L’uso di armi nucleari degli Stati Uniti contro il Giappone durante la Seconda guerra mondiale, è stato a lungo oggetto di un dibattito emotivo. Inizialmente, alcuni hanno criticato la scelta del Presidente Truman di sganciare due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Ma nel 1965 lo storico Gar Alperovitz sostenne che, anche se le bombe spinsero a porre fine immediata alla guerra, i leader del Giappone volevano cedere comunque e probabilmente l’avrebbero fatto prima dell’invasione statunitense, prevista per il 1° novembre. Il loro uso è stato, quindi, inutile. Ovviamente, se i bombardamenti non erano necessari per vincere la guerra, il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki fu sbagliato. 48 anni dopo, molti altri s’inserirono nella dibattito: qualcuno riecheggiava Alperovitz, denunciando i bombardamenti, altri sostennero caldamente che i bombardamenti erano morali, necessari e umanitari. Entrambe le scuole di pensiero, però, assumono che il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, con le nuove più potenti armi, costrinsero il Giappone ad arrendersi il 9 agosto. Non riescono a mettere in discussione l’utilità dei bombardamenti, in primo luogo chiedendosi, in sostanza, se funzionarono? Il punto di vista ortodosso è che, sì, certo, funzionarono. Gli Stati Uniti bombardarono Hiroshima il 6 agosto e Nagasaki il 9 agosto, quando i giapponesi finalmente cedettero alla minaccia di un ulteriore bombardamento nucleare e si arresero. Il sostegno a questa narrazione è profondo. Ma ci sono tre grandi problemi che, presi insieme, minano in modo notevole l’interpretazione tradizionale della resa giapponese.
Tempistica
Il primo problema dell’interpretazione tradizionale è il tempo. Ed è un problema serio. L’interpretazione tradizionale ha una semplice linea temporale: l’US Army Air Force bombardò Hiroshima con un’arma nucleare, il 6 agosto, tre giorni dopo bombardò Nagasaki con un altra, e il giorno dopo i giapponesi indicarono l’intenzione di arrendersi. Non si possono certo biasimare i giornali statunitensi per la pubblicazione di titoli come: “La pace nel Pacifico: è opera della nostra Bomba!” Quando la storia di Hiroshima è raccontata nella maggior parte delle opere storiche statunitensi, il giorno del bombardamento, il 6 agosto, diventa un climax narrativo. Tutti gli elementi della storia puntano su quel momento: la decisione di costruire la bomba, la ricerca segreta a Los Alamos, il primo impressionante test e il culmine finale a Hiroshima. Si racconta, in altre parole, una storia sulla bomba. Ma non si può analizzare la decisione del Giappone di arrendersi oggettivamente nel contesto della storia della bomba. Poiché “la storia della bomba” già presuppone il ruolo centrale della Bomba.
Visto dal punto di vista giapponese, il giorno più importante di quella seconda settimana di agosto non fu il 6 agosto, ma il 9 agosto. Quello fu il giorno in cui il Consiglio supremo si riunì, per la prima volta dalla guerra, per discutere la resa incondizionata. Il Consiglio supremo era il gruppo dei sei principali membri del governo, una sorta di gabinetto segreto, che di fatto governava il Giappone nel 1945. I leader giapponesi non avevano preso seriamente in considerazione la resa prima di quel giorno. La resa incondizionata (quello che gli alleati esigevano) era un boccone troppo amaro da ingoiare. Gli Stati Uniti e il Regno Unito già processavano per crimini di guerra in Europa. E se decidevano di mettere l’imperatore, creduto un essere divino, sotto processo? Che cosa succedeva se si liberavano del divino imperatore e cambiavano forma di governo? Anche se la situazione era pessima, nell’estate del 1945, i leader del Giappone non erano disposti a prendere in considerazione la cessione delle loro tradizioni, credenze o stili di vita. Fino al 9 agosto. Che cosa era successo da spingerli così improvvisamente e decisamente a cambiare idea? Che cosa li fece sedere a discutere seriamente la resa per la prima volta dopo 14 anni di guerra? Non avrebbe potuto essere Nagasaki. Il bombardamento di Nagasaki si era verificato nella tarda mattinata del 9 agosto, dopo che il Consiglio supremo aveva già cominciato la riunione per discutere la resa, e la voce del bombardamento raggiunse i capi del Giappone solo nel primo pomeriggio, dopo che la riunione del Consiglio Supremo era iniziata e tutto il gabinetto era stato chiamato a riunirsi per la discussione. Sulla base della sola tempistica, Nagasaki non può averli motivati. E neanche Hiroshima fu una vera motivazione. Era accaduto 74 ore prima, più di tre giorni. Che tipo di crisi si ebbe in quei tre giorni? Il segno distintivo di una crisi è il senso di catastrofe imminente e il travolgente desiderio di agire subito. Come fu possibile che i leader del Giappone avessero ritenuto che Hiroshima scatenasse una crisi, ma che ancora non si erano incontrati per parlare del problema dopo tre giorni?
Il presidente John F. Kennedy era seduto sul letto a leggere i giornali del mattino, alle 08:45 circa del 16 ottobre 1962, quando McGeorge Bundy, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, entrò per informarlo che l’Unione Sovietica stava segretamente installando missili nucleari a Cuba. Nel giro di due ore e 45 minuti una commissione speciale fu creata, i suoi membri scelti, contattati, portati alla Casa Bianca, seduti intorno al tavolo di gabinetto per discutere di ciò che doveva essere fatto. Il presidente Harry Truman era in vacanza ad Independence, Missouri, il 25 giugno 1950, quando la Corea democratica inviò le sue truppe oltre il 38° parallelo, invadendo la Corea del sud. Il segretario di Stato Acheson chiamò Truman sabato mattina per dargli la notizia. Entro 24 ore, Truman aveva attraversato metà degli Stati Uniti e si era seduto alla Blair House (la Casa Bianca era in ristrutturazione) coi suoi massimi consiglieri militari e politici, per parlare del da farsi. Anche il generale George Brinton McClellan, il comandante dell’Armata del Potomac dell’Unione, nel 1863, durante la guerra civile americana, di cui il presidente Lincoln disse tristemente: “E’ lento”, sprecò solo 12 ore quando gli fu data una copia degli ordini catturati del generale Robert E. Lee per l’invasione del Maryland. Questi leader risposero, come i leader di ogni Paese dovrebbero, all’invito imperativo che una crisi crea. Ognuno di loro prese misure decisive in breve tempo. Come possiamo conciliare questo tipo di comportamento con le azioni dei leader del Giappone? Se Hiroshima aveva veramente causato la crisi che alla fine costrinse i giapponesi ad arrendersi, dopo aver combattuto per 14 anni, perché impiegarono tre giorni per sedersi a discuterne? Si potrebbe sostenere che il ritardo fosse perfettamente logico. Forse si resero conto lentamente dell’importanza dei bombardamenti. Forse non sapevano che si trattava dell’arma nucleare e quando lo capirono e compresero i terribili effetti che tale arma poteva avere, naturalmente conclusero che dovevano arrendersi. Purtroppo, questa spiegazione non quadra con l’evidenza.
In primo luogo, il governatore di Hiroshima aveva riferito a Tokyo, proprio il giorno in cui Hiroshima fu bombardata, che circa un terzo della popolazione era stato ucciso dall’attacco e che due terzi della città erano stati distrutti. Questa informazione non cambiò nel corso dei giorni successivi. Quindi il risultato, il risultato finale dei bombardamenti, era chiaro fin dall’inizio. I capi del Giappone conoscevano l’esito dell’attacco fin dal primo giorno, ma ancora non agivano. In secondo luogo, il rapporto preliminare redatto dalla squadra dell’esercito che aveva indagato sul bombardamento di Hiroshima, che fornì i dettagli su ciò che era accaduto, non fu consegnato prima del 10 agosto. Non arrivò a Tokyo, in altre parole, prima che fosse già stata presa la decisione di arrendersi. Anche se il rapporto verbale fu consegnato (ai militari) l’8 agosto, i dettagli del bombardamento non furono disponibili fino a due giorni dopo. La decisione di arrendersi pertanto non si basava su un profondo apprezzamento dell’orrore di Hiroshima. In terzo luogo, l’esercito giapponese comprese, almeno in maniera approssimativa, che si trattava di armi nucleari. Il Giappone aveva un programma per le armi nucleari. Molti militari scrissero del fatto che fu un ordigno nucleare a distruggere Hiroshima, nei loro diari. Il generale Anami Korechika, ministro della Guerra, si consultò anche col capo del programma delle armi nucleari giapponese, la notte del 7 agosto. L’idea che i leader giapponesi non conoscessero le armi nucleari non regge. Infine, un altro fatto sul tempismo crea un problema notevole. L’8 agosto, il ministro degli Esteri Shigenori Togo andò dal premier Kantaro Suzuki e chiese che il Consiglio supremo venisse convocato per discutere del bombardamento di Hiroshima, ma i suoi membri rifiutarono. Così la crisi crebbe di giorno in giorno finché infine scoppiò in 9 agosto. Qualsiasi spiegazione delle azioni dei leader del Giappone che si basi sullo “shock” del bombardamento di Hiroshima, deve tener conto del fatto che la riunione per discutere il bombardamento, l’8 agosto, produsse una decisione scarsamente rilevante, ma che poi improvvisamente decisero d’incontrarsi per discutere la resa il giorno dopo. O erano preda di una sorta di schizofrenia di gruppo, o qualche altro evento fu la reale motivazione per discutere della resa.
Dimensioni
Storicamente, l’uso della bomba può sembrare il più importante evento segreto della guerra. Dal punto di vista giapponese contemporaneo, tuttavia, potrebbe non essere stato così facile distinguere la bomba da altri eventi. Dopo tutto, è difficile distinguere una sola goccia di pioggia nel bel mezzo di un uragano. Nell’estate del 1945, l’US Army Air Force effettuò una delle più intense campagne di distruzione di città nella storia del mondo. Sessantotto città del Giappone furono attaccate e parzialmente o completamente distrutte. Si stima che circa 1,7 milioni di persone rimasero senza tetto, 300000 furono uccise e 750000 ferite. Sessantasei di questi raid furono effettuati con bombe convenzionali, e due con bombe atomiche. La distruzione causata da attacchi convenzionali fu enorme. Notte dopo notte, per tutta l’estate, le città andarono in fumo. In questa pioggia di distruzione, non sarebbe stato sorprendente se questo o quel singolo attacco non riuscisse a fare grande impressione, anche se effettuato con una notevole nuova arma. Un bombardiere B-29 che volava dalle Isole Marianne poteva trasportare, a seconda della posizione del bersaglio e della quota per il bombardamento, qualcosa come 7000-9000 kg di bombe. Un raid tipico consisteva in 500 bombardieri. Ciò significa che la tipica incursione convenzionale sganciava 4-5 kilotoni di bombe su ogni città (un kiloton è mille tonnellate ed è la misura standard della potenza esplosiva di una bomba nucleare. La bomba di Hiroshima misurava 16,5 kilotoni, la bomba di Nagasaki 20 kilotoni). Dato che molte bombe spargono distruzione in modo uniforme (e quindi in modo efficace), mentre una singola potente bomba spreca gran parte della sua potenza al centro dell’esplosione, rimbalzando sulle macerie, per così dire, si potrebbe sostenere che alcune incursioni convenzionali si avvicinarono alla massima distruzione più dei due bombardamenti atomici.
La prima delle incursioni convenzionali, un attacco notturno su Tokyo il 9-10 marzo 1945, rimane l’attacco più distruttivo su una città nella storia della guerra. Qualcosa come 16 miglia quadrate della città furono bruciate. Si stima che circa 120000 giapponesi vi persero la vita, il numero di vittime più alto di qualsiasi bombardamento su una città. Spesso immaginiamo, a causa del modo in cui la storia è raccontata, che il bombardamento di Hiroshima fosse stato di gran lunga peggiore. Immaginiamo che il numero delle persone uccise sia quantificabile. Su un grafico del numero di persone uccise in tutte le 68 città bombardate, nell’estate del 1945, si trova che Hiroshima fu seconda per numero di civili morti. Se si rappresenta il numero di chilometri quadrati distrutti, si trova che Hiroshima fu quarta. Se si rappresenta la percentuale della città distrutta, Hiroshima fu 17.ma. Hiroshima era chiaramente entro i parametri dei bombardamenti convenzionali effettuati quell’estate. Dal nostro punto di vista, Hiroshima sembra singolare e straordinaria. Ma se vi metteste nei panni dei leader giapponesi, nelle tre settimane precedenti l’attacco su Hiroshima, il quadro diventa notevolmente diverso. Se eravate uno dei membri chiave del governo del Giappone, tra fine luglio e inizio agosto, la vostra esperienza dei bombardamenti delle città sarebbe stato qualcosa di simile a ciò: la mattina del 17 luglio, veniva indicata dai rapporti che, durante la notte, quattro città erano state attaccate: Oita, Hiratsuka, Numazu e Kuwana. Di queste, Oita e Hiratsuka furono distrutte per più del 50 per cento. Kuwana era oltre il 75 per cento e Numazu fu colpita ancora più duramente, con circa il 90 per cento della città rasa al suolo. Tre giorni dopo vi svegliate scoprendo che altre tre città erano state attaccate. Fukui fu distrutta per più dell’80 per cento. Una settimana dopo altre tre città vennero attaccate durante la notte. Due giorni più tardi altre sei città furono attaccate in una sola notte, tra cui Gifu, distrutta per il 75 per cento. Il 2 agosto, vi sarebbero arrivati in ufficio i rapporti su altre quattro città bombardate. E i rapporti avrebbero incluso l’informazione che Toyama (delle dimensioni di Chattanooga, Tennessee, nel 1945), era stata distrutta per il 99,5 per cento. Praticamente l’intera città era stata rasa al suolo. Quattro giorni dopo, altre quattro città furono bombardate. Il 6 agosto, una sola città, Hiroshima, fu attaccata ma i rapporti dicevano che il danno fu grande e che un nuovo tipo di bomba era stato utilizzato. Quanto questo nuovo bombardamento avrebbe risaltato nel contesto della distruzione delle città in corso da settimane? Nelle tre settimane prima di Hiroshima, 26 città furono bombardate dall’US Army Air Force. Di queste, otto, quasi un terzo, furono quasi o completamente distrutte più di Hiroshima (in termini percentuali). Il fatto che il Giappone avesse 68 città distrutte, nell’estate del 1945, pone una seria sfida a chi vuole fare del bombardamento di Hiroshima la causa della resa del Giappone. La domanda è: se si arresero perché una città era stata distrutta, perché non si arresero quando le altre 66 città furono distrutte?
Se i leader del Giappone stavano per arrendersi a causa di Hiroshima e Nagasaki, ci si aspetterebbe di trovare che avessero in mente il bombardamento delle città in generale, e che ciò li spinse ad arrendersi. Ma non sembra essere stato così. Due giorni dopo il bombardamento di Tokyo, l’ex-ministro degli Esteri Shidehara Kijuro espresse un sentimento apparentemente diffuso tra i vertici giapponesi, al momento. Shidehara rilevò che “il popolo si sarebbe gradualmente abituato ad essere bombardato quotidianamente. Nel tempo le loro unità e determinazione sarebbero divenute più forti”. In una lettera ad un amico, disse che era importante per i cittadini sopportare le sofferenze, perché “anche se centinaia di migliaia di non combattenti vengono uccisi, feriti o muoiono di fame, anche se milioni di edifici vengono distrutti o bruciati”, è necessario ulteriore tempo per la diplomazia. Vale la pena ricordare che Shidehara era un moderato. Ai massimi livelli di governo, nel Consiglio Supremo, gli atteggiamenti erano apparentemente gli stessi. Anche se il Consiglio supremo discusse l’importanza che l’Unione Sovietica rimanesse neutrale, non si discusse dell’impatto dei bombardamenti sulle città. Nelle registrazioni conservate, i bombardamenti delle città non furono menzionati nelle discussioni del Consiglio supremo, tranne in due occasioni: una volta di sfuggita, nel maggio 1945 e una volta nel corso dell’ampia discussione nella notte del 9 agosto. Sulla base delle prove, è difficile dire che i leader giapponesi pensassero che il bombardamento della città, rispetto alle altre questioni urgenti sulla gestione della guerra, avesse alcun significato. Il generale Anami, il 13 agosto osservò che i bombardamenti atomici non erano più minacciosi del bombardamento che il Giappone aveva sopportato per mesi. Se Hiroshima e Nagasaki non furono peggiori dei bombardamenti incendiari, e se i leader del Giappone non ritennero abbastanza importante discuterne approfonditamente, come poterono Hiroshima e Nagasaki averli costretti ad arrendersi?
Importanza strategica
Se i giapponesi non si preoccupavano dei bombardamenti della città, in generale, o del bombardamento atomico di Hiroshima, in particolare, di cosa si occuparono? La risposta è semplice: dell’Unione Sovietica. I giapponesi erano in un momento relativamente difficile della situazione strategica. Si avvicinava la fine della guerra che avevano perso. Le condizioni erano pessime. L’esercito, tuttavia, era ancora forte e ben armato. Quasi 4 milioni di uomini erano sotto le armi e 1,2 milioni di questi erano a guardia delle isole del Giappone. Anche i leader più intransigenti del governo del Giappone sapevano che la guerra non poteva continuare. La questione non era se continuare, ma come uscire dalla guerra nelle migliori condizioni possibili. Gli alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna e altri, l’Unione Sovietica, lo ricordiamo, era ancora neutrale) chiedevano “la resa incondizionata”. I leader giapponesi speravano di poter trovare un modo per evitare il tribunale per i crimini di guerra, mantenere la loro forma di governo e alcuni territori che avevano conquistato: Corea, Vietnam, Birmania, parti della Malesia e dell’Indonesia, gran parte della Cina orientale e numerose isole del Pacifico. Avevano due piani per ottenere migliori condizioni di resa, in altre parole, due opzioni strategiche. Il primo era diplomatico. Il Giappone aveva firmato un patto di neutralità quinquennale con i sovietici nell’aprile del 1941, che sarebbe scaduto nel 1946. Un gruppo composto principalmente da leader civili guidato dal ministro degli Esteri Shigenori Togo, sperava che Stalin potesse essere convinto a mediare un accordo tra gli Stati Uniti e i loro alleati da una parte, e il Giappone dall’altra. Anche se questo piano era improbabile, ne rifletteva il pensiero strategico. Dopo tutto, sarebbe stato nell’interesse dell’Unione Sovietica assicurarsi che i termini dell’accordo non fossero troppo favorevoli agli Stati Uniti: l’avanzata dell’influenza e del potere degli Stati Uniti in Asia avrebbe significato una diminuzione del potere e dell’influenza sovietica. Il secondo piano era militare, e la maggior parte dei suoi sostenitori, guidati dal ministro dell’Esercito Anami Korechika, erano militari. Speravano di utilizzare le truppe dell’Esercito Imperiale per infliggere gravi perdite alle forze statunitensi quando fossero sbarcate. Se ci riuscivano, pensarono, potevano convincere gli Stati Uniti ad offrire condizioni migliori. Anche questa strategia era fallace. Gli Stati Uniti sembravano profondamente impegnati nella resa incondizionata. Ma dal momento che vi era, difatti, la preoccupazione nei circoli militari statunitensi che il numero di vittime di un’invasione sarebbe stato proibitivo, la strategia del comando supremo giapponese non era del tutto fuori luogo.
Un modo per valutare se il bombardamento di Hiroshima o l’invasione e la dichiarazione di guerra da parte dell’Unione Sovietica, suscitarono la resa del Giappone, è confrontare il modo in cui questi due eventi influenzarono la situazione strategica. Dopo che Hiroshima fu bombardata, l’8 agosto, entrambe le opzioni erano ancora sul tavolo. E sarebbe stato comunque possibile chiedere a Stalin di mediare (e il diario di Takagi dell’8 agosto, mostra che almeno alcuni leader del Giappone pensavano ancora al tentativo di coinvolgere Stalin). Sarebbe anche stato comunque possibile cercare di combattere l’ultima battaglia decisiva e infliggere pesanti perdite. La distruzione di Hiroshima non aveva per nulla ridotto il grado di preparazione delle truppe, trincerate sulle spiagge delle isole del Giappone. Ora c’era una città in meno alle loro spalle, ma erano ancora trincerate, avevano ancora munizioni e la loro forza militare non era stata ridotta in modo significativo. Il bombardamento di Hiroshima non precluse alcuna delle opzioni strategiche del Giappone. L’impatto della dichiarazione di guerra dei sovietici e dell’invasione della Manciuria e di Sakhalin fu molto diverso, però. Una volta che l’Unione Sovietica aveva dichiarato guerra, Stalin non poteva più agire da mediatore, era ormai un belligerante. Quindi l’opzione diplomatica fu spazzata via dalla mossa sovietica. L’effetto sulla situazione militare fu altrettanto drammatico. La maggior parte delle migliori truppe del Giappone era stata spostata verso la parte meridionale delle isole nazionali. I militari giapponesi avevano giustamente intuito che il primo obiettivo probabile di un’invasione statunitense sarebbe stata l’isola meridionale di Kyushu. L’Armata del Kwangtung, una volta orgoglio della Manciuria, per esempio, era l’ombra di se stessa, perché le sue unità migliori erano state inviate lontano a difendere il Giappone stesso. Quando i sovietici invasero la Manciuria, spezzarono quello che una volta era stato un esercito d’élite e molte unità sovietiche si fermarono solo quando finirono la benzina. La 16.ma Armata sovietica, di 100000 effettivi, invase la metà meridionale di Sakhalin. I suoi ordini erano liquidare la resistenza giapponese, e poi entro 10 – 14 giorni, essere pronta ad invadere Hokkaido, la più settentrionale delle isole del Giappone. La forza giapponese che aveva il compito di difendere Hokkaido, l’Armata della Quinta Area, aveva una forza di due divisioni e due brigate, in posizioni fortificate sul lato orientale dell’isola. Il piano di attacco sovietico richiedeva l’invasione di Hokkaido da occidente. Non ci voleva un genio militare per vedere che, mentre poteva essere possibile combattere una battaglia decisiva contro una grande potenza che invadeva da una sola direzione, non sarebbe stato possibile combattere due grandi potenze che attaccano da due direzioni diverse. L’invasione sovietica spacciò la strategia della battaglia decisiva dei militari, così come ne liquidò la strategia diplomatica. In un colpo solo, tutte le opzioni del Giappone evaporarono. L’invasione sovietica fu strategicamente decisiva, e precluse le opzioni del Giappone, mentre il bombardamento di Hiroshima (che non ne precluse nessuna) no.
La dichiarazione di guerra dei sovietici cambiò anche i calcoli di quanto tempo rimanesse per manovrare. L’intelligence giapponese prevedeva che le forze statunitensi non avrebbero potuto avviare l’invasione per mesi. Le forze sovietiche, d’altra parte, potevano essere in Giappone in appena 10 giorni. L’invasione sovietica portò alla decisione di porre fine alla guerra immediatamente. E i capi del Giappone raggiunsero questa conclusione alcuni mesi prima. In una riunione del Consiglio Supremo del giugno 1945, dissero che l’entrata in guerra dei sovietici “avrebbe deciso il destino dell’Impero”. Il Vicecapo di Stato Maggiore dell’esercito, Kawabe, disse in quello stesso incontro, “Il mantenimento assoluto della pace nelle nostre relazioni con l’Unione Sovietica è fondamentale per la continuazione della guerra”. I capi del Giappone costantemente si disinteressarono dei bombardamenti che distruggevano le loro città. E mentre questo può essere stato sbagliato, quando il bombardamento era iniziato nel marzo del 1945, nel momento in cui Hiroshima lo fu, avevano certamente diritto a vedere il bombardamento della città come evento secondario e senza importanza per impatto strategico. Quando Truman notoriamente minacciò di scatenare una “pioggia rovinosa” sulle città giapponesi, se il Giappone non si arrendeva, pochi negli Stati Uniti si resero conto che c’era ben poco da distruggere. Il 7 agosto, quando la minaccia di Truman fu fatta, solo 10 grandi città con 100000 abitanti non erano già state bombardate. Una volta che Nagasaki fu attaccata il 9 agosto, solo nove città rimasero. Quattro di queste erano nell’isola settentrionale di Hokkaido, difficile da bombardare a causa della distanza dall’isola di Tinian, dove erano basati gli aerei statunitensi. Kyoto, l’antica capitale del Giappone, fu rimossa dalla lista degli obiettivi dal segretario della Guerra Henry Stimson, a causa della sua importanza religiosa e simbolica. Così, nonostante la terribile minaccia di Truman, dopo Nagasaki rimasero solo quattro grandi città da poter facilmente colpire con armi atomiche. La completezza e la portata della campagna dell’US Army Air Force nel bombardamento delle città, può essere desunta dal fatto che aveva colpito così tante città del Giappone che si ridusse a bombardare “città” di 30000 abitanti o meno. Nel mondo moderno, 30000 abitanti non fanno altro che una grossa cittadina. Naturalmente sarebbe sempre stato possibile ribombardare le città che erano già state bombardate con bombe incendiarie. Ma queste città erano, in media, già distrutte per il 50 per cento. O gli Stati Uniti avrebbero dovuto bombardare città più piccole con armi atomiche. C’erano tuttavia solo sei città piccole (con popolazione compresa tra 30000 e 100000 abitanti) che non erano già state bombardate. Dato che il Giappone aveva già subito gravi danni da bombardamento in 68 città, e che ancora in sostanza se ne infischiava, forse non sorprende che i leader del Giappone non fossero impressionati dalla minaccia di ulteriori bombardamenti. Non era strategicamente significativa.
Una storia comoda
Nonostante l’esistenza di questi tre potenti obiezioni, l’interpretazione tradizionale conserva ancora una forte presa sul pensiero di molti, in particolare negli Stati Uniti. Non c’è vera resistenza a guardare i fatti. Ma forse questo non dovrebbe sorprendere. Vale la pena ricordarci come sia emozionalmente comoda la spiegazione tradizionale di Hiroshima, sia per il Giappone che per gli Stati Uniti. Le idee possono avere persistenza perché sono vere, ma purtroppo, possono anche persistere perché sono emotivamente soddisfacenti: suppliscono a un importante bisogno psicologico. Ad esempio, alla fine della guerra, l’interpretazione tradizionale di Hiroshima aiutò i capi del Giappone a perseguire una serie di importanti obiettivi politici, sia nazionali che internazionali. Mettetevi nei panni dell’imperatore. Hai appena trascinato il Paese in una guerra disastrosa. L’economia è in frantumi. L’ottanta per cento delle città è stato bombardato e bruciato. L’esercito ha subito una serie di sconfitte. La marina è stata decimata e confinata nei porti. La fame è incombente. La guerra, insomma, è stata una catastrofe e, peggio di tutto, hai mentito al tuo popolo su quanto grave sia la realtà. Sarà scioccato dalla notizia della resa. Quindi, cosa preferiresti fare? Ammetti che hai fallito malamente? Rilasci una dichiarazione dicendo che hai fatto i conti in modo spettacolarmente pessimo, compiuto errori in serie e inflitto un danno enorme alla nazione? O preferisci dare la colpa della sconfitta a una sorprendente scoperta scientifica che nessuno avrebbe potuto prevedere? In un colpo solo, dando la colpa della sconfitta in guerra alla bomba atomica, metti tutti gli errori sotto il tappeto. La bomba fu la scusa perfetta per aver perso la guerra. Non c’era bisogno di attribuire colpe; nessun tribunale era necessario. I capi del Giappone poterono rivendicare di aver fatto del loro meglio. Quindi, a livello generale, la bomba serviva ad allontanare la colpa dai leader del Giappone. Ma attribuire la sconfitta del Giappone alla bomba serviva anche altri tre scopi politici specifici. In primo luogo, contribuiva a preservare la legittimità dell’imperatore. Se la guerra fu persa, non fu a causa dei suoi errori, ma a causa di imprevisti come l’arma del miracolo del nemico, allora l’istituzione dell’imperatore poteva continuare a trovare sostegno in Giappone. In secondo luogo, fece appello alla simpatia internazionale. Il Giappone aveva mosso una guerra aggressiva e di una particolare brutalità verso i popoli conquistati. Il suo comportamento poteva essere condannato dalle altre nazioni. Poter presentare il Giappone come vittima, ingiustamente bombardata da un crudele e terrificante strumento di guerra, compensava alcune delle cose moralmente ripugnanti che i militari giapponesi avevano fatto. Richiamando l’attenzione sui bombardamenti atomici, si dipingeva il Giappone sotto una luce più simpatica e impediva punizioni più dure. Infine, dire che la bomba ha vinto la guerra, significava riconoscere gli statunitensi vincitori del Giappone. L’occupazione statunitense del Giappone non si concluse ufficialmente che nel 1952, e durante quel periodo gli Stati Uniti ebbero il potere di modificare o rifare la società giapponese come meglio credevano. Durante i primi giorni dell’occupazione, molti funzionari giapponesi temevano che gli statunitensi avessero per scopo abolire l’istituzione dell’imperatore. E avevano un’altra preoccupazione. Molti alti funzionari governativi giapponesi sapevano che avrebbero potuto affrontare l’imputazione per crimini di guerra (i processi per crimini di guerra contro i capi della Germania erano già in corso in Europa, quando il Giappone si arrese). Lo storico giapponese Asada Sadao ha detto, in molte interviste del dopoguerra, che “i funzionari giapponesi… erano ovviamente ansiosi di compiacere gli interlocutori statunitensi”. Se gli statunitensi volevano credere che con la bomba avessero vinto la guerra, perché deluderli? Attribuire la fine della guerra alla bomba atomica servì gli interessi del Giappone in più modi. Ma servì anche gli interessi degli USA. Se con la bomba vinsero la guerra, allora la percezione della potenza militare degli Stati Uniti si sarebbe ingrandita, l’influenza diplomatica degli Stati Uniti in Asia e in tutto il mondo si sarebbe accresciuta e la sicurezza degli Stati Uniti si sarebbe rafforzata. I 2 miliardi di dollari spesi per costruirla non sarebbe andati sprecati. Se, d’altro canto, l’entrata dei sovietici in guerra fu ciò che spinse il Giappone ad arrendersi, poi i sovietici avrebbero potuto affermare che poterono fare in quattro giorni quello che gli Stati Uniti non poterono fare in quattro anni, e si sarebbe rafforzata la percezione della potenza militare sovietica e dell’influenza diplomatica sovietica. E una volta che la guerra fredda era iniziata, affermare che l’entrata in guerra dei sovietici fu il fattore decisivo, sarebbe equivalso a dare aiuto e conforto al nemico.
E’ preoccupante considerare, date le questioni sollevate qui, che le prove di Hiroshima e Nagasaki siano al centro di tutto ciò che pensiamo delle armi nucleari. Questo evento è alla base dell’importanza delle armi nucleari. E’ fondamentale per il loro status unico, l’idea che le regole normali non si applicano alle armi nucleari. Si tratta di un aspetto importante delle minacce nucleari: la minaccia di Truman di una “pioggia rovinosa” sul Giappone fu la prima minaccia nucleare esplicita. E’ fondamentale per l’aura di enorme potere che circonda tali armi, rendendole così importanti nelle relazioni internazionali. Ma cosa ne faremmo di tutte queste conclusioni se la storia tradizionale di Hiroshima viene messa in dubbio? Hiroshima è il centro, il punto da cui tutti gli accrediti e le affermazioni promanano. Eppure la storia che vi raccontano sembra abbastanza lontana dai fatti. Che cosa dobbiamo pensare delle armi nucleari se questa enorme prima realizzazione, il miracolo dell’improvvisa resa del Giappone, si rivela essere un mito?
Traduzione di Alessandro Lattanzio
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