Ero venuto a Belgrado per il convegno nel X anniversario dell’aggressione. Ci sono tornato ora nel XX. Dubito, a 85 anni, che mi rivedranno al XXX. Ma loro terranno duro, fino a quando la vulgata delle menzogne su Jugoslavia, Serbi, loro uccisori e devastatori non sarà riconosciuta da un’opinione pubblica che insiste a farsi turlupinare da delinquenti della guerra, dello schiavismo coloniale e dell’informazione. Fino a quando le vittime non saranno state risarcite, bonificati i territori e curati i corpi bruciati dall’uranio impoverito (tra i ragazzi sotto i 15 anni tre volte i tumori della normalità senza uranio) e avvelenati dalle sostanze chimiche fatte sprigionare dagli impianti petrolchimici di Pancevo. Sparute voci invocavano memoria, ma anche perdono. Subito subissate dal coro: “Non dimentichiamo, non perdoniamo”.
Loro che tengono duro, fin dai giorni dell’aggressione, sono capeggiati da un uomo della cui specie ne vorremmo avere anche da noi. Zivadin Jovanovic era ministro degli esteri nel governo di Slobodan Milosevic, testimone dell’infame inganno di Rambouillet, trattato di “pace” con cui Madeleine Albright (quella dei “500mila bambini morti che valevano la pena per prendersi l’Iraq”) pretendeva di imporre alla Serbia di farsi occupare dalla NATO. Testimone, alla fine dei bombardamenti, della “pace” di Kumanovo. Forse l’unico, grande errore di Milosevic: il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo. Difficilmente l’UCK, se non la NATO, avrebbero prevalso, tra le montagne serbe, sull’esercito erede della lotta partigiana ai tedeschi. Avremmo vissuto un’altra storia.
Sicuramente non quella di una Grande Albania che incorpori Kosovo e pezzi di Serbia, Montenegro e Macedonia, vascello pirata sospinto dal soffio NATO e UE, tornato virulento in questi mesi e ansioso di farla finita con una Serbia che a Putin in visita a gennaio offre tripudio, un milione di cittadini in festa e il rifiuto della NATO (“Per difenderci basta il nostro esercito. Non abbiamo bisogno della NATO”. Così, alla conferenza, il ministro della Difesa, Aleksander Vulin, ripetendo ciò che aveva detto il presidente Vucic). Una Serbia che dall’inverno scorso viene descritta come assediata dalle opposizioni anti-Vucic, ma che a fine marzo abbiamo visto in piazza ridotta a poche decine di manifestanti. Tra l’altro con parole d’ordine che richiamano con precisione quelle di Otpor, la Quinta Colonna creata dalla CIA nel 2000 e poi attiva nell’innesco di quasi tutte le “rivoluzioni colorate”, fino al golpe di Guaidò in Venezuela.
(…) Quello del Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali è stato, doveva essere, alla vista dell’oblio indotto dai responsabili e dai loro amanuensi, un convegno della memoria. Ma da Zivadin Jovanovic all’ultimo delegato, eravamo coscienti che la memoria non serve se resta galleria degli antenati e dei paesaggi. Ambiente in cui si crogiola troppa gente. La memoria dei Serbi non cessa di accusare e avvertire: per i necrofori, la Serbia dovrebbe essere diventata il paradigma dell’umanità. O si resiste alle sirene USA, NATO, UE, o si muore tutti. La memoria, quando è denuncia, diventa resistenza. A partire dalla lotta contro coloro che oggi vengono di nuovo incaricati di agitare la piazza. Piazza spuria e strumentale per abbattere un presidente che, forse ondeggiante, ha comunque dichiarato un no epocale alla NATO. Una NATO che, a partire dal progetto che riunisca tutti gli albanesi in unico Stato all’ordine della criminalità internazionale e locale, prosegua l’infinita destabilizzazione dei Balcani e la faccia finita con quel cuore serbo che ha vinto i nazisti e ora rifiuta di farsi testa di ponte per la guerra alla Russia.”
Da Convegno internazionale a vent’anni dall’aggressione “DIMENTICARE? PERDONARE? MAI!”, di Fulvio Grimaldi.