Il saccheggio

Non ci vuole tanto per capire che l’immigrazionismo è un fatto ideologico voluto dalla finanza apolide internazionale per terminare il bel lavoro che hanno fatto sul nostro paese: spossessarci dell’IRI e del comparto industriale nazionale, per sostituire quello che sarebbe stata la multinazionale di stato più ricca del mondo entro il 2023 – dixit studio dell’OCSE – con le altre sorellastre, quelle private, oberarci di sensi di colpa per avere secondo la stessa ideologia “speso troppo” negli anni 70 e 80, ucciderci i personaggi di spicco che davano fastidio, Mori, Mattei, Falcone e Borsellino, tra i più insigni, e così via dicendo adesso tocca a piccoli commerci, artigiani, proprietari e tra un po’ toccherà a notai,  liberi professionisti e a tutti coloro che sono considerati “privilegiati”, parlamentari compresi, alla fine divoreranno anche i magistrati,  molti dei quali complici della finanza e dell’immigrazionismo, pensano che loro “se la caveranno”.

Comunque sia, quello a cui abbiamo assistito oggi è propaganda in atto. Ai piani alti, all’UNHCR hanno deciso che noi – Italia- “per denatalità” abbiamo “bisogno” di importare circa 400000 immigrati l’anno, scritto nero su bianco in tutta una serie di papers, studi e documenti prodotti negli anni! Invece di pensare a incoraggiare la maternità, gli asili nido, la domanda interna, il pil, e tutte quelle misure da noi considerate l’abc per rilanciare la crescita, no, costoro pensano di strozzarci di austerity e poi di riempirci di africani, cinesi ecc, che a loro volta scappano – o provengono – da paesi che crescono al 6% ma di cui non possono godere appieno – perché a goderne devono essere i coloni –  affinché noi che cresciamo allo 0.2% cediamo ancora gli ultimi “schifosi” privilegi che ci rimangono per essere nati bianchi e nella parte “ricca” del mondo, che poi sono i diritti basilari dell’uomo, una casa, un lavoro, una pensione, vitto, salute, istruzione, maternità, che noi avevamo ereditato corredati di un patrimonio messo in valore dai  nostri avi.

Tutto questo perché a chi sfrutta l’Africa, e la sfrutterà sempre di più, fa piacere che alcuni paesi africani  vengano svuotati demograficamente, due piccioni con una fava si possono colonizzare meglio facendone scappare i giovani e la classe media europea abbassa la cresta, non rischierà di andare a fare, diciamo così, competizione con l’elite del mondo. Poi con l’ECO la nuova valuta che sostituirà il franco CFA, e che toglie le riserve alla Francia, significa solo che l’elite francese si prende la torta per sé e invece di cederla al Tesoro francese – come avviene da 75 anni – e quindi putativamente al popolo francese,  la suddividerà direttamente con i suoi amichetti sinorotschildiani, visto che l’ECO sarà agganciato a un paniere di valute di cui il remnimbi.

Le Monde

« Ce n’est pas parce que je suis aphone que je n’ai pas envie de crier » : à Paris, une partie des grévistes rejette la trêve mais redoute les vacances

La décision du syndicat UNSA-Ferroviaire d’une trêve à Noël n’est pas populaire parmi les grévistes mobilisés. Fatigués mais déterminés, ils comptent sur des actions fortes pour faire exister la mobilisation pendant les vacances.

Par et Publié aujourd’hui à 04h02, mis à jour à 07h02

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Aurélie, à droite, est bibliothécaire à la BPI du Centre Pompidou. Elle explique le 11 décembre les raisons de la fermeture aux visiteurs.
Aurélie, à droite, est bibliothécaire à la BPI du Centre Pompidou. Elle explique le 11 décembre les raisons de la fermeture aux visiteurs. JULIEN MUGUET POUR « LE MONDE »

Les visages sont un peu froissés, les voix s’éraillent. Les blocages des dépôts de bus aux aurores, les AG du matin au soir, les kilomètres à pied ou à vélo pour participer aux actions : deux semaines de grève laissent des traces. « On est super fatigué, on perd notre voix, notre argent, confie Aurélie, salariée à la bibliothèque publique d’information (BPI) du Centre Pompidou à Paris. Mais ce n’est pas parce que je suis aphone que je n’ai pas en vie de crier ! Nous sommes toujours aussi déterminés. »

Comme Aurélie, aucun des grévistes que Le Monde a rencontrés aux premiers jours du conflit n’a raccroché les gants. Si la CGT-Cheminots a appelé à reconduire la grève pendant les fêtes, l’UNSA-Ferrovaire, deuxième syndicat de la SNCF, constatant « une position d’ouverture du gouvernement qui propose, pour la première fois, des avancées notables », a appelé à une trêve pour les fêtes, jeudi 19 décembre. L’idée n’était pas populaire dans les AG parisiennes, vendredi matin. Y compris chez les membres de l’UNSA. « On est autonome, donc nous, on continue, expliquait ainsi Daniel Teirlynck, délégué UNSA Paris sud-est. On ne comprend pas la stratégie de notre bureau fédéral, on n’arrête pas le combat en plein milieu ! »

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A gare de Lyon, comme dans les AG de cheminots à Saint-Lazare, gare de l’Est ou Austerlitz, discours et communiqués faisaient primer « la base ». « Je me contrefous de ce que pensent les responsables syndicaux, lançait gare de Lyon, le délégué SUD-Rail Fabien Villedieu. Ce qui m’intéresse c’est ce que pense la base, ce que vous pensez vous, pas celui qui a été dans le bureau du premier ministre ! »

Car il n’y avait pas que la « trêve » de l’UNSA qui faisait l’unanimité contre elle. Beaucoup déploraient aussi l’appel de l’intersyndicale (CGT, FO, FSU, Solidaires, Fidl, MNL, UNEF, UNL) à une nouvelle manifestation interprofessionnelle le 9 janvier, dans près de trois semaines. « Le 9 janvier, ça a foutu le bordel !, a ainsi attaqué en assemblée générale Bérenger Cernon, délégué CGT. Y a des choses qui vont se passer avant ! C’est hors de question qu’on fasse une pause jusque-là ! »

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Piquet de grêve devant la BPI, le 11 décembre.
Piquet de grêve devant la BPI, le 11 décembre. JULIEN MUGUET POUR « LE MONDE »

« La lutte c’est tous les jours »

« Cette date du 9 janvier, c’est un mépris total pour ceux qui vont perdre de l’énergie et des journées de salaires d’ici là. La lutte c’est tous les jours ! », déplore également Aurélie, la bibliothécaire. Elle, comme d’autres, restera donc mobilisée pendant les fêtes.

Racconto di Natale

Non un’eredità originale. Quasi tutti i sessantenni, settantenni o giù di lì hanno avuto uno zio fascista. Normalmente definito: “fascistone”. Almeno uno. Il più delle volte quello zio fascista è già morto, per l’inevitabile trascorrere del tempo. Ammesso che già non fosse morto, o morto ammazzato finita la guerra.

Ovviamente, mica si trova più vivo uno che abbia fatto la “Marcia su Roma”. Al massimo qualche ultranovantenne i Littoriali del ’40, anno XVIII E.F., il balilla o l’avanguardista. Però di lui, o di loro, a volte si ricordano alcune caratteristiche, certi discorsi. Prima importante differenza: lo zio poteva essere un “pentito”, del 25 luglio ’43 o del 25 aprile ’45, sincero o meno non importa. Se era poi diventato comunista, tale lo era stato sempre, senza discussioni, dentro le strutture del fascismo stesso, solo per sottile propaganda contro il regime, insomma per sabotaggio.

Oppure poteva essere uno che, pur senza far discorsi altisonanti, lo ammetteva, senza ipocriti pentimenti. Non rinnegava nulla col senno del poi. In tal caso è più facile fosse di fatto emarginato dal resto della famiglia, per piatto conformismo, non tanto per “antifascismo militante”, a meno che il suo patrimonio giustificasse il classico, italianissimo “turiamoci il naso e frequentiamolo!”

Sto parlando degli anni settanta, più o meno, non di oggi. Quando i “ragazzi di Salò”, alla Mazzantini o Accame, avevano meno di cinquant’anni. Quando il “babau” fascista faceva firmare agli “intellettuali” (sempre gli stessi, basta andare su Google e cercarli) un “manifesto  democratico ed antifascista” al giorno.

Io, come tanti, avevo qualche “zio fascista”, anche se non aveva ricoperto cariche importanti nel Partito. Uno non lo conobbi.

Ivo era, infatti, un delicato poeta di origine sarda, piccolo e bruno, in corrispondenza con Ardengo Soffici ed altri illustri scrittori, con quindici anni più di mia zia paterna Maria, fatto prigioniero dagli austriaci sul Carso nel ’17, prima di Caporetto, e mandato al famigerato campo di  Mauthausen. Sulle sue vicende e sofferenze scrisse poi un libretto a stampa che ancora ho. Assieme ad un suo libro di liriche d’ispirazione crepuscolare, “Il cuore di allora”. Però, per la fame subìta e le percosse col calcio del fucile, egli perse un polmone ed ebbe altri danni. Tornò in Italia quando era allo stremo delle forze, più morto che vivo, grazie ad un interscambio di prigionieri. “Grande invalido di Guerra”, impiegato di banca. Morì nel ’37 a quarant’anni, neppur compiuti, quando il polmone rimasto, male in arnese, non ne volle più sapere di lavorare per due.

Lasciò una vedova di 25 anni che si consolò più tardi sposando un ufficiale (di complemento) della Regia Marina con vent’anni più di lei, fratello di un ufficiale dell’Esercito, Capo di Gabinetto di De Vecchi, Governatore del Dodecanneso. Trovandosi a La Spezia l’8 settembre del ’43, il marito venne arruolato come istruttore nella X MAS di Junio Valerio Borghese e si salvò poi per un pelo.

Un altro era stato nella MVSN. Più fascisti ce n’erano tra i prozii ed i cugini in secondo grado. Uno, zio di mia madre, era stato podestà di un paese dell’astigiano e, grazie a lui, dicevano, era arrivata l’acqua corrente. Seppure un fratello di mia madre non volle mai prendere la tessera del PNF, e rinunciò così ad un buon impiego pubblico, in gran maggioranza erano stati fascistoni, o più o meno fascisti. Non ci fu neppure un partigiano in famiglia, solo un internato in Germania! Sì, ci fu una vittima, una ragazza di diciassette anni, assassinata nella vigna di famiglia, nell’astigiano, dopo il 25 aprile, forse da un innamorato respinto, forse per avere lei sorriso ad un soldato tedesco. Nessuno indagò.

Gli altri di riffa o di raffa la sfangarono, anche se il loro futuro non fu normalmente brillante. Erano rappresentanti di commercio per lo più. Se la passavano quasi tutti maluccio, a parte certi ricchi parenti acquisiti. Che ricchi lo erano già prima, non lo erano certo diventati col fascismo… Del passato non parlavano. Il loro partito di riferimento divenne, normalmente, la Democrazia Cristiana, che ad ognuno presentava un aspetto diverso o quello che uno voleva vederci. Non per tutti. Un mio zio, si presentò candidato alle elezioni del 1953 per i monarchici del PNM, stella e corona. Ebbe pochi suffragi. Neppure i parenti lo votarono!

“Questi sono uguali a quelli di prima. Solo che hanno la camicia nera più lunga!”, era un commento che noi bambini sentivamo tante volte negli anni cinquanta. In effetti, finiti gli eccidi partigiani, definito il ruolo dell’Italia nella NATO e nello scacchiere internazionale con la “Cortina di Ferro”, vinte le elezioni del 18 aprile 1948, la DC prese in mano il timone del Governo e la burocrazia del vecchio Stato, con in suoi difetti, ma la sua competenza, riprese a lavorare come sapeva. In tredici anni di scuola pubblica, mai i miei maestri e professori scioperarono un giorno! Mai, neppure uno.  In compenso ci facevano marciare come i balilla di un tempo. Un blando “premilitare”. Ed era tutta la nostra Educazione Fisica, di noi maschietti, perchè le femminucce delle Elementari manco quello facevano, credo.   

Però, in quel panorama abbastanza grigio e piatto, una figura dissonante emerse, quella dello zio Gilberto. Combattente nell’Africa Orientale Italiana, prigioniero all’Amba Alagi nel maggio 1941 con il Duca d’Aosta e tutto il contingente italiano di settemila uomini, áscari compresi, che, ormai ridotti alla fame si dovettero arrendere, con l’onore delle Armi, ai 41.000 effettivi dell’Esercito Britannico, composto quasi interamente da indiani, etiopici e sudafricani. Trattati malissimo.

Il Duca Amedeo d’Aosta non tornò vivo in Italia, morendo di tisi e malaria a Nairobi nel marzo ’42. Zio Gilberto venne rinchiuso nel campo di prigionia britannico a Nanyuki, in Kenya, alle pendici dell’omonimo Monte, di cinquemila metri d’altezza. Ma sopravvisse e nel 1947 era finalmente di ritorno, quando pochi ormai lo davano per vivo. Rimase a Torino per tre-quattro mesi e poi ripartì. Riuscì, chissà come, a tornare in Etiopia, dove si stabilì e quasi non fece più avere notizie di sé.

Fino al 1974, quando prese il potere ad Addis Abeba il marxisteggiante Mengistu, il capo dei giovani ufficiali del Derg, che fece imprigionare e poi uccidere il Negus Hailé Selassié, che sempre aveva protetto gli italiani dell’Impero. L’aria per gli italiani, seppur non formalmente espulsi, ma ai quali venivano confiscati molti beni, divenne irrespirabile. Le persecuzioni, le requisizioni, le arbitrarietà burocratiche erano divenute quotidiane, insopportabili. Cosicché un giorno del 1976 arrivò un telegramma a mio padre dal fratello che non rivedeva da quasi trent’anni:

“Causa noti eventi, farò rientro in Italia con mia famiglia prossima settimana. Ringrazio anticipatamente per appoggio e temporanea ospitalità. Gilberto”.

Il telegramma gettò nella incredulità e poi nella costernazione la mia famiglia. Dal 1947 non sapevano praticamente nulla di lui, né che si fosse sposato. Aveva mandato due o tre cartoline di Buon Natale in trent’anni.

– “Si è ammalato di mal d’Africa. Succede”, aveva tagliato corto mio padre, che mai era stato particolarmente legato al fratello, quando chiedavamo sue notizie. Si era “insabbiato”, come tanti.

Adesso, però, zio Gilberto, spinto dalle circostanze, tornava. Con moglie e, probabilmente, dei figli. Quanti? Di che colore? Che cosa avrebbero fatto in Italia? Dove li avremmo provvisoriamente sistemati?

Una crescente agitazione s’impadronì di mia madre. Mio padre ostentava maggior sicurezza o spirito fatalistico. Era imbarazzato, tuttavia considerava suo dovere assistere il fratello in difficoltà. Ne aveva già passate tante, povero Gilberto, che ci mancava solo quest’ultima,  pensava e commentava.

Giunse il giorno dell’arrivo dei profughi, in treno, dopo essere atterrati a Roma. Mio padre non rivedeva il fratello da ventinove anni e per tutto quel tempo neppure aveva ricevuto delle sue fotografie. Essendo zio Gilberto del 1920 i conti erano presto fatti. Aveva già cinquantasei anni.

Eravamo tutti curiosi e tesi all’inizio del binario undici della stazione di Porta Nuova, aspettando il treno proveniente da Roma. Finalmente il convoglio arrivò, cominciarono a scendere i passeggeri, fino a che un gruppo alquanto numeroso non ci fece sospettare il peggio, che puntualmente si confermò.

Guidato da un cinquantenne brizzolato di bella presenza e dalla moglie abissina, con circa  vent’anni di meno, seguivano i genitori ben sette tra maschi e femmine. Di tutte le età. Dopo un po’ d’incertezza e l’abbraccio di rito, zio Gilberto si volse alla figliolanza:

– Questi sono gli zii ed il cugino Paolo di Torino, dei quali vi ho già parlato.

– Te li presento, Alfonso – disse quindi a mio padre.

– Vittorio, di quattordici anni – Vittorio avanzò, inchinò rispettosamente il capo e sbattè i tacchi, all’uso militare, in silenzio, poi retrocedette senza voltarsi.

– Bruno, di dodici – Con analogo inchino e sbatter di tacchi.

– Edda, di dieci – Avanzò come i fratelli, piegò la testa bruna, senza sbattere i tacchi.

– Romano, di otto. Ed a quel punto ricominciarono inchini e sbatter di tacchi sulla pensilina. La gente ci guardava, mia madre era rossa in viso.

  Arnaldo, di sette. Come sopra.

  Annamaria, di cinque – senza sbatter di tacchi.

  Rachele, di quattro.

  Per ora abbiamo finito. Salutate:

  Buona sera, zii, grazie! – tutti i bambini all’unisono.

– Riposo, ragazzi.

La faccia di stupore, tra il rosso ed livido, lo sbigottito e l’incredulo di mia madre, muta come un pesce, era da pittura di Goya.

– Mia moglie, Abebech, Abe per la famiglia, anche lei, per fortuna, sopravvissuta al “Terrore Rosso” scatenato da quel pazzo criminale di Menghistu. Suo padre è stato ucciso perché faceva parte della Casa Imperiale. Mia suocera è ancora ad Addis Abeba, ma spero possa raggiungerci

presto.

Mia madre si presentò e baciò nuovamente la cognata.

– Dove li mettiamo tutti a dormire? – le sentii sussurrare, preoccupatissima, a mio padre.

– Non lo so. Ci aggiusteremo.

Fu l’inizio di un divertente inferno. Io, con la scusa di lasciare spazio libero, mi trasferii subito a casa di amici.

Il racconto dei primi giorni della famiglia africana di zio Gilberto a Torino, fattomi da mio padre, che non perdeva mai un fondo ironico e disincantato, era magnifico:

– Per tuo zio Gilberto il tempo si è fermato. Non capisce l’Italia di oggi. Ha dato ai figli tutti i nomi dei figli e fratelli del Duce. Ignora il lei ed usa soltanto il tu ed il voi. Non fa il saluto fascista, per fortuna, ma non dà la mano a nessuno. In famiglia vige un regolamento militare. Quando escono con il padre, i figli marciano inquadrati in fila per due. I maschi vestiti tutti allo stesso modo, con una specie di divisa da boy-scout, le femmine pure, da Piccole Italiane, con camicetta bianca e gonna nera. Li guardano tutti. Per fortuna hanno fatto la Scuola Italiana ad Addis Abeba e non dovrebbero avere difficoltà ad inserirsi nella scuola di qui…

– Come dormite?

– Abbiamo tirato fuori i letti pieghevoli, i materassini da spiaggia, una brandina ce l’ha prestata la vicina del piano di sotto, un’altra, la signora vedova del sesto. Nel tuo letto, che è grande, abbiamo sistemato gli zii. I bambini sono sparsi ovunque. Bambini meravigliosi, obbedienti. Quando li si chiama rispondono subito: “comandi, papà, o comandi, zio!”. Ai maschi il padre non esita a minacciare il courbash, una specie di frustino di pelle di rinoceronte. Non credo proprio ne abbiano bisogno. Forse l’han sentito sulla pelle solo una volta e neppure tutti. Solo a sentir nominare quello strumento i bambini impallidiscono!

– Mamma mia!

– Come profughi hanno la precedenza nell’assegnazione di una Casa Popolare. Dovrebbero, han detto a Gilberto, dargli anche una licenza per una rivendita di Sale e Tabacchi. Speriamo presto.

– Lo zio è riuscito a portare con sé un po’ di soldi?

– Quasi nulla. Ad Addis Abeba aveva un’officina meccanica con quindici operai, una casa grande con parco, una Mercedes. Tutto perduto.

– L’Africa non gli porta fortuna.

– No, eppure, spera di poterci tornare presto. Ne è sempre innamorato. I bambini sono belli, quasi bianchi. Non dovrebbero avere problemi particolari d’inserimento.

– Ma dev’essere duro per loro essere costretti tra quattro mura…

– Lo immagino. Per giunta l’educazione fascista ricevuta in casa… Per fortuna i nomi non sono troppo compromettenti.

– In questo casino italiano se la dimenticheranno presto.

– Lo credo anch’io.

Passarono i mesi. Gli zii ottennero l’appartamento, sia pure piccolo per tutta quella nidiata, alla quale si aggiunse pure un’ottava figlia, Edvige, sempre per mantenere la tradizione mussoliniana tanto cara allo zio. Arrivò anche la licenza per la rivendita di Sale e Tabacchi. Io potei tornare a casa, dopo sei mesi.

Zio Gilberto e zia Abe non rividero mai più l’Etiopia. Zio Gilberto se ne andò ad ottantacinque anni, già diverse volte nonno, dopo aver coltivato fino alla morte la speranza di tornare nella “sua Africa”. Volle essere sepolto con la camicia nera. Lui era un “irriducibile”, anche durante la prigionia in Kenya. Per questo gli inglesi ed i servi degli inglesi lo avevano trattato peggio di un cane rognoso. Senza piegarlo mai.

Zia Abe continua a vivere a Torino con una figlia sposata. Sono diventati tutti torinesi, addirittura eccessivi. Mi risulta sempre divertente sentirli parlare in dialetto con i loro tratti esotici da “Faccetta Nera”, sia pur scoloriti per il… subalpino freddo!

Le bambine di un tempo, crescendo si son fatte bellissime. Ed intelligenti. In tre hanno frequentato  l’Università di Medicina, specializzandosi in Cardiologia, Oncologia, Endocrinologia. La più piccola si è laureata in Lettere. I maschi son diventati ingegneri, tutti.

Africa Orientale Italiana (A.O.I): 1936-1941

Ognuno ha trovato un suo spazio nella vita, senza raccomandazioni, per merito proprio.

RaccontoDi#Natale. Mio zio Gilberto, combattente fascista in Africa Orientale

Mediterraneo

“Ve l’abbiamo detto”, in un altro caso in cui lo Stato Maggiore russo diceva al Cremlino che armare il capo turco Recep Tayyip Erdogan mette a rischio gli interessi strategici della Russia, la Turchia firmava un piano per estendere il controllo del fondale marino del Mediterraneo verso sud, fino alle coste libiche. La controparte turca, il governo di accordo nazionale (GNA) guidato da Fayaz al-Saraj, viene inoltre rifornito di armi, veicoli, droni e ordigni turchi. Ciò nonostante, il GNA non controlla granché delle coste e ancor meno l’entroterra della Libia. Contro il GNA, i militari russi, il Ministero degli Esteri e il Cremlino appoggiano la fazione libica rivale, l’Esercito nazionale libico guidato da Qalifa Haftar. Questa non è una novità. Oggi Haftar controlla più la Libia, comprese le coste, che al-Saraj. Il nuovo problema russo è che lo spiegamento turco del sistema missilistico S-400 può essere usato per far valere la nuova rivendicazione territoriale turca. Ciò minaccia direttamente Cipro, Grecia ed Egitto. I primi due volevano e firmavano accordi per diventare protettorati statunitensi; il terzo cerca la protezione di Stati Uniti e Russia, un gioco che i regimi di Cairo giocano senza successo dai tempi di Gamal Abdal Nasser. La ragione del fallimento strategico dell’Egitto è che era contro Israele, un nemico diverso dai turchi. Israele spara per primo; i turchi bluffano.

Il nuovo furto del sultano è il Mediterraneo

Esuli Giuliani

Egea Haffner è la famosa bambina con la valigia di cartone e la scritta «Esule giuliana».

Per tutti gli esuli giuliani rappresenta una tragedia dimenticata e un crimine contro l’umanità sempre negato dalla sinistra nostrana: quello delle Foibe.

Egea Haffner é ancora in vita e nessun Presidente l’ha nominata Senatore a vita

LA STORIA DI EGEA SOPRAVVISSUTA ALLA TRAGEDIA DELLE FOIBE

«Sono proprio io la bimba con la valigia! Oggi vivo a Rovereto, grazie per avermi ricordata». Così, grazie ai social network, la bambina con la valigia, ormai foto simbolo dell’esodo giuliano-dalmata, trova un nome e un cognome.

… Egea Haffner è nata a Pola, Italia, nel 1941, sei anni prima del grande esodo che nel 1947 vide fuggire la quasi totalità dei 30mila abitanti della città, costretti all’esodo dalle persecuzioni di Tito, deciso a cancellare l’italianità dalle terre giuliane. Lei, però, fu costretta a partire già nel 1946: «Il primo maggio del 1945 – racconta infatti – la sera suonarono alla porta due titini, volevano mio padre. Lui chiese perché lo cercassero, ma i due lo tranquillizzarono dicendo che era pura formalità, dovevano condurlo al Comando per alcune informazioni.

Mio padre chiese se doveva portarsi dietro qualcosa, ma di nuovo lo rassicurarono, così uscì col vestito che indossava e una sciarpa. Sciarpa che giorni dopo i miei videro al collo di un titino… Da quella sera non seppi più nulla di lui. Avevo 3 anni e mezzo».Suo padre Kurt Haffner, 26 anni, probabilmente infoibato quella stessa notte nell’abisso di Pisino, era figlio di un ungherese di Budapest che a Pola – città mitteleuropea – aveva una gioielleria, e di una viennese, pasticcera a Pola. La mamma, Ersilia Camenaro, era invece figlia di un croato e di una istriana di Pisino:

«Sono e mi sento italiana – chiarisce Egea –, ma solo un ottavo del mio sangue lo è. Anzi, precisamente è istro-veneto». Sono i paradossi di quelle terre, da millenni crocevia di popoli che, incrociando i loro saperi, le hanno rese uniche per vitalità e fermenti culturali: «In casa parlavamo tedesco, italiano e ungherese».

Che colpa poteva avere il padre di Egea, con la sua oreficeria sulla via Sergia? Era italiano, era agiato e non era comunista, come migliaia di altri giuliani spariti nel nulla in quei giorni.

«I miei non si davano pace e speravano che lo avessero internato in qualche campo di concentramento. Per molti anni la nonna metteva da parte ogni sera un pezzo di pane, aspettando che facesse ritorno…».

Ma intanto bisognava scappare.

… Così diventavo l’esule giuliana 30.001». Un numero inventato per la foto, ma ancora più emblematico e straziante, perché «lo scrisse lo zio Alfonso per indicare il numero degli abitanti di Pola».

Una sorta di presentimento del fatto che presto la città intera si sarebbe letteralmente svuotata.

La bambina con la valigia ha poi proseguito quel percorso ad ostacoli che fu la vita di tutti gli esuli giuliani, portando sulle piccole spalle la guerra, la morte del padre, lo straniamento dell’esilio, il trasferimento da Cagliari a Bolzano e anni di ristrettezze in un retrobottega che fungeva da cucina e camerata insieme ai nonni e agli zii.

Ma come altri, ce la fece. Quel fotogramma, che porta sul retro la data, 6 luglio 1946, e il timbro del fotografo polesano di origini ungheresi Giacomo Szentivànyi, spuntò dai cassetti di famiglia quando il Museo della Guerra di Rovereto nel 1997 allestì una mostra per il 50esimo dell’esodo:

«Finalmente uscivamo allo scoperto! Ognuno di noi portò ciò che ci restava della nostra terra, io portai la mia foto di piccola orfana», il riassunto del dramma di un popolo.

Fonte:
https://www.avvenire.it/…/la-bimba-con-la-valigia-simbolo-v…

http://www.leganazionale.it/…/1039-la-pulizia-etnica-e-il-m…

L’Avana

Mi hanno sempre affascinato gli spruzzi del mare che si infrange sul muretto del Melecon e la storia di un popolo, descritto come fiero e dignitoso, che ha lottato contro l’imperialismo statunitense.
E così, per festeggiare il 40esimo anniversario di matrimonio, ho deciso insieme a mio marito, di andare a visitare la capitale di Cuba dopo un breve soggiorno sulle spiagge.
Il Melecon l’ho percorso, una domenica mattina, per un lungo tratto, circa 5 chilometri, dal quartiere Avedado all’Avana Vecchia. Più che una passeggiata è, eccezion fatta dell’ultima parte più frequentata, un percorso ad ostacoli disseminato di tombini aperti di dimensioni anche ragguardevoli, di voragini più o meno profonde, di lunghi tratti sconnessi in cui dell’asfalto resta un lontano ricordo.
Dall’altra parte della strada, cantieri che hanno tutta l’aria di essere fermi, propongono dai loro cartelloni progetti di grattacieli dalle architetture avveniristiche mentre si alternano sul lungomare edifici , che pur ostentando una loro originaria bellezza sono vittime di un profondo degrado dovuto ad una prolungata trascuratezza, e costruzioni minimali nate solo per dare ricovero, prive di qualsiasi testimonianza di amore verso di esse e di vita al loro interno, tranne che per poveri panni stesi penzolanti da finestre senza infissi che si affacciano sul mare come occhi perennemente spalancati.
L’Avana vecchia ripete lo stesso copione, tra marciapiedi dissestati o quasi interamente sbriciolati, buche e ruscelletti dovuti a perdite d’acqua dalla rete idrica (nella casa particular che ci ha ospitati l’acqua scendeva dal rubinetto in un sottilissimo filo) si possono ancora trovare, tra edifici cadenti ornati da matasse inestricabili di fili elettrici, scorci affascinanti con case in stile coloniale ben conservate, che spesso ospitano piccoli musei, mostre o librerie, viuzze pulite e aiuole con panchine.
Decine di minuscoli negozietti vendono gli stessi identici articoli, alcuni si improvvisano venditori esponendo una manciata di questi sui gradini delle strette e ripide scale negli ingressi, senza portoni, di palazzine fatiscenti.
Da turisti ci siamo sentiti un po’ fuori luogo e visti solamente come una macchinetta sputasoldi. Ogni pochi metri trovi chi ti vuole proporre dove andare a mangiare, a comprare sigari, chi ti propone taxi, cocotaxi, bicitaxi. Taxisti che mentre guidano attirano l’attenzione di chi cammina per strada suonando, praticamente in continuazione, il clacson dando vita a vere e proprie jam session.
Il tutto immerso nella luce abbacinante del sole caraibico, nel fumo dei tubi di scappamento di eroici veicoli che sfidano il tempo, in odori pungenti di urina e fognature, nelle note di musica che a un certo punto smetti di chiederti da dove provenga perché sembra far parte dell’aria che respiri.
Fuori città le immancabili baraccopoli stanno a testimoniare, insieme a chi ti ferma per strada per chiedere soldi, che L’Avana, in fondo, non è dissimile da tutte le altre capitali del mondo.
Fuori dal centro le auto che percorrono le strade diventano sempre più rare per lasciare posto a bus (cinesi) che trasferiscono turisti, a scooter, camioncini che trasportano persone, biciclette, carretti trainati da un cavallo.
In città svettano grattacieli di 20 piani, e anche più, che ospitano hotel, ma anche cliniche ospedaliere, ognuna dedicata ad una branca specialistica. Università e Casa degli Studenti sono imponenti.
Le fermate dei vecchi bus che arrancano faticosamente sono sempre affollatissime.
A parte alcune zone, come ad esempio la bellissima Avenida del Paseo e alcune parti della città vecchia, le strade non godono propriamente di un servizio di nettezza urbana.
Quello che viene citato dalle guide come “centro commerciale” è in realtà una anonima costruzione di architettura “moderna” con all’interno una salita vagamente elicoidale, dalla cui pavimentazione mancano alcuni piastroni, che porta ad un piano dove si trovano un negozio di articoli elettronici, uno di articoli per la casa – la maggior parte ancora imballati negli scatoloni impilati al centro del locale – , uno di abbigliamento, una pelletteria ed una profumeria. Nel bar mi dicono che si suoni musica jazz cubana.
Ma agli Avanensi sembra importare poco, specialmente ai giovani concentrati sui loro smartphone e sulla cura del loro aspetto, delle contraddizioni di questa città che vede Mercedes ultimo modello sfrecciare accanto a vecchie Lada, villette ben curate accanto a palazzine diroccate, preferiscono non pensarci stordendosi di alcool e musica, quasi ad impedire di svegliarsi da un sogno, quel sogno di giustizia sociale per cui ha dato la vita il celebrato Comandante Che Guevara, quel sogno con cui Castro ha vinto un braccio di ferro contro l’imperialismo statunitense facendo pagare il prezzo di quella vittoria al popolo cubano – lui non ha sofferto delle privazioni causate dall’embargo- , quel sogno che, a quanto pare, a Cuba non si è realizzato.

Fiorella Susy Fogli

Cambogia

Joseph Thomas, LDR, 6 dicembre 2019

Le nazioni del sud-est asiatico si sono unite negli sforzi per impedire un colpo di Stato appoggiato dagli Stati Uniti in Cambogia. Con una combinazione di divieti di viaggio e detenzioni in tutta la regione tra fine ottobre ed inizio novembre, il sud-est asiatico avrebbe contrastato i tentativi del fronte di opposizione appoggiato da Washington, il Cambodia National Rescue Party (CNRP), di “tornare” dall’esilio americano ed europeo in Cambogia, dove cercava di provocare disordini e seminare instabilità. Gli Stati Uniti cercano di spezzare, dividere e persino distruggere la crescente lista di nazioni dell’Asia che creano legami con Pechino a spese del primato sbiadito di Washington sulla regione Asia-Pacifico. La Cambogia è tra i più fedeli alleati di Pechino nel sud-est asiatico.

L’Asia si unisce contro l’interferenza degli USA

Gli imperi crollano sempre dall’interno

L’impero americano sta affrontando lo stesso identico problema, ma siccome il dollaro è la valuta di riserva mondiale, verrà semplicemente colpito più tardi.
Ecco perché il Dow Jones Industriale e lo S&P500 sono ai massimi storici nonostante le ultime bordate del presidente Trump nell’ambito della guerra commerciale con la Cina, mentre il tedesco DAX fa fatica a rimanere sui livelli massimi del 2018.
Il Dow Jones risente delle differenze nelle incertezze economiche e politiche tra gli USA e la Germania. Perché…
La notizia importante è che i partner di coalizione di Angela Merkel, i Social Democratici (SPD), hanno appena eletto un nuovo leader che è ostile al governo di coalizione, in quanto attribuisce alla Merkel la colpa del collasso elettorale del suo partito a livello nazionale. Questo mette il futuro politico della Merkel in pericolo o, come minimo, assicura che lei avrà meno controllo su un governo tedesco largamente paralizzato.
Negli ultimi mesi abbiamo visto in generale i mercati tirare un sospiro di sollievo dopo che la FED e la BCE si sono attivate per immettere liquidità. Ma questo intervento non risolve i problemi sottostanti, li rimanda soltanto, gonfiando per qualche altro mese la curva dei rendimenti, in questo caso degli Stati Uniti e della Germania.
Ma l’impulso reflattivo è ora dominante o è una semplice pausa tra crisi, come suggerisce Jeff Snider di Alhambra Partners?
Io propendo per la seconda ipotesi, dato che la FED continua ad accumulare Repo (pronti contro termine, NdVdE) sul suo bilancio, ormai più di 208 miliardi di dollari da settembre, e un’altra operazione Repo di 42 giorni ieri è stato sottoscritta per una quantità doppia dell’offerta.
Certo, potrebbe trattarsi di semplici trucchetti da fine trimestre, ma perché? E ci chiederemo le stesse cose quando questi Repo da 42 giorni scadranno a fine gennaio?
La vera domanda è che cosa sta spingendo le banche USA ad aver bisogno di così tanti dollari per mantenere liquidi i mercati. E perché tutti si sentono agitati dalla mancanza di dollari.
La risposta è che tutti si aspettano la stessa cosa, che qualcosa cambierà in maniera decisa, e quando lo farà tutti vorranno dollari, non euro, non sterline, yen o yuan
L’economia tedesca sta rallentando, lo fa da più di un anno.
E quando l’impulso reflattivo finirà, i mercati che non hanno toccato i massimi storici saranno molto più vulnerabili a un collasso. L’impero mercantilista multigenerazionale tedesco ha raggiunto il suo zenith. Non può più spingersi oltre senza cedere terreno politico al resto d’Europa o abbandonare proprio quella cosa che ha creato l’impero fin dall’inizio: l’euro.
Ecco il problema principale che sta al cuore del progetto europeo. E non può essere nascosto ancora a lungo.

http://vocidallestero.it/2019/12/06/la-germania-e-il-cuore-marcio-delleuropa/

Ciofeche

Con tardiva resipiscenza e a cose concluse, il Manifesto si chiede per firma di Alberto Negri, perché un Paese disastrato debba spendere 14 miliardi per dotarsi degli F35, l’ultima ciofeca dell’industria bellica Usa, il cui scopo non è quello di avere un caccia in grado di opporsi ai suoi avversari, che gli sono superiori in tutto, ma principalmente di sferrare il “primo colpo”, configurandosi  essenzialmente come un’ arma nucleare tattica destinata all’attacco, tanto che nella dottrina militare Usa l’ F35 essa dovrebbe operare sempre sotto la protezione di altri caccia da superiorità aerea. Naturalmente l’obiettivo del Manifesto non è tutta la disgraziata operazione che ci ha portato all’acquisto di questo aereo sulla quale il “giornale comunista” ormai solo nella più accesa fantasia, ha sempre traccheggiato in modo imbarazzante, ma di colpire i Cinque stelle una volta ferocemente contrari all’acquisto ma che oggi “voterebbero qualunque cosa pur di restare in sella”. Con l’aggiunta di voler fare un favore a Trump, quando tutti sanno che la vicenda F35 si è vergognosamente dipanata durante il regno di Obama, il grande buana bianco della “sinistra” di governo ancorché fosse nero.  Insomma mentre il Paese viene aggredito da ogni parte, dagli F 35 come dal Mes non si riesce ad uscire dalla polemica delle comari e dei vari clan di potere, cui corrisponde una risposta popolare debole, schizofrenica, quando non evasiva ed completamente eterodiretta .

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