Il potere in USA

I Democratici, il partito del Nuovo Ordine Mondiale, fanno affidamento sulle minoranze perché sono più facili da modellare e da piegare. Di regola, sono obbedienti. Gli Americani normali, la maggioranza, sono stati rimossi dalle posizioni importanti e gli incarichi più prestigiosi affidati a gay, persone di colore, Ebrei e Indù. Ora Trump ha iniziato a compensare questo squilibrio. Kevin MacDonald ha osservato che il problema di “chi ottiene l’incarico” è il più importante nella lotta per il potere. La Chiesa, una volta, era uno strumento per riservare gli incarichi migliori ai Cristiani, mantenendo gli Ebrei sui gradini più bassi. Con la Chiesa ormai ridimensionata, sono gli Ebrei che ora ottengono gli incarichi importanti e tengono alla porta gli Americani normali.

Si dice che Amy Barrett voglia cambiare la legge sull’aborto. In verità, vuole renderlo nuovamente legale. La legge americana sull’aborto basata su Roe v. Wade, (1973), è “una decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti in cui la Corte ha stabilito che la Costituzione degli Stati Uniti protegge la libertà di una donna incinta di scegliere di abortire.” Questa decisione è una delle tante delibere, ovviamente illegali, stabilite dalla Corte Suprema. Il punto principale della questione è che la Costituzione degli Stati Uniti non protegge o nega tale libertà. Tale diritto potrebbe essere aggiunto come emendamento alla Costituzione, se i vari stati fossero d’accordo (secondo me non lo faranno). Ma, attualmente, non c’è nulla nella Costituzione, o negli statuti, che consenta alla Corte Suprema di aggirare gli stati e il popolo e di pronunciarsi sul tema dell’aborto.

Allo stesso modo, non c’è nulla nella Costituzione degli Stati Uniti che consenta o vieti il “matrimonio” gay. Nel 2015, la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva decretato con una votazione 5 contro 4 (decisa dal voto di RGB) che il Quattordicesimo Emendamento richiede che tutti gli stati permettano i matrimoni omosessuali e riconoscano i matrimoni omosessuali celebrati in altri stati. Questa è un’evidente falsità: il 14° Emendamento era stato emanato nel 1868 e, per cento anni, nessuno si era accorto che avesse qualcosa a che fare con il matrimonio gay. I sostenitori di questo genere di unione potrebbero fare pressioni per ottenerla nel solito modo, attraverso le leggi dei vari stati, ma hanno ritenuto più opportuno averla per direttissima tramite la Corte Suprema, anche se questo tribunale non ha assolutamente il diritto di aggirare il normale sistema legislativo.

I tribunali statunitensi sono attualmente dominati da giudici di nomina democratica dediti all’ingegneria sociale, che vogliono guidare il paese nella direzione che preferiscono, e al diavolo la legge e la volontà popolare. Ecco perché non sarà facile ottenere l’approvazione del Senato alla nomina di Amy Barrett. Se entrerà in carica prima delle elezioni, potrebbe benissimo diventare la katechon, la persona che “impedisce al potere segreto dell’illegalità di farsi strada” (2 Tessalonicesi 2: 6–7). E i senza legge lo sanno.

Gli oppositori di Trump al Senato sono abili nel lanciare fango contro gli incaricati del presidente populista. Il vergognoso spettacolo dell’udienza di Brett Kavanaugh si ripeterà, senza dubbio, con secchiate di bugie e diffamazioni rovesciate sulla testa di Amy Barrett.

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/una-devota-cristiana-al-posto-di-un-ebrea-liberale-la-carta-vincente-di-donald-trump

Buone notizie

Il 4 maggio scorso in un’intervista al New York Post, Trump aveva insistito che sebbene il virus fosse venuto dalla Cina, La leadership cinese (cioe Xi Jinping) “non l’aveva fatto apposta”. E quindi  il coronavirus non poteva diventare un casus belli in nessun caso. “Non voglio parlare di guerra, non parliamo di guerra! E’ una cosa triste, Avevamo abbiamo appena concluso un accordo commerciale con la Cina qualche mese fa. Prima di questo [la crisi del Coronavirus] avevamo appena concluso un accordo commerciale, c’era un grande ottimismo. E poi succede una cosa del genere… e diventa la cosa predominante su tutto.”

Trump si riferiva all’accordo commerciale raggiunto il 12 dicembre scorso e firmato alla Casa Bianca il 15 Gennaio dal vice premiere cinese Liu He e Trump. Proprio prima che il Coronavirus sconvolgesse tutto e portasse Cina e USA sull’orlo di una guerra calda. Trump aveva lavorato per lungo tempo per arrivare ad un accordo, lo stesso, apparentemente aveva fatto il presidente Xi. Nell’aprile del 2019, in una delle tappe negoziali alla Casa Bianca, Trump aveva teatralmente chiesto a Liu He cosa pensasse del “ridicolo” ammontare speso in armamenti  dai due paesi.        “Stanno producendo tante armi, armi tremende. Anche noi. Avevamo appena approvato $ 716 miliardi per l’esercito l’anno scorso, e ora probabilmente faremo di più quest’anno”, aveva esclamato Trump ai giornalisti alla Casa Bianca . “Tra Russia e Cina e noi, stiamo tutti spendendo centinaia di miliardi di dollari di armi, compreso il nucleare, il che è ridicolo”. Un accordo commerciale sarebbe seguito da un accordo sul disarmo, che ne pensa il vicepremier? E, pronto, Liu He aveva risposto a gran voce: “Penso che sarebbe un’ottima idea!” Uno scambio pubblico che aveva gelato il sangue ai grandi predatori del Complesso Militare Industriale. Avevano visto in faccia la fine del loro enorme potere.

Poi era arrivato il Coronavirus…

Oggi

Il Dipartimento di Giustizia ha ufficialmente scagionato da ogni accusa la prima grande vittima del tentato golpe, il consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale, il generale Michael Flynn, intrappolato illegalmente con accuse visibilmente  false per ordine di Comey.

Flynn, ex direttore del Defense Intelligence Agency (DIA) era ed e l’uomo che sa dove sono sepolti gli scheletri a Washington. Flynn era rimasto in carica solo tre settimane. Si preparava a ripulire le stalle di Augia del Deep State. Ma i suoi nemici sapevano bene che non avrebbero avuto scampo contro un uomo che conosceva tutti i loro più inconfessabili traffici.

Perciò era stato preso in una trappola dell’FBI scattata pochi giorni dopo l’inaugurazione di Trump. Dopodiché era stata scatenata l’Operazione Impeachment diretta da un altro ex direttore dell’FBI, James Mueller.

Da quel momento è stato un susseguirsi di trucchi sporchi attuati col sostegno totale dei media. Tutto è stato tentato per impedire il consolidarsi dell’amministrazione Trump e, in particolare, per impedire una collaborazione tra Trump e Putin entrambi colpevoli di non essere al servizio dei grandi oligarchi finanziari.

Una collaborazione tra i due presidenti e col presidente cinese Xi Jinping come rappresentanti degli interessi e aspirazioni dei rispettivi popoli sarebbe stata una campana a morto per gli interessi finanziari che avevano dominato gli Stati Uniti e gran parte del mondo per parecchi decenni. Erano state questi predatori finanziari che avevano distrutto la grande opportunità emersa nel 1989 con la caduta del muro di Berlino.

Erano state queste forze che avevano impedito la dissoluzione della NATO (ormai inutile dopo la fine dell’Unione Sovietica) e l’avevano trasformata nelle legioni dell’impero mondiale usando come base la cosiddetta superpotenza americana che nel frattempo veniva saccheggiata economicamente.

Questa era stata la ragione per cui gli americani avevano votato Trump il cui programma era fine delle guerre senza fine (le legioni della NATO) e fine del saccheggio dell’economia reale.

L’articolo Trump e Putin annunciano un piano di disarmo e cooperazione Russia-USA-Cina proviene da Blondet & Friends.

Non tutto il male vien per nuocere

Ciò che colpisce,  sono le cifre che la Cina ha messo in gioco per assicurare la Grecia al suo progetto.  Al Pireo, fino ad oggi, COSCO ha investito  – in un decennio –  800 milioni di euro, cifra  che è  bastata per trasformare l’antico porto  nell’hub delle esportazioni cinesi verso la UE, e  farlo passare dalla  capacità di gestire 685 mila containers  che aveva nel 2010, a 5 milioni di oggi,  un aumento di 8 volte. Passa di  lì il 10 per cento delle  merci cinesi esportate in Europa.   Nei prossimi  5 anni, i cinesi intendono investire altri 600 milioni di euro nel Pireo, espandere ulteriormente il porto container ed “entrare sempre più nel settore alberghiero e nelle crociere”.  Il numero di turisti cinesi che visitano la Greci raddoppia da un anno all’altro, e nel 2020 sarà sui 400-500 mila presenze; sicché la Cina ha inaugurato un volo diretto Shanghai-Athene.

Nell’insieme, gli investimenti che la Cina ha programmato di fare in Grecia sono di 3 miliardi di euro  in 5 anni,  ossia 600 milioni di euro l’anno.

Sottolineo, di queste cifre, la levità.  La  piccolezza. Niente che non fosse alla facile portata della Germania, col suo surplus annuo di export di 250 miliardi;  basta pensare alle centinaia di miliardi che Deutsche Bank e Commerzbank hanno sprecato in cattivi investimenti  dovunque nel mondo tranne in Europa, dalla Turchia a Wall Street , per  mancanza di occasioni  d’investimento in Europa data l’austerità che Berlino ha imposto a tutti membri.  Col risultato che  “le imprese tedesche hanno investito i loro profitti all’estero, aiutando di fatto a finanziare le importazioni straniere” (Adam Tooze)

http://letstalkbooksandpolitics.blogspot.com/2012/08/germanys-growth-is-unsustainable.html

e senza ricavare profitti, tra l’altro. Ma che dico, mal investimenti? Basta paragonare i 3 miliardi cinesi in Grecia con i 12 miliardi  che la sola Deutsche  Bank ha pagato in multe per  i suoi trucchi sul Libor ed altre malversazioni agli …  Stati Uniti.

https://news.bitcoin.com/deutsche-bank-collapse-could-crash-global-financial-markets/

Con 600 milioni qui e là, in  tutti questi anni, la Germania poteva tenersi legata la Grecia  – facendo tra l’altro in  buon affare (la COSCO dal porto del Pireo, ricava ovviamente profitti, avendone  aumentato di un terzo  la  superficie  e quadruplicato  la redditività). Invece, che cosa è andata a fare la Merkel nelle sue visite ufficiali ad Atene?   Mai a dare un soldo, ma questo è il meno;  a fare della Grecia la discarica delle sue scelte migratorie dementi   – senza alcun compenso. Ma questo non è ancora tutto.   Quando la Merkel è comparsa in visita ad Atene, è stato per  imporre , fra aspri rimproveri di “vivere  al disopra dei propri mezzi” – al”suo” Tsipras,   che ha reso il suo schiavo  –    di non spendere.

Apprendiamo infatti  – dal China Daily   – che nell’anno in corso, il governo conservatore di Atene ha approvato investimenti cinesi per 611,8 milioni di euro, “che erano stati precedentemente congelati dal governo di Tsipras   per  un periodo di 18 mesi” per il divieto imposto dalla UE.

Già, perché senza mai cacciare un centesimo, e continuando a rimproverare i greci di  aver voluto vivere al disopra dei propri mezzi  accettando di indebitarsi troppo con la banche germaniche e francesi, e quindi   devono soffrire, per  giunta Bruxelles (ossia Berlino) e la NATO (ossia gli USA)   “dal punto di vista geopolitico, i partner occidentali sono preoccupati che il flirtare della Grecia con La Cina potrebbe indebolire il fianco sud-est della NATO e dell’UE”.

Stanno parlando del fianco sud-est  già  “indebolito” dalla Turchia  di Erdogan .  Della NATO in stato di  “morte cerebrale” secondo  il capo della sua maggior forza armata europea. Di Stati Unitidi cui persino la Merkel riconosce che non si può più confidare come difensori della UE.  Gli Stati Uniti in condizione tale, che secondo  un sondaggio  Rasmussen in 2018 ,  il 31 % degli elettori americani ritengono che l’America “vedrà una seconda guerra civile nei prossimi 5 anni”, con  i trumpisti armati  contro gli anti-Trump.

PECHINO FA’ DELLA GRECIA LA TESTA DI PONTE – E CON QUATTRO SOLDI (CHE LA MERKEL HA RISPARMIATO)

Vaso di coccio

Il governo Conte dichiara «eccellente» lo stato delle relazioni con la Russia quando, appena una settimana prima in sede Nato, ha accusato di nuovo la Russia di aver violato il Trattato Inf  (in base alle «prove» fornite da Washington), accodandosi  alla decisione Usa di affossare il Trattato per schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia.

Il 3 luglio, il giorno prima della visita di Putin in Italia, è stata pubblicata a Mosca la legge da lui firmata che sospende la partecipazione russa al Trattato: una mossa preventiva prima che Washington ne esca definitivamete il 2 agosto.

  • Lo stesso Putin ha avvertito che, se gli Usa schiereranno nuove armi nucleari in Europa a ridosso della Russia, questa punterà i suoi missili sulle zone in cui sono dislocate.
  • È così avvertita anche l’Italia, che si prepara a ospitare dal 2020 le nuove bombe nucleari B61-12 a disposizione anche dell’aeronautica italiana sotto comando Usa.
  • Una settimana prima della conferma dell’«eccellente» stato delle relazioni con la Russia, il governo Conte ha confermato la partecipazione italiana alla forza Nato sotto comando Usa di 30 navi da guerra, 30 battaglioni e 30 squadre aeree dispiegabili entro 30 giorni in Europa contro la Russia a partire dal 2020.
  • Sempre in funzione anti-Russia navi italiane partecipano a esercitazioni Nato di guerra sottomarina; forze meccanizzate italiane fanno parte del Gruppo di battaglia Nato in Lettonia, e la Brigata corazzata Ariete si è esercitata due settimane fa in Polonia, mentre caccia italiani Eurofighter Typhoon vengono schierati in Romania e Lettonia.

Tutto ciò conferma che la politica estera e militare dell’Italia viene decisa non a Roma ma a Washington, in barba al «sovranismo» attribuito all’attuale governo.

Le relazioni economiche con la Russia, e anche quelle con la Cina, poggiano sulle sabbie mobili della dipendenza italiana dalle decisioni strategiche di WashingtonBasta ricordare come nel 2014, per ordine di Washington, venne affossato il gasdotto South Stream Russia-Italia, con perdite di miliardi di euro per le aziende italiane. Con l’assoluto silenzio e consenso del governo italiano. 

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=62223

Terrorismo USA

Fonte: Massimo Fini

J’accuse.
Chi sono i più pericolosi terroristi del mondo? I guerriglieri dello Stato islamico che si sono battuti, con grande coraggio, a Mosul e Raqqa? Quelli che con altrettanto coraggio si stanno difendendo quasi fino all’ultimo uomo nella ridotta siriana di Baghuz contro forze preponderanti, esercito di Assad, russi, turchi, i formidabili combattenti curdi appoggiati dall’aviazione Usa? I ‘lupi solitari’, soggetti che stanno fra una radicalizzazione estrema e paranoia, che hanno colpito in Francia, in Germania, in Turchia? No, i più pericolosi terroristi del mondo sono i gloriosi United States of America. Mi auguro che i lettori del Fatto, e coloro che ne sono venuti a conoscenza grazie a Rai3, abbiano dato un’occhiata non distratta all’accurato reportage di Pino Arlacchi, pubblicato dal nostro giornale mercoledì scorso, supportato da un report dell’esperto Onu Alfred De Zayas che l’ultimo Venezuela lo conosce e lo ha percorso in lungo e in largo. Arlacchi fa risalire, dati alla mano (forniti dal Fmi e dalla Banca Mondiale), la drammatica situazione in cui si trova oggi il Paese sudamericano alle “barbare sanzioni americane contro il Venezuela decise da Obama nel 2015 e inasprite da Trump nel 2017 e nel 2018”. Sotto le presidenze di Chavez e Maduro le spese sociali avevano raggiunto il 70% del bilancio dello Stato, il Pil pro capite è più che triplicato in poco più di 10 anni, la povertà era passata dal 40 al 7%, la mortalità infantile è dimezzata, la malnutrizione era diminuita dal 21 al 5%, l’analfabetismo è stato azzerato e il coefficiente Gini di disuguaglianza è sceso al livello più basso dell’America Latina. Quando le televisioni nostrane vi fanno vedere i macilenti bambini venezuelani ridotti alla fame o gli ospedali privi di medicinali essenziali dovete quindi sapere che queste non sono responsabilità di Maduro ma del cappio economico sempre più stretto dagli Usa al collo del popolo venezuelano. Tanto che lo stesso De Zayas ha proposto un utopico deferimento degli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale per “i crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dal 2015”.
Ma questa non è che l’ultima delle infamie commesse dagli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Siamo qui costretti a ripercorrere una filiera che abbiamo già ricordato molte altre volte: 1999, aggressione alla Serbia per il Kosovo, 5.500 morti fra cui molti serbo-albanesi le cui ragioni si intendeva difendere; 2001, aggressione e occupazione dell’Afghanistan che dura da 18 anni (numero delle vittime civili incalcolabile perché mai calcolato); 2003, aggressione e occupazione dell’Iraq di Saddam Hussein (vittime civili stimate fra 650 mila e 750 mila); 2006/2007, aggressione, attraverso l’interposta Etiopia, alla Somalia dove gli Shabaab avevano riportato l’ordine e la legge dopo anni di incontrollabili scorribande fra i ‘signori della guerra’ locali, un duro ordine e una dura legge ma pur sempre un ordine e una legge (oggi la Somalia è in preda a una sanguinosa guerra civile fra gli Shabaab e il governo fantoccio di Mogadiscio); 2011, aggressione, insieme ai francesi, alla Libia del colonnello Gheddafi le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti; 2011, intromissione nella ribellione ad Assad, trasformando un conflitto locale in una guerra generalizzata sulla quale si sono avventate, oltre alla Russia, tutte le Potenze dell’area, dalla Turchia all’Iran a Israele. Tali sono i risultati ottenuti da questi vessiliferi della Democrazia, da questi indefessi riparatori di torti, da questi protettori dell’ordine e della pace mondiali.
Io credo che la vittoria nella Seconda guerra mondiale non abbia fatto bene agli americani. Li avevamo conosciuti come un popolo semplice, un po’ naif, generoso, animato da reali buone intenzioni e non possiamo dimenticare l’omaggio che Curzio Malaparte, ritornato proprio in questi giorni in auge con la pubblicazione dei suoi reportage africani, rende ne La pelle a “tutti i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani…morti inutilmente per la libertà dell’Europa”. Né, naturalmente, noi italiani, possiamo dimenticare il piano Marshall che permise la ricostruzione del nostro Paese distrutto. Ma quella vittoria è stata a doppio taglio. Nel suo bellissimo libro, Piedi, Laura De Luca, che lavora a Radio Vaticana e non può essere certo considerata un’estremista, ricorda l’epopea degli Sciuscià, i ragazzi napoletani, costretti dalla povertà a lustrare le scarpe ai vincitori. E scrive: “La sottomissione ai nuovi dominatori del mondo. L‘epopea degli Sciuscià, shoes-shining for ever, li voleva inginocchiati ai piedi di chi lanciava loro sigarette e cioccolata e indossava la maschera buona del liberatore capace di saziare la fame della guerra. Di fronte a chi riscattava il mondo da un potere mortifero era giusto riconoscere un altro potere, solo in apparenza meno duro, quello di umiliare disinvoltamente i più deboli”.

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=61699

Liti tra camerieri

Questa settimana la Francia e diversi altri membri dell’UE, tra cui Germania, Gran Bretagna, Spagna e Paesi Bassi, hanno annunciato che stavano “riconoscendo” un presidente autoproclamato in Venezuela. La figura dell’opposizione marginale, Juan Guaido, si è dichiarato “presidente ad interim” del paese sudamericano il 23 gennaio.

Ci sono collegamenti ben documentati tra Guaido e il suo partito di opposizione di estrema destra con la CIA americana. Il trasferimento di potere per delegittimare il presidente eletto, Nicolas Maduro, è stato orchestrato dall’amministrazione Trump. Si tratta di una palese manovra illegale di cambio di regime che viola la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale. Il governo socialista di Maduro e la ricchezza naturale di petrolio della nazione – le più grandi riserve conosciute del pianeta – sono obiettivi ovvi per Washington e per la capitali europee.

La Russia, la Cina, l’Iran, la Turchia, così come alcuni paesi dell’America Latina, tra cui il Messico, il Nicaragua, la Bolivia e Cuba, hanno giustamente denunciato l’ingerenza negli affari sovrani del Venezuela. La richiesta di Washington di Maduro di dimettersi sotto la minaccia dell’invasione militare statunitense è un’esibizione sbalorditiva di aggressione imperialista. Ma il gangsterismo internazionale viene a indulgere in certi stati europei, in primo luogo in Francia, che conferiscono una piaga di legittimità all’intero vergognoso affare .

L’Italia è uno dei pochi stati dell’UE che si è rifiutato di andare avanti con la campagna criminale guidata dagli Stati Uniti per il cambio di regime in Venezuela. Il governo italiano ha bloccato l’Unione Europea dall’emettere una dichiarazione politica congiunta che chiedeva il riconoscimento di Guaido come “presidente” al posto di Maduro. Le potenze europee, impegnate nella violazione della sovranità Venezuela da parte di Washington, lo fanno con la loro stessa complicità, non nel nome dell’UE.

https://www.controinformazione.info/italiani-eroici-chiamano-ipocriti-i-franco-germanici-in-venezuela/

Sarà l’anno buono?

Gli USA sono di fatto un paese super indebitato che vive al di sopra delle sue possibilità, con una economia che si regge sulla stampa di migliaia di miliardi di dollari, che ancora vengono accettati in buona parte del mondo grazie al signoraggio del dollaro, una posizione che però inizia a dare segni di fine del ciclo. Il rischio sta nella evenienza che gli stessi Stati Uniti finiscano divorati dai loro debiti e questo accadrà quando altri paesi inizieranno a rifiutare i dollari come moneta fiduciaria (cosa che si sta già verificando).

Potrebbe essere quello il momento della svolta e non sarebbe di grande meraviglia che la dirigenza USA voglia provocare un grande conflitto per mascherare questa crisi. Questo spiega la sempre maggiore aggressività dei responsabili politici di Washington verso la Russia e verso la Cina, i paesi che sono indicati come “competitors” e rivali rispetto alla dominazione degli Stati Uniti a livello mondiale.

Non sono pochi gli analisti che prevedono una prossima caduta dell’Impero Americano, solo questione di tempo, dicono, se ne scorgono tutti i segni premonitori e non sarà un processo indolore.
Di sicuro si è manifestata negli ultimi anni una crisi interna, dovuta ad una politica economica “neo liberal” che ha favorito i grandi conglomerati finanziari collegati con mega corporations, la stessa che ha determinato le delocalizzazioni di molte aziende industriali e nel contempo ha prodotto l’affossamento della classe media e l’emergere di una grande massa di poveri, una caratteristica più da terzo mondo che non da paese evoluto. Un situazione questa non segnalata inzialmente dalle statistiche che indicano il tasso di relativa crescita economica ma non segnalano ugualmente con la medesima importanza il crescente impoverimento della classe media, la perdita del potere di acquisto e l’indebitamento sempre maggiore delle famiglie. Un fenomeno tipico ormai delle società post industriali che rigurda anche altri paesi dell’Occidente.
Tale dissesto socio economico era stato quello che aveva portato, nel Novembre del 2016, all’inaspettato risultato della elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Questa elezione ha rappresentato il sintomo di un profondo malessere della società americana. Tutte le analisi dei sociologi hanno rilevato che nella società americana sono presenti livelli di insoddisfazione e di emarginazione, impoverimento di vasti strati sociali che hanno determinato una notevole divaricazione dell’America profonda rispetto all’establishment dominante e che potrebbero portale in prospettiva a scontri sociali e una possibile guerra civile in una paese fortemente armato e sempre più diviso.
Alcuni analisti ed intellettuali statunitensi si sono sforzati di individuare le cause di questo dissesto della società nord americana, come ha fatto ad esempio lo scrittore e giornalista Chis Hedges (1) (premio Pulitzer) il quale, nelle sue ultime opere, ha scritto che gli Stati Uniti hanno perso il controllo del proprio sistema socio-economico. In particolare questo autore si riferisce alla enorme crescita delle disuguaglianze nella società USA che ha portato a livelli enormi la differenza tra la classe ricca ed emancipata collegata al’establishment ed alle oligarchie economiche dominanti, in forte contrasto con la povertà delle periferie urbane depresse e violente che sempre di più si avvicinano al paragone con le favelas brasiliane.

https://www.controinformazione.info/il-fallimento-del-modello-americano-e-le-sue-conseguenze/

Due pesi, due misure

Le autorità inglesi e i parenti della  famiglia hanno costantemente rifiutato qualsiasi contatto di Mosca con la coppia Skripal, nonostante più di 60 richieste ufficiali da Mosca in conformità con il diritto internazionale e nonostante il fatto che Yulia sia un cittadino della Federazione Russa con diritti consolari. È un oltraggio basato su un sottile strato di “prove”, con cui gli inglesi hanno costruito un edificio di censura contro Mosca, mobilitando una campagna internazionale di ulteriori sanzioni e espulsioni diplomatiche. Ora contrastiamo quella reazione faticosa, anzi l’iper-reazione eccessiva, con il modo in cui la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Francia, il Canada e altri governi occidentali stanno sempre così lentamente reagendo all’Arabia Saudita per il caso Khashoggi. Dopo quasi due settimane, da quando Jamal Khashoggi è entrato nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia, il regime saudita soltanto questa settimana ha finalmente ammesso  eche il giornalista è stato assassinato nei loro locali – anche se, loro sostengono, in un “pasticcio d’interrogatorio”. I servizi segreti turchi e americani avevano in precedenza affermato che Khashoggi è stato torturato e ucciso nei locali del consolato saudita  da una squadra di 15 membri inviata appositamente  da Riyadh. Ancora in modo più raccapricciante, si afferma che il corpo di Khashoggi sia stato fatto a pezzi con una sega per ossa  dagli assassini, i suoi resti sono stati espulsi dall’edificio del consolato in scatole e trasportati in Arabia Saudita a bordo di due jet privati ​​collegati alla famiglia reale saudita. Inoltre, i turchi e gli americani sostengono che l’intero barbaro complotto per uccidere Khashoggi era stato fatto su ordine di alti governanti sauditi, implicando il principe ereditario Mohammed bin Salman. L’ultimo colpo di scena di Riyadh, è un tentativo di presentare come capro espiatorio  alcuni  “assassini canagliae di esonerare la Casa di Saudi dalla colpevolezza. Il fatto che il 59enne Khashoggi fosse un residente legale negli Stati Uniti e un editorialista del Washington Post ha senza dubbio dato al suo caso una copertura così prominente nei media occidentali. Migliaia di altre vittime della vendetta saudita erano state  regolarmente ignorate in Occidente.

https://www.controinformazione.info/il-doppio-standard-delloccidente-nel-raffronto-fra-due-sparizioni-simili/

Accordo di Monaco

“Ottanta anni fa, il 30 settembre 1938, venne firmato uno dei più famosi documenti diplomatici nella storia dell’umanità, l’accordo di Monaco.

In questo articolo scopriremo come dietro la firma di quell’accordo si celava la strategia franco-britannica, consistente nell’indirizzare l’aggressività di Hitler verso l’Unione Sovietica. Risulterà evidente il motivo per cui questa strategia è praticamente ignorata dai testi di storia delle scuole occidentali. Soffermarci a riflettere sugli eventi di 80 anni fa è utile in questo momento in cui contro la Russia si conduce una implacabile guerra psicologica e continuare ad ignorare quanto accaduto nel recente passato è più che un errore.
La domanda che dobbiamo porci è: chi ha liberato Hitler dalle “catene di Versailles”? La risposta risulterà chiara nel proseguo della lettura: la responsabilità fu della Gran Bretagna e della Francia.
Infatti alla fine della prima guerra mondiale furono firmati i trattati di Versailles e di Saint-Germain in base ai quali la Germania, in quanto potenza sconfitta, veniva privata di tutti i suoi territori e delle colonie, la maggior parte delle quali passavano sotto il dominio inglese, e inoltre gli fu impedito di disporre di un esercito regolare, di un’aviazione e di una marina militare.
A partire dal 1924, violando apertamente il trattato di Versailles, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna diedero piena attuazione al piano Dawes col quale, mediante ingenti investimenti di capitale a breve e a lungo termine da parte dei monopoli americani con a capo le famiglie Du Pont, Morgan, Rockefeller, Lamont ecc., si mirava alla ricostruzione dell’industria pesante tedesca e del suo potenziale bellico-industriale. Tutto ciò era addirittura stato messo nero su bianco nel trattato di Locarno del 1925, di cui Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti furono i promotori, e col quale praticamente si dava via libera alla Germania di riarmarsi.
Con l’ascesa di Hitler al potere nei primi anni trenta l’economia tedesca venne reimpostata sul piede di guerra. L’economista Hjalmar Schacht, banchiere e politico liberale, nonché co-fondatore nel 1918 del “Partito Democratico Tedesco”, diventò il collegamento fra l’industria tedesca e gli investitori stranieri. A quel punto, anche il mondo commerciale e bancario britannico cominciò a canalizzare importanti donazioni verso il partito nazista: il 4 gennaio 1932 Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, incontrò Hitler e il cancelliere tedesco Franz von Papen, per stringere un accordo segreto volto al finanziamento di quel partito. Alla fatidica riunione erano rappresentati anche gli Stati Uniti, coi fratelli John Dulles, futuro segretario di Stato e suo fratello Allen, futuro direttore della CIA.
Le prime tracce della strategia franco-britannica risultarono già evidenti subito dopo che i nazisti salirono al potere in Germania.”

Accordo di Monaco e la strategia franco-britannica contro l’Unione Sovietica di Luca D’Agostini

Leggi tutto: http://www.madrerussia.com/accordo-di-monaco-e-la-strategia-franco-britannica-contro-lunione-sovietica/

Dietro il vertice

Naturalmente quest’articolo 11 disvela come non mai la contraddizione profonda della macchina istituzionale comunitaria europea. Gli Stati nazionali continuano a essere rilevanti appena si esce dal recinto della circolazione della moneta per entrare in quello della circolazione delle persone, contraddicendo la filosofia stessa dei sostenitori di una eurofilia che si sta sciogliendo come neve al sole appena incontra il paradigma della diversità. Ma il grande protagonista di questo consiglio è stata l’Italia. Nello stesso giorno in cui si emanava quel comunicato, Enrico Letta veniva citato in un lungo articolo del Financial Times dedicato al conflitto franco-tedesco che sottintendeva lo scontro europeo sui migranti. Enrico Letta sosteneva che l’Europa era in difficoltà nel raggiungimento di un accordo su tale questione perché nell’Europa medesima si era venuta a creare (traduco liberamente dall’inglese ma non dal francese) “una situazione all’italienne”, ossia una confusione e una crisi tale che offriva al medesimo l’occasione di rendere manifesto tutto il suo patriottismo.

Invece è proprio l’Italia a uscire vittoriosa da questo conflitto. Ed è l’Italia del governo Conte che ha dimostrato che ciò che si è raggiunto a Bruxelles, ieri, si sarebbe potuto raggiungere anche prima, se buona parte della nostra classe politica italiana non parlasse in italiano pensando contemporaneamente in francese o in tedesco. I mass-media controllati dalla borghesia compradora, dipendente dalle istituzioni europee e dai due Stati che lottano per controllarle, sicuramente insisteranno oggi (io scrivo il giorno 29), sul fatto che l’Italia esce sconfitta perché i cosiddetti centri di accoglienza sono sottoposti alla volontarietà degli stati componenti l’Unione. Ma questo non è un fallimento del governo Conte, semmai è la dimostrazione che questo governo ha cominciato a porre un problema politico che non è risolvibile oggi, perché l’unico punto archetipale su cui si fonda il costrutto dell’Ue è economicistico, fondato non su un potere stabile, ma fortemente instabile a seconda che prevalgano interessi francesi o interessi tedeschi o — come accadde con la nomina di Draghi alla Bce — interessi statunitensi, preoccupati, questi ultimi, per la crescita della potenza tedesca e per il neogaullismo francese o ancora, come sta accadendo oggi, interessi britannici, attraverso il ruolo che l’Olanda e le città anseatiche della Germania esercitano sulle istituzioni europee.

Ciò che conta è che si è iniziata una discussione sul trattato di Dublino e il fatto che non si sia trovato un accordo sulla sua riforma non deve nascondere che se ne discute e che il problema è reale ed è cruciale e il fatto che non si riesca subito a riformarlo, quel trattato, disvela a tutti quanto sia inesistente la cosiddetta cultura europea e quanto sia inesistente la immaginifica “condivisione di sovranità”, che non esiste per nulla.

http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2018/6/30/DIETRO-IL-VERTICE-UE-Usa-e-Italia-preparano-un-altra-Europa/828247/

Petroyuan contro petrodollaro

Il 26 marzo 2018, dopo aver posticipato più volte, la Cina finalmente decise di lanciare sull’International Energy Exchange lo schema di scambio petroyuan-oro, producendo un cambiamento fondamentale del sistema monetario internazionale. Tutti gli esportatori di petrolio verso la Cina dovranno accettare la valuta cinese, lo yuan, in cambio del petrolio. Come incentivo, vi è l’offerta cinese di convertire lo yuan in oro. Inoltre, la borsa di Hong Kong emetterà contratti a termine in yuan, nel commercio del petrolio, anche convertibili in oro. Gli esportatori di petrolio potranno persino ritirare tali certificati d’oro al di fuori della Cina, cioè il petrolio potrà essere pagato anche presso le cosiddette “Bullion Banks” di Londra. Con l’introduzione del petroyuán, si ha la maggiore sfida diretta al dollaro, finora valuta dominante mondiale nei contratti petroliferi. La strategia multipolare della Cina non sarà attaccare frontalmente il sistema del petrodollaro, ma indebolirlo progressivamente per fare sì che yuan ed altre valute come euro, yen, ecc. diventino essenziali come il dollaro, cioè costruire il mondo multipolare delle valute. Esistono accordi tra Banca centrale cinese (PBoC) e Banca centrale dell’Unione europea (BCE) per consentire scambi diretti tra yuan ed euro, firmando accordi per consentire a entrambe le valute di rafforzarsi reciprocamente ed incoraggiare la compenetrazione dei sistemi finanziari di entrambe le regioni. Quanto sopra è il chiaro segnale che l’Unione Europea mantiene la porta aperta all’integrazione nel mondo multipolare. Non solo c’è la minaccia esterna al dollaro, il peggiore pericolo, a nostro avviso, risiede negli stessi Stati Uniti. Il capitale finanziario globalista fa di tutto per far crollare il mercato azionario e attribuirlo alle “forze del mercato”, utilizzando i propri conglomerati mediatici in tale golpe del potere morbido della manipolazione. Il globalismo finanziario può portare a una crisi economica finanziaria mai vista dal 1930. La crisi della grande bolla dai tempi di Alan Greenspan, che assunse la presidenza della Federal Reserve (Fed) nel 1987 e la lasciò a febbraio 2006, crisi che oggi si tenta di attribuire, con tutti i mezzi, alla “cattiva” amministrazione del governo Trump.
Il Partito Democratico degli Stati Uniti, vero rappresentante politico del capitale finanziario globalizzato, vi troverebbe il momento opportuno per imporre l’impeachment del presidente Trump. Così il globalismo finanziario potrebbe non solo attaccare Trump e i funzionari che esprimono l’interesse del continentalismo finanziario USA e dei capitali nazionali emarginati dai globalisti, ma prenderebbe il controllo del governo degli Stati Uniti, imponendo la valuta globale della Banca di Basilea, la banca delle banche centrali del mondo, sotto il pieno controllo del capitale finanziario globalizzato, specificatamente sotto l’egemonia dell’impero dei Rothschild.

https://aurorasito.wordpress.com/2018/04/26/la-fine-dellimpero-del-dollaro/

Birmania forever

Stavolta l’articolo è decisamente più lungo del solito, perché in realtà ce ne sono due: quello di Blondet e quello di Dezzani

(MB:  Che ci è andato a   fare El Papa in uno  stato buddhista, senza cristiani, per di più a prendere le parti della minoranza musulmana sovversiva, istigata dagli occidentali e dall’Arabia Saudita? Mi accingevo a scrivere un articolo per provare a spiegare – ma vedo che Federco Dezzani ne ha gà scritto uno molto  migliore. La sua frase chiave:

“Gli USA […] per aumentare la pressione mediatica su Rangoon si sono limitati ad inviare in viaggio apostolico Jorge Mario Bergoglio, che in Asia come in Medio Oriente, dimostra così di seguire pedissequamente l’agenda dei poteri che l’hanno portato al soglio petrino”.

 Esegue come un automa, o teleguidato, la politica che nell’area era stata dettata da Hillary e da Obama.  Una “politica papale” grottesca). 

“Crisi umanitaria” in Birmania: è sempre questione di petrolio e infrastrutture

29 novembre 2017da Federico Dezzani

 

Nella ex-Birmania, oggi Myanmar, è riesplosa la tensione tra la minoranza mussulmana e la maggioranza buddista. Washington e Londra hanno istallato ai vertici dello Stato il premio Nobel Aung San Suu Kyi, perché avvallasse la secessione della strategica regione mussulmana dell’Arkan. La giunta militare birmana, però, non intende cedere ed ha rafforzato i legami con la Cina: in palio ci sono i giacimenti di idrocarburi e la strategica via di comunicazione che unirebbe Pechino all’Oceano Indiano, senza passare dallo Stretto di Malacca. Si ripropone lo stesso schema sperimentato durante l’occupazione del Giappone, durante cui buddisti e mussulmani combatterono rispettivamente contro e a favore degli inglesi.

I mussulmani Rohingya, una vecchia conoscenza dell’impero britannico

Trascorrono gli anni, i decenni ed i secoli, ma la geopolitica non cambia e con lei restano immutati gli elementi basilari del contesto umano-geofrafico: divisioni religiose, minoranze etniche, catene montuose, stretti marittimi, vie di comunicazione, etc. etc. Certo, gli attori che si contendono l’egemonia non sono sempre gli stessi, ma il teatro dove si sfidano subisce pochissimi cambiamenti: è quindi sufficienti studiare cosa accade in passato, per capire il presente ed anticipare il futuro.

Corre l’anno 1942: l’impero nipponico è al suo apogeo, estendendosi dalla Manciuria alle isole Salomone, passando per la strategica Singapore che presidia lo Stretto di Malacca e separa l’Oceano Pacifico da quello Indiano. La Cina, schierata a fianco degli Alleati, riceve armi e mezzi attraverso una via di comunicazione costruita ad hoc: è la “Burma road” che consente ai rifornimenti angloamericani di passare dall’Oceano Indiano alla Cina continentale, attraverso la Birmania sotto controllo britannico. La volontà di tagliare questa strategica via di comunicazione, unita alla sete di materie prime, spinge Tokyo ad invadere la Birmania, partendo dalla Thailandia occupata.

Nel marzo 1942 cade la capitale Rangoon, obbligando gli inglesi a ritirarsi nella vicina India. I giapponesi possono avvalersi nella loro avanzata del sostegno di alcuni strati della popolazione birmana: i giovani nazionalisti ed i buddisti salutano con favore l’ingresso dell’occupante asiatico, che promette la liberazione dal giogo inglese. Al contrario, la minoranza mussulmana rimane fedele alla corona inglese e riceve armi ed equipaggiamenti da Londra per frenare la marcia dei giapponesi e dei loro alleati locali. La regione di Arkan, oggi Rakhine, è teatro di sanguinosi scontri etnici tra i buddisti-filogiapponesi ed i mussulmani-anglofili.Questi ultimi, concentrati nel litorale settentrionale, vicino al moderno Bangladesh, si chiamano Rohingya.

Una strategica via di comunicazione che unisce la Cina all’Oceano Indiano raggirando Singapore, la presenza di idrocarburi, una maggioranza buddista schierata su posizioni nazionaliste-militariste, una minoranza mussulmana su posizioni anglofile: sono questi gli elementi che, rimasti immutati a distanza di 75 anni, permettono di capire quanto sta avvenendo in Birmania.

Oggetto di un colpo di Stato di ispirazione socialista nel 1962, la Birmania rimane ai margini della Guerra Fredda. Fomentate nel 1988 alcune rivolte studentesche che anticipano la tentata rivoluzione colorata di Piazza Tienanmen, crollato il Muro di Berlino nel novembre 1989, anche Rangoon è sospinta dagli angloamericani verso “la democrazia”.

Nel maggio del 1990, si svolgono le prime elezioni libere dall’avvento dei militari, dominate dalla figura di Aung San Suu Kyi: figlia del “padre della patria” che contrattò con gli inglesi l’indipendenza del 1947, educata in Inghilterra, trascorsi alle Nazioni Unite, sposata con un cittadino britannico, Aung San ha tutte la carte in regola per traghettare la Birmania dall’economia pianificata al libero mercato. La giunta militare, conscia delle spinte centrifughe che attraversano il Paese, non ha però nessuna intenzione di abdicare: rifiutato l’esito delle elezioni, l’altisonante “Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo” scioglie l’assemblea ed arresta i leader politici d’opposizione. Lo smacco, per Washington e Londra, è cocente: assegnare il Premio Nobel per la Pace a Aung San Suu Kyi (1991) è una contromisura d’effetto, sebbene di scarsa efficacia. Gli anni ‘90 ed i primi dieci anni del XXI secolo trascorrono, infatti, senza che Rangoon mostri segni di ravvedimento, lasciando Aung San relegataagli arresti domiciliari.

D’altronde, le priorità degli Stati Uniti sono altre in quel momento: Bill Clinton deve espandere la NATO ad Est e ridisegnare i Balcani, George W. Bush sogna di ridisegnare il Medio Oriente e piantare la bandierina in Afghanistan, cuore dell’Eurasia. Mentre gli angloamericani dilapidano migliaia di miliardi di dollari in Iraq, la Cina cresce però vorticosamente: l’establishment liberal realizza che lo stesso Paese dove le aziende americane hanno delocalizzato sarà anche la maggior minaccia all’egemonia statunitense. Barack Hussein Obama lascia il Medio Oriente, dopo aver scientificamente appiccato l’incendio (Primavere Arabe del 2011), per focalizzarsi sull’Oceano Pacifico e su Pechino: è il “pivot to Asia”, che mira a contenere l’avanzata cinese con una serie di accordi politici-militari-economici (in primis, il TTP).

La Birmania, quindi, torna prioritaria. Il Segretario di Stato Hillary Clinton incontra Aung San Suu Kyi nel 2011, durante la sua visita ufficiale nel Paese asiatico1, ribadendo la predilezione di Washington per il Nobel della Pace, Nel 2015 si svolgono le elezioni legislative cui può partecipare anche la formazione della Aung San Suu Kyi, Lega Nazionale per la Democrazia: la vittoria arride, ovviamente, al “nuovo”. Alla Suu Kyi toccherebbe la presidenza, ma il passaporto britannico del defunto marito e dei figli le impediscono di assumere formalmente la carica, obbligandola ad assumere funzione equipollente di “Consigliera dello Myanmar”: con grande soddisfazione, Barack Obama riceve il premio Nobel alla Casa Bianca nel novembre 2016, affermando che è finalmente giunto il momento di revocare le sanzioni economiche alla Birmania2.

Il progetto di “democratizzazione” della Birmania contempla però, qui come in molte altre realtà (Russia, Iraq, Libia, Siria, etc. etc.), anche la frantumazione della Birmania, attraverso la secessione di importanti zone del Paese, dove vivono minoranze etniche e linguistiche. L’installazione ai vertici della Birmania di Aung San Suu Kyi dovrebbe infatti facilitare la secessione del mussulmano Arkan: la quasi concomitante comparsa nel 2016dell’Arakan Rohingya Salvation Army, formazione militare con forti legami con l’Arabia Saudita3, scatena la violenza nella regione e l’immediata reazione dello Stato centrale. Le tensioni riesplodono e, come ai tempi dell’occupazione giapponese, il Paese si polarizza: la giunta militare, espressione della maggioranza buddista-nazionalista, cerca appoggio presso la potenza asiatica emergente, la minoranza mussulmana, i celebri rohingya, è adoperata dagli angloamericani per i propri scopi.

Nel 2017, la potenza asiatica emergente non è ovviamente il Giappone, bensì la Cina: eppure l’interesse di Pechino per la Birmania è dettato dalle stesse ragioni che spinsero Tokyo ad allargare la propria sfera di influenza fino a Rangoon. Materie prime (la Birmania è un importante produttore di gas naturale e petrolio) e vie di comunicazioni. Come gli inglesi costruirono la “Burma Road” per raggiungere la Cina dall’Oceano Indiano, senza passare dallo Stretto di Malacca, oggi i cinesi progettano di sboccare sull’Oceano Indiano attraverso la Birmania, raggirando così Singapore ed un eventuale blocco angloamericano dello Stretto. La moderna “Burma Road” scorre, ovviamente, sui binari dei treni ad alta velocità/capacità ed è parte integrante della “Nuova Via della Seta”, il grande piano di infrastrutture ferroviarie/marittime/aeroportuali con cui la Cina vuole coprire l’intera Eurasia4.

La minoranza mussulmana dei rohingya è invece utile agli angloamericani come, e forse più, del 1942. Oltre ad essere in ottimi e storici con Londra e Washington, quest’etnia di fede islamica, da sempre ostile ai buddisti-nazionalisti, è concentrata nella regione dell’Arkan (oggi Rakhine) dove le ferrovie e gli oleodotti cinesi dovrebbero sfociare nell’Oceano Indiano5. La secessione della regione mussulmana, oltre a seppellire l’attuale Stato birmano, servirebbe quindi a vanificare la strategia di Pechino per raggirare lo Stretto di Malacca.

Gli angloamericani si sarebbero attesi dal premio Nobel una pubblica presa di posizione a favore dell’insurrezione mussulmana, primo passo verso l’indipendenza: la Aung San Suu Kyi, però, consapevole che tale mossa comporterebbe la sua immediata deposizione da parte della giunta militare che controlla ancora de facto il Paese,ha sinora taciuto, attirandosi pesantissime critiche dagli ambienti anglofoni che ne hanno curato l’ascesa.

La difesa dei rohingya è sinora toccato alla solita Amnesty International, basata a Londra, ed all’americanaHuman Rights Watch“Burma: Military Massacres Dozens in Rohingya Village6“Myanmar: contro i rohingya è pulizia etnica7”, etc. etc. Gli USA, attraverso il nuovo Segretario di Stato, Rex Tillerson, hanno avvalorato la tesi della “pulizia etnica” ai danni dei mussulmani, ma si sono sinora astenuti dall’imposizione di nuove sanzioni: per aumentare la pressione mediatica su Rangoon si sono limitati ad inviare in viaggio apostolico Jorge Mario Bergoglio, che in Asia come in Medio Oriente, dimostra così di seguire pedissequamente l’agenda dei poteri che l’hanno portato al soglio petrino.

 

 

Di fronte all’aumentare della violenza interna e degli assalti mediatico-diplomatici, la giunta militare ha reagito rafforzando ulteriormente il dialogo con la Cina: il comandante in capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, si è recentemente intrattenuto sei giorni a Pechino, incontrando il Presidente Xi Jinping ed il suo omologo cinese8. Un’analoga visita dovrebbe prossimamente essere svolta anche dalla Aung San Suu Kyi9, testimoniando che il Nobel per la Pace, di fronte al rischio di balcanizzazione del suo Paese, si sta allontanando dai vecchi mentori.

La dinamica di fondo, lo spostamento del potere da Washington a Pechino, gioca a favore della giunta militare e dell’integrità della Birmania. Qualche pericoloso colpo di coda da parte dell’impero angloamericano è però inevitabile: l’imposizione di nuove sanzioni o, più probabilmente, la comparsa anche a Rangoon e dintorni dell’ISIS e dei “mujaheddin stranieri”.


http://federicodezzani.altervista.org/crisi-umanitaria-in-birmania-e-sempre-questione-di-petrolio-e-infrastrutture/

e a parlare di Cristo è stata lei, la buddista. El Papa se l’è dimenticato

(Dal commento di Sandro Magister):

C’è stato un solo momento in cui è stato fatto il nome di Gesù e annunciato il suo Vangelo, nei discorsi della prima giornata della visita di papa Francesco in Myanmar.

Solo che a dire queste parole non è stato il papa, ma la consigliera di Stato e ministra degli esteri birmana Aung San Suu Kyi, di fede buddista:

Gesù stesso ci offre un ‘manuale’ di questa strategia di costruzione della pace nel  Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

“Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo”.

Una nobile lezione di  diplomazia, stile  e spiritualità,   per chi la vuol  capire.

L’articolo PERCHE’ MAI BERGOGLIO IN MYANMAR, SE NON IN MISSIONE “AMERICANA”? è tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.