Nell’agosto 1917, dopo oltre due anni di guerra, per l’Italia, nulla lasciava intravedere una rapida conclusione dell’immane conflitto, sempre più sanguinoso e con le linee dei fronti sostanzialmente bloccate sugli inferni delle trincee. Il 2 aprile 1917 il Congresso di Washington decideva l’entrata in Guerra contro la Germania. Ma a causa della indisponibilità di un Esercito adeguato e di una flotta per trasportarlo e rifornirlo, gli effetti militari di tale decisione non potranno farsi sentire prima di un anno. L’Inghilterra, soprattutto, e la Francia avevano fatto “carte false” pur di far intervenire nel conflitto gli Stati Uniti. Decisione irreversibile e dagli effetti duraturi; per gli Europei la conclusione di un processo evolutivo che si conclude con la perdita del controllo dei loro destini. Da allora, ben prima della WWII, l’Europa sarà di fatto succube del potere nordamericano. Durante un anno, all’Est, la Germania potè tuttavia rallegrarsi della destabilizzazione del nemico russo, per la quale aveva operato a vari livelli. Nel febbraio scoppiò infatti la Rivoluzione (o la “Prima Rivoluzione Russa” o la Rivoluzione dei menscevichi) che portò all’ abdicazione dello zar Nicola II e ad un Governo Provvisorio. Fra la primavera 1917 e quella del 1918 mai l’Esercito del Kaiser fu così vicino alla vittoria.
In agosto, contemporaneamente all’XI Battaglia dell’Isonzo, tra italiani ed austro-tedeschi, finita in un altro bagno di sangue sostanzialmente infruttuoso, scoppiarono i “Moti di Torino”, esprimendo un sentimento popolare di crescente esasperazione, sicuramente influenzato dalla Rivoluzione Russa. Con un saldo di varie decine di morti, tra il 22 ed il 26 agosto, la rivolta, che assunse anche un carattere antimilitarista contro la guerra in atto, fu domata ed i dirigenti socialisti moderati ripresero il controllo del movimento operaio, anche per non accreditare l’ipotesi governativa di una rivolta “sobillata e finanziata dai Servizi tedeschi”...
Il bilancio finale fu di circa trenta morti fra i rivoltosi, una decina fra le forze dell’ordine e quasi duecento feriti; vi furono un migliaio di arrestati; di essi, varie centinaia furono processati per direttissima e condannati a pene detentive. Tra il giugno e l’agosto del 1918 ebbe luogo, avanti al Tribunale Militare di Torino, un ulteriore processo che vide imputati dodici dirigenti socialisti ed un anarchico. Dalle risultanze processuali emerse che la rivolta era stata spontanea e non era frutto di alcun complotto.
Un’analisi non di parte, sfrondata della retorica insurrezionalista, porrebbe in evidenza che all’inizio del ‘900 Torino vantava un discreto tenore di vita. Sarà il conflitto a far registrare un sensibile degrado. Dopo i primi due anni di guerra, e pur lontano dal fronte, le condizioni dei lavoratori torinesi appaiono delicate: se nel 1914, una famiglia composta da cinque persone spende per nutrirsi 20 lire e 80 centesimi circa, nel 1917 quella stessa famiglia per acquistare gli stessi prodotti spende 39 lire e 50 centesimi. La situazione precipita quando si registra un ulteriore aumento dei prezzi dei generi alimentari: il 2 agosto il costo del pane aumenta di 10 centesimi al chilo. E viene introdotto il razionamento. L’esaurimento delle scorte di farina, sia pur temporaneo, il 22 Agosto 1917, allorché quasi tutte le panetterie di Torino rimangono senza pane, scatena la protesta. Dai quartieri operai si origina una rivolta spontanea, che unisce motivazioni economiche a rivendicazioni politiche; su tutte la fine della guerra.
Il carattere spontaneo della protesta popolare spiega il motivo della diversa denominazione dei fatti di un secolo fa: per alcuni fu “La rivolta di Torino” o “I Moti di Torino”, per altri, riduttivamente, “lo sciopero del pane” o “la rivolta del pane”.
Gli storici “socialisti” indagheranno, nei decenni successivi, il fenomeno italiano del neutralismo durante la prima fase della guerra, che distinse il nostro movimento socialista pacifista dal socialpatriottismo franco-anglo-tedesco. Due storici hanno, in epoca più recente, approfondito l’insurrezione di Torino (Paolo Spriano da parte della sinistra marxista, in Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Torino, Einaudi, 1958 ed Alberto Monticone, dal punto di vista cattolico-liberale, in Gli italiani in uniforme. 1915-1918. Intellettuali, borghesi e disertori, Bari, Laterza, 1972 ed altri saggi), togliendola dalle nebbie della cronaca e dalle diatribe dottrinali della sinistra.
Con ragione, essi hanno osservato come l’insurrezione di Torino sia un fenomeno «tipico» e «italiano» del socialismo in guerra, un fenomeno unico nell’Europa occidentale, d’insurrezione di una città durante il conflitto. Torino si caratterizzerebbe, anche se in modo minoritario, nella sua istintiva forza rivoluzionaria e coscienza internazionalista nella lotta per la pace, non in funzione di un pacifismo piccolo-borghese, ma di una volontà di rottura contro lo Stato; un esempio per il proletariato italiano, ma, altresì, di una carenza di quadri direttivi e di una vera ideologia rivoluzionaria di classe.
Antonio Gramsci ed il gruppo dirigente comunista, riesaminando tale fatto su «Stato Operaio», vedranno uno degli elementi dell’insuccesso dell’insurrezione torinese nel mancato passaggio delle truppe nel campo dei rivoltosi. Scriverà Gramsci nel 1920:
“Invano avevamo sperato nell’appoggio dei soldati; i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi…Le donne operaie e gli operai che insorsero nell’agosto a Torino, che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano contro la guerra, ma volevano che la guerra terminasse con la disfatta dell’esercito della borghesia italiana e con una vittoria di classe del proletariato. Con ciò essi proclamavano che la guerra non crea un interesse comune tra la classe borghese dominante e i proletari sfruttati, con ciò essi superavano in modo definitivo le posizioni pseudoclassiste e pseudointransigenti del Partito Socialista”.
Durante i giorni della rivolta antimilitarista, le donne furono magna pars della stessa ed un buon numero protagoniste di un episodio, poi testimoniato da una giovane operaia:
“Un migliaio di donne sbucarono dai portoni di tutte le case, ruppero i cordoni e tagliarono la strada ai carri blindati. Questi si fermarono un momento. Ma l’ordine era di andare ad ogni costo, azionando anche le mitragliatrici. I carri si misero in moto: allora le donne si slanciarono, disarmate, all’assalto, si aggrapparono alle pesanti ruote, tentarono di arrampicarsi alle mitragliatrici, supplicando i soldati di buttare le armi. I soldati non spararono, i loro volti erano rigati di sudore e lacrime. Le tanks avanzavano lentamente. Le donne non le abbandonavano. Le tanks dovettero arrestarsi”.
Come già emerso durante “La Settimana rossa” – guidata da Mussolini, Corridoni, Nenni, Malatesta – l’insurrezione popolare sviluppatasi ad Ancona e propagatasi dalle Marche alla Romagna, alla Toscana e ad altre parti d’Italia, tra il 7 e il 14 giugno 1914, per reazione all’uccisione di tre manifestanti ad Ancona ad opera della forza pubblica, dopo un’iniziale fiammata rivoluzionaria, con la proclamazione dello sciopero generale in tutta Italia, terminò quando la Confederazione Generale del Lavoro decise la cessazione dello sciopero ed il ritorno al lavoro. Scriverà più tardi Pietro Nenni:
“La Settimana rossa lascerà una traccia profonda nell’immaginario popolare come un momento in cui il proletariato aveva unitariamente dato prova della propria combattività, arrivando a sfiorare per un fugace attimo l’ebbrezza della rivoluzione sociale”.
Similmente a Torino, nel ’17, la rivolta fallì a causa della mancanza di unità: non c’erano organizzazioni in grado d’incanalare le forze e dare loro un programma. Il Partito Socialista Riformista, di carattere revisionista, funzionò come “il solito freno”, secondo i massimalisti. Nato nel 1912 su iniziativa di Leonida Bissolati, dopo l’espulsione dal Partito Socialista, con Ivanoe Bonomi e Gino Piva, per il quale «il socialismo non è rivoluzionario, né riformista; è quello che il suo tempo lo fa, non può avere apriorismi: esso deve operare come può, nell’ambiente in cui vive». Alle elezioni del 1913 aveva raccolto il 3,9 % dei suffragi e 19 deputati alla Camera.
Gran parte della classe operaia torinese s’ identificava con tale socialismo moderato, se non con il “giolittismo”. Mai a Torino c’era stata una rivolta contro il Governo (sempre i Carabinieri sono stati applauditi dal popolo!), se non nel settembre 1864, contro la decisione del trasferimento della Capitale a Firenze. Ma allora fu essenzialmente una strage causata dall’intervento precipitato e sconsiderato degli Allievi Carabinieri.
Martedì 28 agosto, sedate le rivolte, le Autorità poterono annunciare che «l’ordine regna a Torino». Come scriverà Luigi Scoppola Iacopini sulla rivista Mondo Contemporaneo (Milano, Franco Angeli, 2009), in “I moti di Torino dell’agosto 1917 nelle memorie di un socialista”, cioè di Gino Mangini (1898-1983), autore di un lungo dattiloscritto Illusioni e desillusioni di un vecchio socialista (1973?): “L’insurrezione popolare di Torino nelle giornate dell’agosto 1917 è, senza ombra di dubbio, l’unico vero atto di massa contro la Grande Guerra registratosi nel nostro Paese”.
Alle ore 2 del 24 ottobre 1917 iniziò la battaglia di Caporetto che rappresenta la più grave disfatta nella storia dell’Esercito italiano. Dopo Caporetto il proletariato, senza alcuna direzione rivoluzionaria, rimase isolato e battuto dalle parole d’ordine governative e socialriformiste della «Patria sul Grappa», come fu sostenuto dalla sinistra radicale.
Al fronte, le classi subalterne italiane avevano scoperto la Patria, nella percezione di una comunità più grande di quella del piccolo mondo paesano o del gruppo sociale di appartenenza, fatta di un comune destino, in grado di apprestare gli architravi di una coscienza nazionale. I lavoratori, delle campagne e delle officine, sui campi di battaglia avevano cominciato a sentirsi veramente “italiani”: combattendo si erano guadagnati “i diritti di cittadinanza”, che per i contadini poggiavano sul diritto alla terra, per gli operai su di un equo salario ed una stabile occupazione. La promessa del generale Armando Diaz, di dare «la terra ai contadini», all’indomani della sconfitta di Caporetto, si configurò come il riconoscimento da parte delle classi dirigenti liberali della necessità di accelerare l’inclusione dei ceti popolari nello Stato-Nazione: non solo per vincere la guerra, ma per fondare sulla “nazionalizzazione delle masse” un nuovo sistema politico e statuale che ne sarebbe inevitabilmente scaturito. All’indomani di Vittorio Veneto, nel 1918, tale proposito non ebbe un seguito reale ed alla mobilitazione delle classi subalterne, che affondava le sue radici proprio nella domanda di inclusione sociale e di legittimazione, lo Stato liberale non seppe dare una risposta adeguata. In questa carenza trovò la sua origine il Fascismo.
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