista potrà cambiare il ruolo dell’Occidente e la sua natura”2) e del Movimento 5 Stelle ( Di Maio: “Se qualcuno pensa di utilizzare l’attacco in Siria per sganciare l’Italia dai nostri alleati storici, cioè l’Occidente e i Paesi della Nato, allora mi troverà sempre contrario. Il M5s non ha mai detto di volersi allontanare dai nostri alleati storici”3). Nel caso del PCI-PDS-PD, la svolta atlantica risale allo storico viaggio di Giorgio Napolitano negli USA (aprile 1978, in pieno sequestro Moro), fu testata negli anni ‘90 con la stagione delle privatizzazioni, l’ingresso nell’euro e le guerre in Jugoslavia ed è stata ribadita in questi ultimi anni con l’appoggio del PD all’immigrazione indiscriminata, la campagna per lo ius soli, l’affare Regeni, etc. etc. Il caso M5S è ancora più semplice, trattandosi un partito prodotto in laboratorio, partendo dai servizi angloamericani (Gianroberto Casaleggio, Enrico Sassoon, Umberto Rapetto, etc.) e dal milieu Telecom-Olivetti.
PD e M5S sono quindi i due bastioni dell’atlantismo attorno a cui la UE/NATO cercherà di costruire, ora e nei prossimi anni, i governi utili a tenere la penisola nell’orbita “occidentale” e garantire la piena disponibilità della “portaerei Italia”. Qualsiasi governo “nazionalista” o “filorusso” dovrebbe invece fronteggiare i tentativi di destabilizzazione sperimentati da Joseph Muscat, da Andrej Babis in Repubblica Ceca, da Robert Fico in Slovacchia, da Vicktor Orban in Ungheria: terrorismo, rivoluzioni colorate, assalti della magistratura, sanzioni dell’Unione Europea. Tentativi di destabilizzazioni resi ancora più facili dalle specifici condizioni economico-finanziarie dell’Italia (l’alto debito pubblico e l’impossibilità di emettere moneta) e più spietati a causa della cruciale posizione geografica dell’Italia. Supponiamo, infatti, che l’Italia dovesse intraprendere un percorso simile alla Turchia, raffreddando i rapporti con gli angloamericani sino a minacciare la chiusura delle basi e dotandosi parallelamente sistemi di difesa aerea russi S-400: si tratterebbe di una rivoluzione geopolitica che scuoterebbe alle fondamenta il Mediterraneo, giustificando ben altro che un nuovo assassinio Moro.
Dati i precedenti, quando un personaggio come Mouaz Moustafa comincia ad alzare la voce contro l’Italia, c’è da preoccuparsi. Il nostro Paese finora è stato risparmiato dal terrorismo “islamico” stragista.
Adesso che il successo elettorale dell’ala “sovranista” può portare ad un governo meno servile, magari Daesh (sconfitto in Siria e Irak) si farà vivo in Italia? C’è da chiederselo perché abbiamo avuto altre minacce “di gravi conseguenze” da note fonti nei giorni scorsi. Dal giornale israeliano di Torino La Stampa,
La Casa Bianca al futuro governo: “Non togliete le sanzioni a Mosca”
Parla Volker, inviato dell’amministrazione Trump in Ucraina. “La Lega sbaglia, le misure europee vanno casomai rafforzate”
«L’Italia non può togliere le sanzioni alla Russia senza subire gravi conseguenze».
Si aggiunga il discorso appena tenuto da Macron davanti al Parlamento Europeo, dove, a nome dell’ideologia sovrannazionale e dei suoi banchieri, ha annunciato iniziative di ostilità contro ogni populismo e sovranismo che vede crescere. “è un dubbio sull’Europa che attraversa i nostri Paesi, sta emergendo una sorta di guerra civile europea ma non dobbiamo cedere al fascino dei sistemi illiberali e degli egoismi nazionali».