L’asse che non vacilla

Spadroneggiando dappertutto, l’imperialismo americano è divenuto il nemico dei popoli di tutto il mondo e si è sempre più isolato. (…) L’ondata di collera dei popoli del mondo contro gli aggressori americani è irresistibile. La loro lotta contro l’imperialismo USA e i suoi lacchè otterrà sicuramente vittorie sempre più grandi”.

(Mao Tse-tung, Dichiarazione in appoggio alla giusta guerra patriottica del popolo panamense contro l’imperialismo USA, 12 gennaio 1964)

Dall’interesse di Ezra Pound per l’insegnamento confuciano[1] nacque, tra l’altro, una versione italiana del Chung Yung[2], il testo canonico attribuito a Tzu-ssu[3], nipote di Confucio vissuto nel V sec. a.C. In esso “la moralità assume funzione cosmica, in quanto l’uomo opera la trasformazione del mondo e continua, quindi, nella società, il compito creativo del Cielo”[4]; insomma, il Chung Yung “insegna a sviluppare la capacità di perfezionare sé ed il mondo mediante la comprensione delle cose e la consapevolezza della propria azione”[5]. Il commento che tradizionalmente accompagna questo testo spiega che chung è “quello che non si sposta né da una parte né dall’altra” e che yung significa “invariabile”, sicché Pound scelse di rendere il titolo dell’opera con L’asse che non vacilla[6], mentre i traduttori successivi hanno optato per soluzioni quali Il costante mezzo[7] o Il giusto mezzo[8].

Il medesimo significato “assiale” risuona nel nome mandarino della Cina, che è Chung Kuo[9], “il Paese del Centro”, “l’Impero di Mezzo”. Se è vero, come fa notare Carl Schmitt, che fino all’epoca delle grandi scoperte geografiche “ogni popolo potente si considerava il centro della terra e guardava ai propri domini territoriali come alla casa della pace, al di fuori della quale regnavano guerra, barbarie e caos”[10], in buona misura ciò sembra vero anche nel caso della Cina odierna, la cui oggettiva centralità geografica e geopolitica è efficacemente descritta da Heinrich Jordis von Lohausen (1907-2002) in Mut zur Macht. “Fra tutti i subcontinenti dell’Eurasia – scrive il generale austriaco –  la Cina occupa la posizione strategica più forte: la triplice copertura delle montagne e dei deserti dell’Asia interiore, la corona delle isole periferiche e la barriera insormontabile della razza, della lingua e della scrittura che si erge contro ogni guerra psicologica delle nazioni bianche (…) la natura l’ha posta vicino all’oceano, le ha dato una posizione decisiva tra l’India e il Giappone, tra la Siberia e il Pacifico. Sulla costa occidentale del Pacifico, la Cina si presenta come il baricentro naturale, il centro fisso da sempre. Tutte le questioni relative all’equilibrio mondiale trovano risposta a Pechino. (…) I tentativi di una presa di potere economica o militare non possono nulla contro di essa, poiché la sua estensione è troppo vasta. È di un’altra razza e di una cultura antica, molto più antica. Ha accumulato in sé tutta l’esperienza della storia del mondo e resiste ad ogni trasformazione. Essa è inattaccabile”[11].

Il fatto che la Cina sia oggi in procinto di riacquisire il ruolo assiale al quale sembrano destinarla una posizione geografica centrale e un’esperienza storica di cinquemila anni ossessiona da tempo gli strateghi e gl’ideologi dell’imperialismo statunitense, i quali ormai scorgono nella Repubblica Popolare una “minaccia peggiore dell’Asse [Roma-Berlino-Tokio] nel XX secolo”[12] e vedono nella solidarietà sino-russo-iraniana un nuovo “Asse del Male”.

A Richard Nixon, che dal 21 al 29 febbraio 1972 si trattenne in Cina nel corso di una visita ufficiale che sanciva il disgelo dei rapporti tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare Cinese, viene attribuita la frase seguente: “Basta fermarsi un momento a riflettere su cosa accadrebbe se qualcuno capace di assicurare un buon sistema di governo riuscisse a ottenere il controllo di quel territorio. Buon Dio, nessuna potenza al mondo potrebbe… Voglio dire, mettete 800 milioni di cinesi al lavoro con un buon sistema di governo, e diventeranno i leader del mondo”[13].

Un quarto di secolo dopo, l’incubo della “Sfera di coprosperità della Grande Asia orientale” (in giapponese Dai Tōa Kyōeiken) tornava ad agitare i sonni degli yankee, poiché il teorico statunitense dello “scontro delle civiltà” assegnava alla Repubblica Popolare Cinese l’eredità del progetto imperiale nipponico, il cui obiettivo era stato quello di creare un’unione economica e politica coi paesi dell’area del Pacifico, dell’Asia orientale, dell’Asia centrale e dell’Oceano Indiano. “Quello di ‘Grande Cina’ – scriveva nel 1996 Samuel P. Huntington nel paragrafo La Grande Cina e la sua ‘sfera di coprosperità’ – non è dunque semplicemente un concetto astratto, ma al contrario una realtà economica e culturale in rapida espansione, e che ha cominciato a diventare anche una realtà politica”[14].

Il quadro dipinto da Huntington veniva ulteriormente arricchito dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale insisteva sul tema della centralità della Cina e sulla naturale espansione dell’influenza cinese verso le aree circostanti. “La storia – scriveva Brzezinski – ha predisposto l’élite cinese a pensare alla Cina come al centro naturale del mondo [the natural center of the world]. In effetti, la parola cinese per la Cina – Chung-kuo, o ‘Regno di Mezzo’ – trasmette la nozione della centralità della Cina [China’s centrality] negli affari mondiali e riafferma l’importanza dell’unità nazionale. Tale prospettiva implica anche un’irradiazione gerarchica di influenza dal centro alle periferie, sicché la Cina come centro [China as the center] si aspetta deferenza dagli altri (…) È quasi certo che la storia e la geografia renderanno i Cinesi sempre più insistenti – ed anche ‘carichi’ sotto il profilo emotivo – circa la necessità dell’eventuale riunificazione di Taiwan con la terraferma (…) Anche la geografia è un fattore importante che guida l’interesse cinese a stringere un’alleanza col Pakistan e a stabilire una presenza militare in Birmania (…) E se la Cina dovesse controllare lo Stretto di Malacca e la strettoia geostrategica a Singapore, essa controllerebbe l’accesso del Giappone al petrolio mediorientale e ai mercati europei”[15].

In un dibattito del 2011 che annoverava Henry Kissinger tra i suoi partecipanti, un professore di storia dell’economia dell’università di Harvard che di Kissinger era il biografo ufficiale, Niall Ferguson, disse: “Ritengo che il XXI secolo apparterrà alla Cina, perché lo sono stati quasi tutti i precedenti secoli della storia. Il XIX e il XX rappresentano un’eccezione. Per ben diciotto degli ultimi venti secoli la Cina è stata, in vario grado, la maggiore economia mondiale”[16]. L’ex segretario di Stato nordamericano replicò al suo biografo: “Il punto non è se il XXI secolo apparterrà alla Cina, bensì se, in questo secolo, riusciremo a integrare la Cina in una visione più universale”[17] – dove “visione universale” deve essere ovviamente inteso come “visione occidentalista del mondo”. In che cosa consistesse il compito proposto da Kissinger risulta chiaro da una risposta che egli diede nel corso di un’intervista da lui rilasciata in quello stesso anno: “Dobbiamo ancora vedere che cosa produrrà la Primavera araba. È possibile che in Cina ci saranno rivolte e manifestazioni (…) Non mi aspetto però sommovimenti della stessa portata della Primavera araba”[18]. Kissinger infatti escludeva, giudicandola fallimentare, l’idea di applicare alla Cina la strategia perseguita a suo tempo dall’Occidente contro il blocco guidato dall’URSS: “Un piano americano che si proponesse esplicitamente di dare all’Asia un’organizzazione capace di contenere la Cina o di creare un blocco di Stati democratici da arruolare in una crociata ideologica non avrebbe successo”[19].

La tesi americana relativa alla translatio imperii dal Giappone alla Cina sotto l’insegna della “coprosperità” si è ripresentata nel saggio di Graham Allison Destined for War: Can America and China escape Thucydides’ Trap? L’autore, professore emerito di Harvard ed ex consigliere e assistente alla Segreteria della Difesa nelle Amministrazioni che si sono succedute da Reagan a Obama, lancia un avvertimento che è un autentico grido d’allarme: “Una volta che il mercato economico dominante della Cina, come pure le sue infrastrutture fisiche, saranno riusciti a integrare tutti i paesi limitrofi nella più vasta area di prosperità della Cina, per gli Stati Uniti diventerà impossibile mantenere il ruolo avuto in Asia nel secondo dopoguerra. Invitato a impartire un messaggio da parte della Cina agli Stati Uniti, la risposta di un collega cinese è stata: fatevi da parte. Un collega di quest’ultimo, però, ha suggerito una sintesi ancora più schietta: fuori dalle scatole. (…) Di recente, il tentativo di persuadere gli Stati Uniti ad accettare la nuova realtà si è fatto più risoluto nel Mar Cinese Meridionale. (…) Mentre continua lentamente a spingere gli Stati Uniti fuori da queste acque, la Cina sta anche fagocitando nella sua orbita economica le nazioni di tutto il Sudest asiatico, attirandovi pure il Giappone e l’Australia. Finora ci è riuscita senza che avvenissero scontri. Qualora però dovesse rendersi necessario combattere, l’intenzione di Xi è quella di vincere”[20].

Perciò l’esigenza fondamentale avvertita dagli analisti statunitensi è quella espressa da John J. Mearsheimer, secondo il quale è indispensabile arginare l’ascesa della Cina[21]. Il teorico del cosiddetto “realismo offensivo” esorta quindi l’attuale Amministrazione a “lavorare assiduamente per migliorare le relazioni con gli alleati asiatici dell’America e creare un’alleanza efficace che possa tenere a bada Pechino”[22]. Ma per conseguire un tale obiettivo, argomenta Mearsheimer, è indispensabile attirare la Federazione Russa in una coalizione anticinese: “Oggi è Pechino, non Mosca, a rappresentare la principale minaccia per gli interessi degli Stati Uniti, e la Russia potrebbe essere un prezioso alleato nell’affrontare tale minaccia”[23]. Si tratta, come è evidente, della stessa tattica suggerita a suo tempo a Donald Trump dai suoi strateghi e teorici conservatori e populisti e condivisa dagli ambienti “sovranisti” occidentali. Ma questa soluzione “richiederebbe di abbandonare la tradizionale russofobia dei democratici nordamericani di cui lo stesso Biden (…) si è spesso fatto portavoce”[24].

E così alla fine la Casa Bianca e il Pentagono hanno scelto di arginare la Cina attraverso il “contenimento” della Federazione Russa: il minaccioso avvicinamento della NATO ai confini russi, che il Cremlino è stato obbligato a contrastare dando il via all’Operazione Militare Speciale, si inquadra infatti in una più ampia strategia nordamericana di “contenimento” anticinese, oltre che antirusso. Consapevole dell’obiettivo delle manovre nordamericane in Europa, la Cina “si è vista costretta a consolidare il suo partenariato strategico con la Russia fino a trasformarlo in un’alleanza; di qui, per definirne i particolari, il viaggio del Presidente Xi”[25] a Mosca e i colloqui al vertice col Presidente Putin.

La visita di Xi Jinping nella capitale russa richiama inevitabilmente alla memoria quella compiuta settant’anni fa da un altro Presidente cinese: il 15 febbraio 1950 Mao Tse-tung sottoscrisse con Stalin a Mosca un Trattato di Alleanza e Mutua Assistenza che sanciva la nascita di un grande blocco eurasiatico, esteso da Pankow a Mosca a Pechino a Pyongyang. L’alleanza russo-cinese dovette affrontare la sua prima prova soltanto quattro mesi più tardi, allorché la Repubblica Popolare Democratica di Corea intraprese la “Guerra di liberazione della Patria”[26], che i Cinesi chiamano “Guerra di resistenza all’America e in aiuto della Corea”[27]. Grazie all’intervento diretto della Repubblica Popolare Cinese, che inviò 100.000 combattenti, e grazie al sostegno materiale fornito dall’URSS, il conflitto militare si concluse nel 1953, quando le forze degli Stati Uniti e le truppe ausiliarie di altri diciassette Paesi furono ricacciate a sud del 38° parallelo.


Fonte: eurasia-rivista

Ucraina kamikaze

Si sta realizzando ciò che molti avevano preconizzato (me compreso) fin dalle prima settimane dell’azione russa per difendere il Donbass e cioè che la guerra in Ucraina si sarebbe trasformata da conflitto tra eserciti in terrorismo o per dire meglio, uscendo dalla povertà del neo vocabolario, in guerriglia. Questo carattere è rimasto abbastanza nascosto finché il regime di Kiev comandato dalla Nato è stato in parte nascosto fino che ha difeso le sue roccaforti, ma una volta cadute quelle è evidente che non esiste una vera prospettiva per la continuazione del conflitto.

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Europa a picco

Le ultime due settimane sono state dominate da quattro notizie importanti di cui però solo una è giunta al grande pubblico sia pure quasi in sordina, ovvero l’entrata ufficiale della Germania nel tunnel della recessione. Era una notizia in qualche modo attesa e ovviamente contrastata sui giornaloni e in televisione da assurde fantasie su riprese italiche di cui nessuno vede la presenza, ma che in un Paese trasformato in un fumeria d’oppio può anche essere consolatoria. In realtà visto che il sistema industriale italiano si era da tempo trasformato in sub fornitore di quello tedesco è una pessima novità anche per noi. Le altre tre notizie sono invece di segno opposto e testimoniano di come il tempo dell’occidente e della sua egemonia finanziaria stia per scadere. Diversi media americani di carattere economico, sono stati costretti ad ammettere ciò che mai avrebbero pensato un anno fa, ovvero che la Russia sta spendendo una somma relativamente piccola per la guerra in Ucraina e che il piano degli Stati Uniti messo a punto da Brzezinski per trascinare Mosca in un altro pantano simile all’Afghanistan non funziona affatto e anzi pare avere effetti completamente contrari a quelli attesi.

Scienza in coma

Piano piano e senza suscitare clamore  i complici del doppio inganno pandemia – sieri genici abbandonano la barca perché non sono più sicuri che qualcuno gli potrà garantire la copertura: così sulle riviste  di medicina sono stati ritirati oltre 330 articoli ( andate qui se volete togliervi la soddisfazione di sapere quali sono) sul Covid 19 a causa di standard etici compromessi e preoccupazioni sulla validità scientifica delle pubblicazioni.

In margine alle alluvioni

Purtroppo anch’io non nutro fiducia in chi oggi sarà incaricato di decidere sugli interventi fondamentali: Bonaccini e i consorzi di Bonifica pensano che i fiumi e i canali vadano ingabbiati nel cemento, addirittura in alcuni tratti li hanno tombati sotto le città; hanno abbattuto tutta la vegetazione lungo le sponde, mentre le radici hanno la capacità di consolidare il suolo. Il presidente della Regione ha inoltre favorito una cementificazione selvaggia anche in zone collinari, fragilissime e il risultato delle sue decisioni è sotto gli occhi di tutti.

Cosa possiamo sperare da tali incapaci!!!!

Gabriella Sabbioni

Risponde Marco Dondi: purtroppo oggi la maggior parte di politici e amministratori pur non avendo le competenze necessarie vogliono ugualmente decidere da soli, quasi sempre in base agli interessi propri o di chi rappresentano. 😡

Punto di vista

Il quotidiano cinese ” Global Times ” ha affermato che l’alleanza tra Russia e Cina rappresenterà una vera sfida geopolitica per gli Stati Uniti, ma lavorerà per stabilizzare la situazione in tutto il mondo.

Il quotidiano cinese ha aggiunto nel suo articolo che Washington sta cercando di seminare divisione tra Russia e Cina, e che le radici di questa posizione divisiva americana risiedono in “motivi incontrollabili di egemonia” e nella paura della cosiddetta “alleanza sino-russa”.

Secondo la fonte, questa particolare alleanza è “il più grande incubo geopolitico per gli Stati Uniti”.

L’articolo indica che la lunga esperienza del partenariato politico tra Russia e Cina è poliedrica e indica in conclusione che “il mondo diventerà più stabile” quando i due paesi raggiungeranno un certo livello di fiducia reciproca.

Piantare le tende

Un tempo si sarebbe detto che “piantare le tende” all’università fosse un’iniziativa positiva, perché sintomo della voglia del giovane di vivere pienamente l’esperienza degli studi superiori. Oggi non è più così. La locuzione “piantare le tende” deve essere intesa in senso letterale. Da qualche settimana un po’ di bravi ragazzi pernottano in tende da campeggio installate sulle aiuole degli atenei per protestare contro il caro-affitti degli immobili destinati agli studenti fuorisede. Un modo originale per segnalare all’opinione pubblica e al mondo della politica l’esistenza di un problema. Obiettivamente, il mercato immobiliare nelle grandi città è schizzato alle stelle. Per un giovane, che deve essere mantenuto agli studi dalla propria famiglia, pagare una somma superiore ai 300 euro per un affitto mensile di un posto letto è molto complicato. Da qui la protesta. Giusto o sbagliato manifestare il proprio disagio? La risposta non è semplice. Si tratta di una questione che non può essere tagliata con l’accetta. Questi giovani reclamano un diritto allo studio, che non può essere annichilito dall’insostenibilità dei costi degli alloggi. Ciononostante, sbagliano a prendersela con i proprietari degli immobili per il caro-affitti. Si tratta di abitazioni private che soggiacciono alle regole del mercato. Se la domanda si espande è inevitabile che l’offerta sia più esosa. In un mondo libero, il profitto non è un peccato e neppure un reato. La questione verte sull’annoso problema delle mancate politiche per lo student housing che i Governi succedutisi negli ultimi decenni hanno mancato di attuare.

Se abbiamo ben interpretato i numeri snocciolati ieri l’altro dal ministro dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini, al question time alla Camera, sarebbero 7.500 gli alloggi creati per gli studenti fuorisede. Se si considera che, nell’anno accademico 2021/2022 gli iscritti alle università italiane sono stati 1.822.141, di cui 323.852 nuove immatricolazioni, a fronte di 370.758 laureati in uscita dai percorsi universitari (fonte: Portale dei dati dell’istruzione superiore), secondo le stime calcolate sul fabbisogno di posti letto, l’offerta strutturata per i fuorisede dovrebbe coprire almeno 130mila unità, allocabili in studentati e collegi. Ma la politica fa la politica e, visto che il nuovo Esecutivo non ha alcuna intenzione di farsi cogliere con il cerino accesso tra le mani, si affretta ad annunciare, per bocca del ministro competente, che sono in arrivo 400 milioni stanziati per gli alloggi e 52.500 posti letto da realizzare coi fondi Pnrr. Sarebbe comunque una bella toppa per tamponare una falla che c’è. Tuttavia, i rimedi possono depotenziare il fenomeno ma non ne elidono la causa. Anzi, le cause. Sul banco degli imputati non dovrebbero finirci i proprietari degli immobili privati che fanno profitti su un buco nero del nostro sistema educativo. Bisognerebbe cominciare a indagare la filosofia di fondo sulla quale sono stati costruiti, nei secoli, gli atenei. Il senso alto che la società ha da sempre riservato all’istruzione superiore ha fatto sì che le strutture universitarie sorgessero nel cuore delle grandi città. L’idea di portarle in periferia, dove gli spazi urbanistici sono di gran lunga più adatti alla realizzazione di campus in piena regola, dotati di infrastrutture e di alloggi non solo per i fuorisede ma per tutti gli iscritti, sull’esempio anglosassone, ha fatto fatica ad affermarsi.

Eppure, l’esperienza avrebbe dovuto insegnare alla politica che la sola strada percorribile per migliorare l’accessibilità allo studio universitario è la delocalizzazione delle sedi. L’allocazione nei centri cittadini ha generato un ulteriore problema. In alcune regioni, una pessima mobilità rende impossibile il pendolarismo agli studenti residenti in provincia o nelle aree metropolitane limitrofe ai luoghi delle sedi universitarie. Cosicché, essendo impraticabili gli spostamenti giornalieri, si viene classificati “fuorisede” anche abitando a 50/60 chilometri dall’università a cui si è iscritti. È il caso della Capitale. Il cattivo funzionamento dei trasporti pubblici obbliga gli universitari a pernottare a Roma a costi insostenibili. Quando però si parla di studenti, bisogna stare attenti alle generalizzazioni. Non per tutti valgono gli stessi problemi e vanno ricercate le medesime soluzioni. Sappiamo per esperienza che una parte di essi con la storia di dover necessariamente vivere in prossimità dei luoghi universitari ci marcia. Per un giovane la vita in periferia, o in provincia, non è stimolante come quella vissuta nelle grandi città. È comprensibile che sia più eccitante vivere le notti della movida metropolitana piuttosto che le serate in piazza in un remoto paese dell’entroterra. Vuoi mettere farsi uno Schnaps al Testaccio, invece di consumare la solita birretta al bar del paese? Se, dunque, è legittima la pretesa del giovane di cogliere l’occasione dell’iscrizione all’università per evadere dal proprio contesto di vita, ritenuto inadeguato e asfittico, non lo è altrettanto la pretesa che sia lo Stato a pagare per lui – o per lei – il prezzo della libertà dall’ambito socio-famigliare. C’è poi un’altra questione che andrebbe messa a nudo e che riguarda lo spostamento in numeri significativi di giovani dal Sud al Nord del Paese per compiere gli studi universitari. Le ragioni che muovono tale onda migratoria sono sostanzialmente due. La prima. Esiste un malvezzo, tipico del provincialismo borghese nel Sud Italia, di fare dell’invio dei figli a studiare al Nord uno status symbol.

È una eredità che la media borghesia meridionale ha ricevuto dalle classi agiate della vecchia aristocrazia e dell’alta borghesia, quella di spedire i propri pargoli a studiare al Nord. Principalmente a Milano, a Torino, a Bologna. Da quando, però, ai ricchi del Sud le università italiane non sono più bastate e hanno cominciato a inviare i figli all’estero, prevalentemente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, le classi di rincalzo del ceto medio produttivo sono andate all’assalto degli atenei del Nord, con l’Università meneghina Bocconi tra le mete più ambite. Ora, se l’arrivismo e l’ambizione sociale non sono comportamenti da punire, parimenti non meritano di essere messi economicamente in carico alla collettività. Salumai e riparatori d’automobili vogliono i figli bocconiani? Legittimo, ma se li paghino con le loro tasche e lascino in pace le nostre. La seconda. Tra le motivazioni del trasferimento al Nord per ragioni di studio c’è la questione della qualità dell’insegnamento. Si asserisce che le università settentrionali siano migliori di quelle al Sud. Si tratta di una verità scientificamente riscontrata o siamo al luogo comune? Delle due, l’una. In Campania sono operative sette università statali, con sedi sparse in tutto il territorio regionale e con 7.774 unità di personale docente e ricercatori; in Basilicata una università statale con 457 docenti; in Calabria tre università statali con 2.045 docenti; in Puglia cinque università statali con 3.982 docenti (fonte: ibidem). Se fanno tutte schifo per cui gli studenti, al pari dei malati, devono andare al Nord a curare la loro istruzione, a cosa serve tenere un esercito di incapaci a libro paga dello Stato?

Se non funzionano, le si chiuda. Se, al contrario, c’è tanta qualità nelle università del Mezzogiorno quanto ve ne è in quelle del Nord, allora l’emigrazione non si giustifica. E il fatto che gli studenti emigrati con le loro necessità abitative contribuiscano ad accrescere la domanda di alloggi al Settentrione e, di conseguenza, a fare lievitare l’offerta, non deve essere motivo di encomio, ma ragione di riprovazione se ciò si traduce in danno effettivo per chi, incalzato da necessità lavorative, è costretto a stare al Nord. Rivendicare un diritto è giusto, pretendere un privilegio non è cosa che l’Italia possa permettersi di questi tempi. Ragione per la quale raccomandiamo ai ragazzi temporaneamente attendati nei giardini universitari di passarsi una mano sulla coscienza e decidere chi essere, se studenti volenterosi degni di ogni aiuto o scrocconi che abusano delle tasche e della pazienza altrui.

Aggiornato il 19 maggio 2023 alle ore 10:16

Giornate di lotta, d’amore e d’anarchia al Camping La Sapienza

di

Cristofaro Sola

Inondazioni

E non basta: le buone notizie ovvero quelle che fanno giustizia di un catastrofismo datato vengono nascoste in qualche modo dai report, ma sono completamente eliminate dal Summary for Policymakers (SPM) ampiamente distribuito, rivolto a decisori ignari (forse) di come vengano formulate ipotesi climatiche spacciate per verità accertate. Tanto per uscire dal discorso astratto per quanto riguarda le inondazioni ad esempio, il rapporto IPCC AR6 ovvero l’ultimo uscito sostiene – con “scarsa fiducia” , ovvero poche probabilità – che gli esseri umani vi hanno contribuito, ma il Summary for Policymakers dice esattamente il contrario ossia che l’influenza umana ha aumentato le inondazioni. Dunque abbiamo due livelli: uno che in qualche modo manipola lo stato effettivo della ricerca, preparando il terreno di coltura delle grandi menzogne, mentre il secondo più rivolto agli ambiti politico – amministrativi completa l’opera, eliminando qualsiasi dubbio.

La grande scacchiera

Ankara sotto Erdogan, allo stato attuale, non è filo-russa; essenzialmente, cerca di trarre profitto da entrambe le parti. I turchi vendono droni Bayraktar a Kiev, hanno concluso accordi militari e allo stesso tempo, sotto il mantello degli “Stati turchi”, investono nelle tendenze separatiste in Crimea e a Kherson.

Allo stesso tempo, Erdogan ha estremo bisogno della cooperazione militare ed energetica russa. A Mosca non si fanno illusioni sul “Sultano” o sulla direzione che sta prendendo la Turchia. Se la svolta geopolitica di Ankara sarà ostile, saranno i turchi a perdere i primi posti nel treno eurasiatico ad alta velocità, dai BRICS+ all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) e tutti gli spazi intermedi.

Pepe Escobar è un analista geopolitico e autore indipendente. Il suo ultimo libro è Raging Twenties. È stato politicamente cancellato da Facebook e Twitter. Seguitelo su Telegram

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/mosse-audaci-sulla-scacchiera-dell-asia-occidentale

Nuova normalità

L’Italia è un Paese teatrale dove il peggio della narrazione occidentale può essere espresso senza che esso metta in luce la plumbea realtà in cui giace l’occidente prigioniero di se stesso, dei propri miti e delle proprie bugie. Così Zelensky nella sua visita pastorale a Roma ha finalmente potuto essere il guitto che è: invece di mettere l’usuale giacca e cravatta con bandierine sparse, usata nei Paesi che contano qualcosa e dove le sceneggiate danno una cattiva impressione, ha voluto sfoggiare uno di quegli abiti di scena l’abito di scena che preferisce e che ha ritenuto adatto all’occasione. Sia dal Papa che dalla Meloni si è presentato con un maglione nero che sembrava preso da un museo della Decima Mas, o magari dal reparto stile di Casa Pound, arricchito da ben due emblemi nazisti della seconda guerra mondiale che poi sono diventati il simbolo della Organizzazione dei nazionalisti ucraini, ossia di fatto i neonazisti di di Kiev.

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Controstoria

Ho cercato di sottrarmi alla tentazione di scrivere qualcosa nel giorno della vittoria sul nazifascismo perché solo sfiorare l’ipocrisia dell’occidente rischia di lasciare tracce maleodoranti. E tuttavia capitandomi di leggere stupidaggini e banalità dovunque – alla fine non ho resistito a mettere in evidenza una cosa: se fino a una quindicina di anni fa ci poteva chiedere per quale motivo il contributo alla vittoria della Russia – anche se come Urss – sia stato essenziale e assolutamente decisivo venisse scandalosamente marginalizzato. Oggi la questione va inquadrata in tuttì altro modo: gli alleati ovvero gli Usa più la languente Gran Bretagna non combatterono davvero il nazismo che anzi fu aiutato in ogni modo possibile e immaginabile durante la sua ascesa e poi con il riarmo: la guerra vera era contro il socialismo che rischiava di creare gravi difficoltà al capitalismo. I documenti che via via emergono e ‘insolita conduzione della guerra ci fanno comprendere come l’impero anglosassone si volesse servire della Germania per indebolire la Russia e in seguito balzare alla gola sia di Mosca che di Berlino, ovvero di due Paesi logorati dalla reciproca guerra. Dal momento che l’incubo delle elite anglosassoni era un’alleanza tra Germania e Russia si doveva necessariamente puntare su personaggi border line oltre che seguaci di teorie dello stato razziale.

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Schiavi senza saperlo

Fonte: Andrea Zhok

Abbiamo visto:

  • gente che si compiaceva di vietare a concittadini sani di entrare nei negozi, nei bar, nelle università, negli uffici pubblici;
  • gente che bullizzava minoranze ragionevolmente dubbiose come fossero cani in chiesa – anche in prima serata TV;
  • gente che ti spiega che i neonazisti se sono benedetti dalla Nato, diventano amanti della tradizione runica e lettori di Kant (niente di nuovo sotto il sole peraltro, da quando Pinochet era venduto come alfiere delle libertà occidentali);
  • gente che ogni santo giorno si spella le mani in applausi quando i media mettono la museruola a chiunque si esprima fuori dal perimetro di regime e i social media a base USA chiudono siti sgraditi;
  • gente che approva ogni livello di razzismo culturale purché rivolto a chi viene di volta in volta dichiarato cattivo dalla TV (la barbarie dei russi, la barbarie degli iraniani, la barbarie dei nord-coreani, ecc.);
  • gente che quando la violenza più repellente sugli inermi viene esercitata dai propri alleati, che siano pestaggi nelle chiese ortodosse ucraine o nelle moschee di Gerusalemme, fischietta e gira a largo (“may be sons of a bitch, but they are our sons of a bitch”);
  • gente che se non tradisce almeno tre volte la Costituzione prima di colazione non digerisce bene (e così, dopo aver legittimato i TSO per interesse politico, oggi alimenta in maniera vigliacca ed anticostituzionale una guerra altrui, prendendo le parti di chi gli viene ordinato di sostenere);

Ed oggi una bella fetta di questi soggetti discriminatori, questi bulli prepotenti, questi simpatizzanti dei nazisti buoni, questi amanti della censura, questi razzisti culturali, questi guerrafondai a gettone saranno in prima fila sotto le bandiere dell’antifascismo.
Un po’ come Hannibal Lecter che guida le celebrazioni vegane.