1917: il grande gioco americano (parte seconda)

Il primo atto di questa politica consiste nel legare finanziariamente l’America e gli alleati occidentali. Certo, nell’agosto 1914 il governo americano aveva affermato che la concessione di crediti ai belligeranti era incompatibile con la neutralità. Ma questo atteggiamento non durerà più di tre mesi. Fra il novembre 1914 e il novembre 1916 gli Stati dell’Intesa ricevono, sotto forma di apertura di crediti o di prestiti, circa 1930 miliardi di dollari, mentre la Germania ne riceve meno di 5 miliardi. Da sola la Banca Morgan concentra l’85% delle ordinazioni inglesi e francesi, che ripartisce fra i produttori, fornendo anche i crediti necessari ai pagamenti.
Il secondo atto della stessa politica concerne la distruzione dello zarismo russo attraverso il finanziamento della rivoluzione bolscevica. Non si riesce a comprendere appieno questa scelta se non si tiene conto dell’ostilità che alcuni emigrati e il movimento sionista manifestano nei confronti della Russia. Questa ostilità trova il suo fondamento nella situazione degli ebrei russi, costretti a vivere nei ghetti, sottoposti a un regime discriminatorio e a periodici massacri (pogrom) scatenati dalle folle. Il duca Ernesto di Coburgo racconta nelle sue memorie che al momento della guerra di Crimea (1854-55) Lord Rothschild gli aveva confessato che in quel momento egli era pronto a versare qualsiasi somma nella lotta contro la Russia.

La rivoluzione russa si divide in due fasi. La prima è la rivoluzione di febbraio (marzo secondo il nostro calendario) che porta all’abdicazione dello zar Nicola Romanov (quel giorno il corso del rublo ed i valori russi salgono alla Borsa di Parigi) e a un governo rivoluzionario democratico, che associa al potere liberali e menscevichi. Inglesi e Francesi sostengono i democratici e forniscono loro i fondi necessari. Essi hanno tutto l’interesse a mantenere la Russia nel conflitto, obiettivo conseguito in aprile. Miliukov, Ministro degli Affari Esteri del governo provvisorio, assicura che la guerra sarà condotta fino alla vittoria. Questa assicurazione preoccupa gli uomini di Wilson. Se la Russia condivide la vittoria con gli Inglesi, l’esercito russo vittorioso non sarà poi tentato di restaurare lo zarismo? Da qui deriva la seconda fase della rivoluzione, la presa del potere bolscevico del 25 ottobre 1917 (8 novembre), sostenuta sottobanco dalla Germania e dalla finanza newyorkese, che, evidentemente senza mettersi d’accordo, avevano l’interesse comune di vedere la Russia fuori dai giochi.
Il 16 aprile 1917 Lenin e Zinoniev, provenienti dalla Svizzera, arrivano a San Pietroburgo, dopo l’attraversamento della Germania e della Svezia in un “vagone piombato” sotto la protezione combinata dell’Alto Comando tedesco e di Max Warburg, uno dei fratelli di Paul Warburg (della Khun Loeb and Company a New York), che risulta proprietario ad Amburgo della Banca Warburg and Company. Il 17 maggio 1917, Trotski, proveniente dal territorio americano, raggiunge Lenin. Dopo essere stato imbarcato il 27 marzo con più di 250 compagni egli viene immobilizzato per qualche tempo ad Halifax con degli enormi fondi. Ma grazie all’intervento congiunto del colonnello House e di Sir William Wiseman (Khun Loeb and Company), egli può ripartire verso la Russia con un passaporto americano.

La fonte dei fondi ricevuti dai bolscevichi è duplice. Una parte viene dal Governo di Berlino (si conoscono oggi il numero dei conti aperti presso la Reichbank, il 2 marzo 1917, ai nomi di Lenin, Trotski e Koslowsky). Un’altra viene dalla Khun Loeb. Anche i circuiti utilizzati da questi fondi sono ugualmente conosciuti. Allorché Lenin è in esilio in Svizzera, il flusso di denaro va dalla Germania a Zurigo, attraverso la Deutsches Bank. Successivamente il denaro transita da Berlino (Disconto Gelleschaft e Reichbank), da Oslo (DEN Norske Handelsbank) o da Stoccolma (NYA Banken, VIA Banken), verso la Banca Siberiana di San Pietroburgo.
Nel 1917 il finanziere più impegnato nel sostegno ai rivoluzionari è Jacob Schiff, genero di Salomon Loeb, che si vanta dalle colonne del “New York Times” del 5 giugno 1916 di aver strappato al presidente Taft, nel 1911, e dopo una violenta campagna di stampa, la denuncia degli accordi commerciali con la Russia: «Chi dunque se non me, ha messo in movimento l’agitazione che ha costretto poi il presidente degli USA a denunciare il nostro trattato con la Russia ?».
Numerosi sono i documenti che provano l’implicazione della finanza newyorkese nel crollo dello zarismo. Il 19 marzo 1917 Jacob Schiff indirizza un telegramma al Ministero degli Esteri del Governo provvisorio russo (Miliukov): «Permettetemi, in qualità di nemico inconciliabile dell’autocrazia tirannica che persegue senza pietà i nostri correligionari, di felicitare attraverso voi il popolo russo per l’azione che ha appena finito di compiere così brillantemente e di augurare pieno successo ai vostri colleghi di governo ed a voi stesso!».

Le somme messe a disposizione dei rivoluzionari russi, menscevichi e quindi bolscevichi sono state considerevoli. Il 3 febbraio 1949, in piena guerra fredda, Jacob Schiff, nipote del finanziere omonimo, riconoscerà sul “New York Journal” che suo nonno aveva personalmente versato ai bolscevichi 20 milioni di dollari. Fra il 1918 ed il 1922, di fatto Lenin, riconoscente, dispone il rimborso tramite lo stato russo della somma di 450 milioni di dollari in favore della Khun e Loeb and Company.
Il 21 luglio 1917, qualche settimana dopo aver portato il suo paese nella Grande Guerra, Wilson scrive al suo consigliere e confidente colonnello House: «La Francia e l’Inghilterra non hanno sulla pace le stesse nostre vedute. Quando la guerra sarà finita noi li porteremo al nostro modo di pensare, in quanto in quel momento, tra le altre cose, essi saranno finanziariamente nelle nostre mani!».

BIBLIOGRAFIA

  • La grande storia della prima guerra mondiale, di M. Gilbert – Mondadori, 2000
  • La prima guerra mondiale. 1914-1918, di B.H. Liddell Hart – Rizzoli, 2001
  • L’età progressista negli Stati Uniti: 1896-1917, a cura di A. Testi – il Mulino, 1984

di Massimo Iacopi

in http://win.storiain.net/arret/num170/artic3.asp

1917: il grande gioco americano (parte prima)

Tantissima storia americana nell’ultimo numero di Storia in Rete, in edicola a partire dai prossimi giorni e già disponibile in versione pdf nelle edicole online. Lo spunto è dato dai cento anni della dichiarazione di guerra degli USA alla Germania nella Prima guerra mondiale. Una guerra che venne dipinta come il colpo di reni morale della democrazia contro l’autocrazia, e che invece – come dimostrò la commissione Nye del Senato americano negli anni Trenta – dietro nascondeva gli interessi delle banche statunitensi, che avevano prestato all’Intesa cifre favolose.

Nasceva così il legame di dipendenza del Vecchio Continente dagli Stati Uniti, che non si sarebbe più sciolto. E intanto in America qualcosa si muoveva anche a favore della rivoluzione bolscevica (poiché mentre una parte dei banchieri USA prestava soldi all’Intesa, un’altra finanziava il crollo della Russia zarista, odiata per le sue politiche antisemite). E al termine del conflitto l’asse USA-Gran Bretagna si saldava definitivamente nel nome degli interessi geopolitici e della contiguità linguistica, che avrebbe creato quella anglocrazia che oggi sembra inarrestabile.

La fine del 1916 determina per gli Europei la conclusione di un processo evolutivo che si conclude con la perdita del controllo dei loro destini. Questa “perdita” avviene per tre ragioni principali.
In primo luogo, le promesse fatte dai belligeranti dei due blocchi alle potenze di secondo rango, per convincerle a entrare in guerra al loro fianco, hanno trasformato la conclusione del conflitto in una questione di sopravvivenza per diversi stati multinazionali (imperi austro-ungarico, ottomano e russo). In secondo luogo, la configurazione dei blocchi avversi compromette ormai ogni possibilità di pace separata. Da ultimo, qualsiasi nuova combinazione interna all’Europa sembra esaurita: una rottura dell’equilibrio delle forze non può condurre a un vantaggio decisivo per nessuno dei due schieramenti.
Di conseguenza, è a partire dal 1916 che i fattori esterni all’Europa prendono il sopravvento sui fattori interni; un fatto, questo, che determinerà l’intervento americano.

Le cause dell’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco dell’Intesa sono note. Il 1° febbraio 1917 la Germania scatena la guerra sottomarina a oltranza allo scopo di far
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L’affondamento del Lusitania sancì l’ingresso degli USA nel conflitto
cadere l’Inghilterra nella carestia e nella crisi economica e di costringerla a chiedere la pace. Il 24 febbraio gli Inglesi comunicano agli Americani un telegramma cifrato che essi dicono di aver intercettato il 19 gennaio. In questo telegramma diretto all’Ambasciata tedesca in Messico, il Segretario di Stato tedesco agli Affari Esteri, Zimmerman, esprime la sua intenzione di proporre «una alleanza con il Messico. che potrà in tal modo riconquistare i territori perduti del Nuovo Messico, del Texas e dell’Arizona». Il 1° marzo 1917 il Presidente Wilson rende pubblico il telegramma, provocando un moto di indignazione. In tal modo egli riesce a modificare l’atteggiamento dell’opinione pubblica americana, fino ad allora in gran parte contraria all’ipotesi della guerra. Il 2 aprile 1917 il Congresso vota l’entrata in guerra contro la Germania e gli Imperi Centrali. Ma a causa della indisponibilità di un esercito adeguato alle esigenze e di una flotta per trasportarlo e rifornirlo, gli effetti militari di tale decisione non potranno farsi sentire prima di un anno.
Durante questo lasso di tempo, all’est, la Germania può rallegrarsi della destabilizzazione del suo nemico russo. L’8 marzo 1917 (febbraio secondo il calendario russo) scoppia una prima rivoluzione che si conclude con la rapida abdicazione (15 dello stesso mese) dello zar. Fra la primavera 1917 e il 1918 i Tedeschi non sono mai stati così vicini alla vittoria. Nell’aprile 1917, l’ammiraglio britannico Jennicoe informa l’ammiraglio americano W. Sims, inviato in Europa, che egli teme di non poter impedire il trionfo della guerra sottomarina. Ma quello che è peggio, la ritirata russa durante l’inverno del 1917, conseguente alla vittoria bolscevica, dà ai Tedeschi una superiorità numerica del 20% sul fronte ovest.

Nel momento in cui sulla scena della storia immense masse umane si autodistruggono, un piccolo numero di uomini radunati intorno al presidente statunitense Wilson e al governo inglese contribuisce a orientare le decisioni. Insieme alle motivazioni ideali, la potenza dell’alta finanza svolgerà un ruolo importante nel portare gli Stati Uniti in guerra.
Tre banche di New York concentrano la maggior parte degli interessi finanziari statunitensi: la Kuhn Loeb and Company, prima banca mondiale; la J.P. Morgan (estensione americana della Rothschild londinese); la National City Bank (banca della dinastia dei Rockfeller). I loro dirigenti sono Benjamin Strong per la Morgan, Frank A. Vanderlip e Cleveland H. Dodge per la National City Bank, Salomon Loeb e i fratelli Warburg e Schiff per la Khun. Ad alcuni di essi Wilson deve tutto: la carica di Governatore del New Jersey nel 1910 e la “distruzione mediatica” del suo avversario repubblicano William Taft nella corsa alle presidenziali. E’ anche grazie a essi che il principale consigliere di Wilson, il colonnello House, ha potuto organizzare, in quanto braccio americano della Tavola Rotonda (società iniziatica inglese di idee mondialiste, vicina agli interessi dei Rothschild a Londra, fondata, tra gli altri, da Sir Cecil Rhodes e Lord Alfred Milner ), il Council for Foreign Relations (uno dei più antichi Think tank americani), al quale appartiene un altro influente consigliere di Wilson, Justice Louis Brandeis, Presidente del comitato provvisorio sionista.
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Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921
Attraverso il Federal Reserve Act del 1913, Wilson ha dato a questi uomini ciò che essi attendevano da tanto tempo: una banca centrale per unificare il capitale americano. Ma il progetto degli “uomini del presidente” va ben al di là dell’unità del capitalismo a stelle e strisce. Si tratta in effetti di fare dell’America il motore di una nuova mondializzazione, fatto che implica la necessità di rompere con la regola del vecchio equilibrio di potenze e di favorire una riorganizzazione della geopolitica mondiale intorno alla finanza anglo-americana. Per alcuni si tratta anche di punire gli autocrati russi e di farla finita con l’aristocrazia austro-tedesca che ribadisce in ogni circostanza la supremazia del “guerriero” sul “mercante”.
Il 22 agosto 1914 il colonnello House aveva già lasciato intravedere i possibili sviluppi: «Se gli Alleati trionfano, è l’egemonia russa sul continente europeo. Se al contrario, la Germania esce vittoriosa, saremo per diversi anni sotto l’indicibile giogo del militarismo tedesco». Occorre dunque silurare da un lato la potenza russa e dall’altro la potenza tedesca.

Russofobia alla puttanesca

Naturalmente si tratta solo di un teorema, anzi di un delirio senza alcuna pezza d’appoggio tanto che lo stesso giornale è costretto a rivelare la nullità delle proprie supposizioni scrivendo che da mesi i massimi esperti stanno cercando di capire cosa sia davvero successo, anche se lo fa dopo aver lanciato la tesi russa, ben sapendo che la maggior parte dei lettori si ferma al primo capoverso.

il Simplicissimus

nato-basi-russia“Probabilmente russi”… la grande stampa, quella che verifica le notizie, quella che è scesa in battaglia contro la post verità del web, ci fornisce questo delizioso quadretto degli instancabili novellieri di Repubblica che cercano  di vendere fumo sulla misteriosa intrusione nei server dell’Aeronautica militare avvenuta più di sei mesi fa per carpire i segreti dell’F35 . Probabilmente gli stessi che si sono introdotti nei computer del nostrano ministero della difesa, due anni fa, che hanno sbugiardato la Clinton in favore di Trump, che hanno reso noti i nomi degli atleti occidentali dopati alle Olimpiadi di Rio. Non c’è dubbio che non possano essere che un gruppo di cattivissimi hacker russi decisi a rendere la vita difficile all’occidente.

Naturalmente si tratta solo di un teorema, anzi di un delirio senza alcuna pezza d’appoggio tanto che lo stesso giornale è costretto a rivelare la nullità delle proprie supposizioni scrivendo che da mesi i massimi esperti stanno…

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Vengo anch’io

Dopo la sceneggiata grillina di adesione al gruppo neoliberista dell’ALDE con il “vengo anch’io No Tu No”, il movimento di Grillo si è arrampicato sugli specchi per giustificare le sue scelte ed aveva subito dopo prodotto un comunicato dai risvolti farseschi: “L’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del Movimento 5 Stelle nel terzo gruppo più grande del Parlamento Europeo. Questa posizione ci avrebbe consentito di rendere molto più efficace la realizzazione del nostro programma. Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi. Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima. Grazie a tutti coloro che ci hanno supportato e sono stati al nostro fianco. La delegazione del MoVimento 5 Stelle in Parlamento Europeo continuerà la sua attività per creare un gruppo politico autonomo per la prossima legislatura europea: il DDM (Direct Democracy Movement)”. Quindi secondo Grillo, il sistema o l’establishment dei potentati finanziari, degli squali della finanza che gestiscono l’oligarchia eurocratica avrebbero “tremato” per la estemporanea proposta del Movimento 5 Stelle. Parliamo di quei potentati che hanno stritolato la Grecia, ridotto all’indigenza intere classi sociali nei paesi del sud Europa, quelli che sono espressione di entità come la Goldman Sachs, la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario internazionale, che sono sempre strettamenti alleati della Merkel, di Obama e della Clinton, questi, proprio questi, avrebbero “tremato” nel ricevere al proposta di aggregazione di Grillo al loro partito di rappresentanza nel Parlamento Europeo. Se fosse ancora vivo il grande Totò avrebbe detto: “ma ci faccia il favore”. Ora il 5 Stelle stanno mostrando con estrema chiarezza il loro vero volto, quello di una forma di opposizione “alla Tsipras”, che svolge un ruolo preciso, accattivandosi il consenso della classi sociali degli esclusi, salvo poi, al momento giusto, piegarsi a disposizione dei poteri sopranazionali. Questi fatti non fanno che confermare quanto da tempo abbiamo scritto sul Movimento 5 Stelle, ovvero che questo movimento, il M5S, è un movimento nato per inquadrare e ingabbiare il dissenso. Questo movimento è stato creato per svolgere il ruolo della “fake opposition”, esattamente come Podemos in Spagna e Tsipras in Grecia….ed in particolare: 1) Parcheggiare una potenziale massa di protesta popolare/giovanile su un binario morto per preservare il sistema da scossoni e rivolte popolari; . 2) Focalizzare l’opposizione su tematiche relative alla lotta contro la casta politica parassitaria, all’onestà, alla lotta contro la corruzione ed allo Stato burocratico, evitando di coinvolgere i poteri sovranazionali che pilotano la politica e l’economia del paese; 3) spostare l’attenzione su questioni quali il finanziamento pubblico dei partiti, le spartizioni del sottogoverno e la connivenza dei partiti con le mafie e con le alte burocrazie: 4) evitare le questioni essenziali, come quella dell’immigrazione, dei diritti sul lavoro, della sovranità monetaria, dei trattati internazionali, della adesione alla NATO ma limitandosi ad azioni di piccolo sabotaggio in Parlamento; 5) Fornire un “assist”, quando necessario, alle entità subpolitiche collaborazioniste di governo, votando loro provvedimenti o “cedendo” parlamentari. 6) Scaldare i banchi in parlamento fino alla “chiamata” delle élite finanziarie, per accedere al governo (altrimenti, senza “chiamata”, opposizione falsa a vita!). Forse Grillo ed il suo entourage pensavano che, alleandosi con l’ALDE (lo stesso gruppo di Monti, Zanetti e Prodi e degli alleati della Merkel) sarebbe stato più facile attuare il loro programma dei 7 punti, tra i quali vi era l’abolizione del Fiscal Compact e il referendum sull’euro. Certo, come no, nella fantasia dei grillini, la Merkel in persona, convinta da Grillo, avrebbe finalmente abolito il Fiscal Compact e la Germania si sarebbe accollata i debiti dell’Italia, inclusi quelli della Regione Sicilia, della Campania, del Lazio e magari gli stipendi dei forestali calabresi ed i debiti dell’MPS e delle altre banche. In pratica i grillini, che dimostrano di essere gli “utili idioti” della BCE e del Grande Capitale, vogliono far credere che le loro scelte spregiudicate di presunta tattica politica, avrebbero creato un “pericolo” (come anche Luigi Di Maio ha ripetuto in TV) per l’establishment dei potentati finanziari. Dalla farsa dei 5 Stelle si comprende il dramma della base, composta da tante persone in buona fede e con la speranza di essere rappresentate nelle loro istanze di giustizia sociale ed indipendenza dai grandi poteri. I 5 Stelle, nonostante lo neghino, sono nella tradizione dei movimenti di sinistra e, citando Oswald Spengler: “La sinistra fa sempre il gioco del grande capitale. A volte perfino senza saperlo.” Ancora una volta, nella tradizione della Storia italiana, come accaduto per tanti altri partiti, ci sarà un tradimento delle aspettative dei ceti popolari e (una volta) ceti medi.

http://www.controinformazione.info/dopo-il-vengo-anchio-no-tu-no-i-grillini-ritornano-alla-realta/

Procurade, barones, moderare sa tirannia

La Sardegna ha poco più di un milione e mezzo di abitanti. Conta 110.000 disoccupati e 25.000 “inattivi”, oltre il 16 per cento del totale. La percentuale di giovani senza lavoro è attorno al 50 per cento ; ogni anno emigrano verso il continente o all’estero migliaia di sardi di ogni età e condizione. La provincia di Carbonia Iglesias è stabilmente inserita tra le aree più depresse dell’intera Unione Europea.  Giusto dunque che la sessantina di privilegiati che formano il Consiglio della Regione Autonoma – il presidente Pigliaru gode, dicono, di un appannaggio di 13.000 euro mensili – cerchino di aiutare chi vuol avviare un’impresa.

Al riguardo, nell’ambito di un progetto comicamente denominato Impr.Int.Ing, mutuato certo dagli studi sulle oche di Konrad Lorenz, i giudiziosi amministratori della cosa pubblica sarda hanno stanziato la ragguardevole somma di euro 2.003.171,43 per sovvenzionare  nuovi imprenditori. Purché non sardi, non italiani, e neppure cittadini comunitari. La prima considerazione riguarda la bizzarria della cifra: chissà come saranno pervenuti, gli uffici burocratici dell’isola, a calcolare persino i centesimi disponibili per la generosa operazione finanziaria antinazionale. Non che abbiamo dubbi sulla correttezza  della contabilità: la regione autonoma conta su circa tredicimila dipendenti, abbonderanno i ragionieri e i dottori in economia. A proposito, Marche e Liguria, con una popolazione analoga, hanno circa 1.300 dipendenti ciascuna. Alla faccia dei Quattro Mori !

Non dimentichiamo che, su iniziativa del medesimo benemerito ente, la meravigliosa isola dei Nuraghe può contare su ben otto province. Scommettiamo che la maggioranza schiacciante degli italiani non conosce la provincia dell’Ogliastra ( meno di sessantamila abitanti, più o meno la popolazione di Sanremo o Crotone ), i cui capoluoghi sono due, le metropoli di Lanusei e Tortolì , così come di quella del Medio Campidano, anch’essa con doppia piccola capitale, Sanluri e Villacidro.

Tutti gli italiani sono perfettamente al corrente anche dell’esistenza  della provincia della Gallura ( Tempio Pausania più Olbia) e del Sulcis Iglesiente ( Carbonia Iglesias). Tutto va quindi per il meglio, nella fortunata patria di Emilio Lussu e della Brigata Sassari. Perché indignarsi, dunque, se due milioni e spiccioli del sudore del popolo sardo vanno alle imprese costituite da extracomunitari ? Anzi, possono partecipare anche i cittadini di Paesi Terzi ( niente rumeni, estoni o tedeschi, dunque) che abbiano ottenuto la nostra cittadinanza, i “nuovi italiani”. Oh, gran bontà del democratico presidente Pigliaru, c’è posto anche , ça va sans dire, per i “richiedenti asilo” ed i rifugiati “. Non sia mai che rimangano fuori, sai l’indignazione dei mammuthones di Mamoiada e di qualche disoccupato reazionario di Quartu Sant’Elena, incautamente originario dell’isola !

Se credessimo ancora ad un briciolo di legalità, consiglieremmo i cittadini di Cagliari e Sassari di impugnare gli atti della regione per incostituzionalità, ma si sa, “le leggi son, ma chi pon mano ad esse ?”. E poi non vorranno certo, i bravi abitanti della Sardegna, esporsi all’infame accusa di razzismo. Da biechi reazionari, magari pensiamo, ma sottovoce e con il rossore sul volto, che i due milioncini, ed anche i restanti euro 3.171,43 , avrebbero potuto essere assegnati a start up di cittadini italiani, o magari inseriti in un programma dal nome altisonante per sostenere la natalità, che è in picchiata anche da quelle parti, o, se proprio a Pigliaru avanzano denari, devoluta ai terremotati dell’Italia Centrale.

Basta, vergogniamoci anche solo di averlo pensato, e plaudiamo invece alla nobile iniziativa della giunta democratica sarda. Gli stranieri devono lavorare ed  integrarsi, come si dice. Sarà per quello che i corsi professionali organizzati nell’isola sono gratuiti per loro ed a pagamento per i sardi, che, ricordiamolo, non abitano tutti sugli yacht di Porto Cervo  e non trovano lavoro nonostante l’impegno diuturno di Pigliaru & Compagni. Sarà anche per integrazione che la direzione dell’ospedale di Sassari ha chiesto ai primari di “sospendere i ricoveri e dimettere i dimissibili in previsione dello sbarco di migranti” .

Ed è un chiaro segnale di integrazione tecnologica se gli aspiranti percettori stranieri del denaro pubblico sardo dovranno trasmettere le loro istanze “esclusivamente in forma telematica”. Riferito della democratica ed egalitaria disposizione che assegna “almeno il 49 per cento” delle somme a richiedenti di “genere” femminile – il genere è ormai dappertutto e getta il sesso nell’angolo ! – qui, sulla forma telematica , casca l’asino, anzi il simpatico somarello sardegnolo.

Rifugiati, richiedenti asilo, extracomunitari: tutti nativi digitali con computer al seguito su cui seguire le disposizioni della giunta e trasmettere le domande con relativi curricula. Strano: non sarà invece che il denaro finirà largamente nelle tasche rapaci delle organizzazioni  ben inserite nel sistema che lucrano sul business dell’accoglienza ? Chissà che non abbiano già organizzato qualche affaruccio e che gli stranieri da aiutare o sfruttare non siano il mezzo per lucrare denaro pubblico e rafforzare consolidate clientele. A pensare male si fa peccato, ripeteva Giluio Andreotti, ma difficilmente ci si sbaglia. A proposito, i maligni insinuano che sia piuttosto chiacchierata, nell’isola, almeno una di queste caritatevoli istituzioni che incassano soldi sugli sbarchi dei clandestini . Noi non ci crediamo , naturalmente.

L’unica cosa che pensiamo davvero è che un popolo merita la fine che fa, se non si ribella a ciò che accade. Si può essere disinformati, si può anche essere oggetto della più disgustosa, mistificante e falsa propaganda immigrazionista, ma non si può rimanere indifferenti dinanzi a tanta protervia. In tempi normali, comportamenti della specie si chiamerebbero tradimento ed i loro protagonisti sarebbero considerati dei nemici del popolo, dei tiranni.

Più di due secoli fa la Sardegna insorse compatta contro i feudatari alleati dei piemontesi che si erano trovati a governare l’isola a seguito di complicati intrecci dinastici.  Il canto popolare che ne scaturì è considerato l’inno della nobile nazione sarda, Procurade, barones, moderare sa tirannia.

Le prime strofe del testo, tradotte dalla “limba” suonano  così:  Cercate di moderare, baroni, la tirannia, perché sennò, per la vita mia! Tornate con i piedi in terra! Dichiarata è già la guerra contro la prepotenza, e comincia la pazienza nel popolo a mancare. Guardate che si sta accendendo contro di voi l’incendio;
badate che non è un gioco, che la cosa diventa realtà; badate che l’aria minaccia temporale; gente mal consigliata ascoltate la mia voce.

Siamo tra coloro che non credono più nella volontà di reagire del popolo italiano, anzi non siamo più neppure certi dell’esistenza in vita di un popolo italiano. Eppure, dottore Pigliaru, ed assessori democratici sardi, e voi, signori  della Impr.Int.Ing, moderate se non altro il disprezzo che mostrate verso la vostra gente, e riportate quei due milioni nelle tasche di chi ha bisogno tra i vostri cittadini.

Il temporale può alzarsi all’improvviso, e nella vostra isola ci sono , purtroppo, migliaia di sardi che l’ombrello non ce l’hanno più. E’ brutta, se arriva, la collera della buona gente, quella senza Imprinting , che non ha santi in paradiso o in regione . Ajò, avanti forza paris !

ROBERTO PECCHIOLI   

 

L’articolo La Sardegna paga le nuove imprese. Ma solo se fatte da immigrati. è tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.