Imparare dalla storia

Bene o male riuscimmo a rimanere in Somalia e l’unica personalità che i somali ricordano con affetto è il duca Amedeo D’Aosta, perché riuscì ad iniziare un percorso d’agricoltura più moderna e fondò fattorie sul modello europeo: conquistò i somali con l’evidenza dei fatti, non con i crocifissi o le boutade da operetta della diplomazia italiana. Quando fu preso prigioniero dagli inglesi (era il comandante supremo in Africa Orientale) fu trattato con i guanti dagli inglesi, che lo ritenevano più simile a loro che alle mezze cartucce del regime fascista.

 

Andammo in Libia, e per i primi vent’anni non sapemmo far altro che un milione di morti su una popolazione di 7-8 milioni di libici. Per loro fortuna una delle maggiori figure del Fascismo era un uomo diverso, che costruiva strade, case ed aeroporti senza vessare la popolazione locale: era Italo Balbo, che fu inviato in Libia. Balbo capì che, se voleva vivere in pace, non servivano i moschetti: attrasse intorno a sé la vecchia aristocrazia libica, degnandola di un ruolo anche nella nuova realtà ed il gioco gli riuscì.

Ma, Balbo, era contrario all’Asse con Berlino, era contrario ad una guerra contro l’Inghilterra e portava avanti, in Libia, una politica troppo personale, molto distante dalle velleità imperiali romane che non potranno – proprio per i vecchi problemi che Balbo indicava con arguzia – che arrendersi a centinaia di migliaia agli angloamericani, aprendo loro la via della Sicilia.

 

E’ interessante notare come, nel corso logorroico delle annose ed inconcludenti vicende italiane, le figure più nobili e lungimiranti scompaiano: è il caso del geologo Ardito Desio il quale, negli anni ’30, scoprì (lavorava per l’AGIP, appena fondata) in Libia enormi giacimenti d’acqua nel sottosuolo, che fu usata per l’irrigazione, poi Magnesio e Potassio e…petrolio. Portò a Mussolini la famosa “bottiglia” di petrolio – la ricerca del petrolio il Libia era iniziata nel 1929! – ma servivano trivelle più potenti, che gli americani già possedevano e che era possibile acquistare. Mussolini gli diede l’italianissima pacca sulla spalla e lo congedò con il fascistissimo “Bravo! Continua così!”. Ma non gli comprò le trivelle. La bottiglia di petrolio finì in qualche scantinato dimenticato, probabilmente insieme all’acqua di Lurisia ed al Barolo d’annata.

http://carlobertani.blogspot.com/2020/08/logorroica-italianita.html

la conclusione ( che neanche Bertani trae) è che chi è al potere non valorizza le persone, anzi cerca di sbarazzarsene (perché gli fanno ombra)

Parte prima

L’8 settembre 1943, con la logica premessa del 25 luglio, segna il ritorno alle Italie anteriori al 1861, coi loro particolarismi e i loro egoismi, e soprattutto con le loro classi dirigenti ben decise a reggersi in sella a qualsiasi costo, anche al prezzo del tradimento più ignominioso, accettando il ruolo sub-coloniale di chi governa, ma solo di nome, per conto di un potere estraneo, senza alcun riguardo per l’interesse effettivo del proprio popolo. La fuga di Pescara di Badoglio e Vittorio Emanuele III è la rappresentazione plastica di tale divorzio fra la classe dirigente e il popolo: l’una preoccupata solo di se stessa, l’altro abbandonato al peggiore dei destini.
Questa premessa e necessaria per capire come siamo arrivati alla situazione attuale. La Repubblica del 1946 nasce su un colossale inganno e una sistematica mistificazione, per nascondere a tutti, ma specialmente al popolo italiano, che l’Italia ha perso la sua sovranità, e più precisamente che la sua classe dirigente l’ha venduta in cambio del privilegio di restare formalmente al potere, ma in conto terzi. Perciò, da quel momento, è stata fatta una capillare e incessante opera di falsificazione della storia: i peggiori sono diventati i migliori, e viceversa. Nel campo della cultura, per esempio, i più servi, i più invidiosi e meschini, come Benedetto Croce, sono assurti alla gloria dei libri di testo, e celebrati come grandi personaggi; i più fieri e originali, come Giovanni Gentile per la filosofia e Gioacchino Volpe per la storia, sono stati condannati alla damnatio memoriae o, nel migliore dei casi, all’oblio, perché avrebbero dato ombra ai vincitori. La stessa cosa è avvenuto nella politica, nella pubblica amministrazione, nella magistratura, nell’impresa statale, nella ricerca scientifica, ecc. Quelli che potevano vantare un pedigree antifascista, magari raffazzonato all’ultimo momento, sono passati a ruoli dirigenti; quelli che non hanno voluto rinnegare il loro passato fascista sono stati emarginati o esclusi. Per non parlare dell’ambito governativo.
Togliatti, che prendeva ordini direttamente da Stalin e se ne fregava sia dei comunisti rifugiatisi in URSS durante il fascismo, sia dei soldati dell’ARMIR caduti prigionieri, è assurto al rango di grande statista; i partigiani comunisti, ladri, assassini e stupratori, promossi a eroi senza macchia e senza paura, con tanto di canzoncina pseudo patriottica, Bella ciao, da insegnare ai bambini nelle scuole; e le vittime di quei massacri, di quegli stupri, coperte di disprezzo e storicamente condannate senza appello. Silenzio di tomba, poi, sulle foibe e sul dramma dei profughi giuliani (è curioso: oggi che i profughi, anzi i falsi profughi, sono africani, quella stessa sinistra che allora accoglieva a sputi e parolacce gli istriani, i fiumani e i dalmati, oggi predica il dovere dell’accoglienza e dell’inclusione ad ogni costo). È stata una selezione all’incontrario: il servilismo al posto del merito, l’obbedienza canina al posto della indipendenza di pensiero e di azione. E così l’Italia si è trovato a essere governata da due poteri: uno apparente, la sua classe dirigente sempre più inefficiente, corrotta e ferocemente egoista, e uno reale, il potere politico e finanziario dei vincitori, che di quella classe dirigente si è servito, carezzandola nei suoi peggiori difetti e nei suoi vizi storici, per tenere l’Italia costantemente legata alla catena e con la museruola.
Bisogna pur dire, a questo punto, che nonostante il suo peccato d’origine, nel complesso la classe dirigente italiana si è sforzata, per due o tre decenni, di recuperare spazi di manovra, se non proprio di sovranità, in modo da tornare a svolgere una funzione utile non solo a se stessa, ma alla nazione: sempre però da parte di outsider e non di personaggi radicati nelle istituzioni, gente come Mattei, ad esempio, e non come Andreatta, tanto per fare un paio di esempi, l’uno in positivo, l’altro in negativo. Questi margini di autonomia guadagnati assai faticosamente e dietro l’apparente sottomissione al potere effettivo, si sono però gradualmente ristretti nel corso del tempo; la classe dirigente si è stancata di condurre questa politica del doppio binario e a un certo punto, forse anche dopo aver visto che chi non si piegava del tutto al potere effettivo, finiva male, in un modo o nell’altro (vedi i diversi casi di Moro e di Craxi), è tornata allo stile di Badoglio e alla tradizione dell’8 settembre: tutti a casa, e ciascuno per sé.

La Carta del Carnaro

Il seguente articolo è tratto dal magazine on-line di analisi dei temi economici e sociali del Circolo SO.R.E.L. (Quaderni di Socialità Responsabilità Economia Lavoro), che intende offrire uno strumento trasversale per attualizzare i temi della partecipazione, del lavoro, della produzione e della democrazia diretta.
Il Circolo SO.R.E.L. è presente anche su Facebook a questo collegamento.

Scisso tra il silenzio imbarazzato di molti e qualche flebile voce, interessata soprattutto alla dimensione estetica di quell’avventura, il centenario dell’impresa fiumana pare scivolar via senza che ci si ponga l’unica vera domanda che conta, se non si preferisce l’onanismo intellettuale alla capacità di trasformazione della realtà: a cent’anni dalla marcia dei legionari di Ronchi verso la “città olocausta”, qual è il lascito che può essere attualizzato di quell’esperienza?
A giudicare dall’urgenza delle sfide che la contemporaneità pone innanzi alle società europee, la Carta del Carnaro resta un faro che può illuminare la strada verso l’avvenire. In particolare, nel testo redatto da Gabriele D’Annunzio e da uno dei padri del sindacalismo rivoluzionario italiano, Alceste De Ambris, è soprattutto la carica social-rivoluzionaria a restare di cogente attualità. Già nel terzo articolo della Carta si definisce un concetto di sovranità inscindibile dalla dimensione sociale e dall’importanza del lavoro. «La Reggenza italiana del Carnaro è un governo schietto di popolo, “res populi” che ha per fondamento la potenza del lavoro produttivo», si legge. E, in un tempo in cui la terza età del capitalismo porta in dote disoccupazione strutturale e precarietà delle esistenze, non sarà inutile ricordare come tra le “credenze religiose” che chiudono la Carta del Carnaro (che nulla hanno a che vedere con le religioni, pur afferendo alla dimensione sacrale della vita) il lavoro è centrale perché «anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo». In una società in cui privatizzare è considerata una necessità e lo Stato arretra dinanzi all’aleatoria e prepotente aggressività del mercato, la Carta del Carnaro ci ricorda come lo Stato venga prima del proprietario, la comunità prima dell’individuo, la politica prima dell’economia. «Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro – recita il testo – Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale».
La Carta, poi, si apre con una dicitura significativa: “Della perpetua volontà popolare”. Oggi che esigenze e aspettative del popolo sono mortificate e la crisi della rappresentanza si mostra in tutta evidenza nelle degenerazioni dei sistemi capitalistici, si pone il dilemma di come costruire una diretta volontà popolare. Il binomio democrazia-liberalismo – imposto come elemento ineluttabile, come fosse un pleonasmo – va concettualmente spezzato. Ci può essere democrazia senza liberalismo, e su questo assioma va costruita l’alternativa. Ma non basta la denuncia intellettuale delle storture del presente – pur necessaria e auspicabile – per invertire la rotta. Servono competenze, alternative, proposte. Le sfide poste dall’automazione e dalla precarizzazione del lavoro, la mercificazione del mondo, la negazione del limite e la distruzione dei legami sociali, attendono risposte concrete, trasversali, radicali. Ma anche bagagli leggeri, menti aperte e una tremenda voglia di camminare.
Mario De Fazio

Racconto di Natale

Non un’eredità originale. Quasi tutti i sessantenni, settantenni o giù di lì hanno avuto uno zio fascista. Normalmente definito: “fascistone”. Almeno uno. Il più delle volte quello zio fascista è già morto, per l’inevitabile trascorrere del tempo. Ammesso che già non fosse morto, o morto ammazzato finita la guerra.

Ovviamente, mica si trova più vivo uno che abbia fatto la “Marcia su Roma”. Al massimo qualche ultranovantenne i Littoriali del ’40, anno XVIII E.F., il balilla o l’avanguardista. Però di lui, o di loro, a volte si ricordano alcune caratteristiche, certi discorsi. Prima importante differenza: lo zio poteva essere un “pentito”, del 25 luglio ’43 o del 25 aprile ’45, sincero o meno non importa. Se era poi diventato comunista, tale lo era stato sempre, senza discussioni, dentro le strutture del fascismo stesso, solo per sottile propaganda contro il regime, insomma per sabotaggio.

Oppure poteva essere uno che, pur senza far discorsi altisonanti, lo ammetteva, senza ipocriti pentimenti. Non rinnegava nulla col senno del poi. In tal caso è più facile fosse di fatto emarginato dal resto della famiglia, per piatto conformismo, non tanto per “antifascismo militante”, a meno che il suo patrimonio giustificasse il classico, italianissimo “turiamoci il naso e frequentiamolo!”

Sto parlando degli anni settanta, più o meno, non di oggi. Quando i “ragazzi di Salò”, alla Mazzantini o Accame, avevano meno di cinquant’anni. Quando il “babau” fascista faceva firmare agli “intellettuali” (sempre gli stessi, basta andare su Google e cercarli) un “manifesto  democratico ed antifascista” al giorno.

Io, come tanti, avevo qualche “zio fascista”, anche se non aveva ricoperto cariche importanti nel Partito. Uno non lo conobbi.

Ivo era, infatti, un delicato poeta di origine sarda, piccolo e bruno, in corrispondenza con Ardengo Soffici ed altri illustri scrittori, con quindici anni più di mia zia paterna Maria, fatto prigioniero dagli austriaci sul Carso nel ’17, prima di Caporetto, e mandato al famigerato campo di  Mauthausen. Sulle sue vicende e sofferenze scrisse poi un libretto a stampa che ancora ho. Assieme ad un suo libro di liriche d’ispirazione crepuscolare, “Il cuore di allora”. Però, per la fame subìta e le percosse col calcio del fucile, egli perse un polmone ed ebbe altri danni. Tornò in Italia quando era allo stremo delle forze, più morto che vivo, grazie ad un interscambio di prigionieri. “Grande invalido di Guerra”, impiegato di banca. Morì nel ’37 a quarant’anni, neppur compiuti, quando il polmone rimasto, male in arnese, non ne volle più sapere di lavorare per due.

Lasciò una vedova di 25 anni che si consolò più tardi sposando un ufficiale (di complemento) della Regia Marina con vent’anni più di lei, fratello di un ufficiale dell’Esercito, Capo di Gabinetto di De Vecchi, Governatore del Dodecanneso. Trovandosi a La Spezia l’8 settembre del ’43, il marito venne arruolato come istruttore nella X MAS di Junio Valerio Borghese e si salvò poi per un pelo.

Un altro era stato nella MVSN. Più fascisti ce n’erano tra i prozii ed i cugini in secondo grado. Uno, zio di mia madre, era stato podestà di un paese dell’astigiano e, grazie a lui, dicevano, era arrivata l’acqua corrente. Seppure un fratello di mia madre non volle mai prendere la tessera del PNF, e rinunciò così ad un buon impiego pubblico, in gran maggioranza erano stati fascistoni, o più o meno fascisti. Non ci fu neppure un partigiano in famiglia, solo un internato in Germania! Sì, ci fu una vittima, una ragazza di diciassette anni, assassinata nella vigna di famiglia, nell’astigiano, dopo il 25 aprile, forse da un innamorato respinto, forse per avere lei sorriso ad un soldato tedesco. Nessuno indagò.

Gli altri di riffa o di raffa la sfangarono, anche se il loro futuro non fu normalmente brillante. Erano rappresentanti di commercio per lo più. Se la passavano quasi tutti maluccio, a parte certi ricchi parenti acquisiti. Che ricchi lo erano già prima, non lo erano certo diventati col fascismo… Del passato non parlavano. Il loro partito di riferimento divenne, normalmente, la Democrazia Cristiana, che ad ognuno presentava un aspetto diverso o quello che uno voleva vederci. Non per tutti. Un mio zio, si presentò candidato alle elezioni del 1953 per i monarchici del PNM, stella e corona. Ebbe pochi suffragi. Neppure i parenti lo votarono!

“Questi sono uguali a quelli di prima. Solo che hanno la camicia nera più lunga!”, era un commento che noi bambini sentivamo tante volte negli anni cinquanta. In effetti, finiti gli eccidi partigiani, definito il ruolo dell’Italia nella NATO e nello scacchiere internazionale con la “Cortina di Ferro”, vinte le elezioni del 18 aprile 1948, la DC prese in mano il timone del Governo e la burocrazia del vecchio Stato, con in suoi difetti, ma la sua competenza, riprese a lavorare come sapeva. In tredici anni di scuola pubblica, mai i miei maestri e professori scioperarono un giorno! Mai, neppure uno.  In compenso ci facevano marciare come i balilla di un tempo. Un blando “premilitare”. Ed era tutta la nostra Educazione Fisica, di noi maschietti, perchè le femminucce delle Elementari manco quello facevano, credo.   

Però, in quel panorama abbastanza grigio e piatto, una figura dissonante emerse, quella dello zio Gilberto. Combattente nell’Africa Orientale Italiana, prigioniero all’Amba Alagi nel maggio 1941 con il Duca d’Aosta e tutto il contingente italiano di settemila uomini, áscari compresi, che, ormai ridotti alla fame si dovettero arrendere, con l’onore delle Armi, ai 41.000 effettivi dell’Esercito Britannico, composto quasi interamente da indiani, etiopici e sudafricani. Trattati malissimo.

Il Duca Amedeo d’Aosta non tornò vivo in Italia, morendo di tisi e malaria a Nairobi nel marzo ’42. Zio Gilberto venne rinchiuso nel campo di prigionia britannico a Nanyuki, in Kenya, alle pendici dell’omonimo Monte, di cinquemila metri d’altezza. Ma sopravvisse e nel 1947 era finalmente di ritorno, quando pochi ormai lo davano per vivo. Rimase a Torino per tre-quattro mesi e poi ripartì. Riuscì, chissà come, a tornare in Etiopia, dove si stabilì e quasi non fece più avere notizie di sé.

Fino al 1974, quando prese il potere ad Addis Abeba il marxisteggiante Mengistu, il capo dei giovani ufficiali del Derg, che fece imprigionare e poi uccidere il Negus Hailé Selassié, che sempre aveva protetto gli italiani dell’Impero. L’aria per gli italiani, seppur non formalmente espulsi, ma ai quali venivano confiscati molti beni, divenne irrespirabile. Le persecuzioni, le requisizioni, le arbitrarietà burocratiche erano divenute quotidiane, insopportabili. Cosicché un giorno del 1976 arrivò un telegramma a mio padre dal fratello che non rivedeva da quasi trent’anni:

“Causa noti eventi, farò rientro in Italia con mia famiglia prossima settimana. Ringrazio anticipatamente per appoggio e temporanea ospitalità. Gilberto”.

Il telegramma gettò nella incredulità e poi nella costernazione la mia famiglia. Dal 1947 non sapevano praticamente nulla di lui, né che si fosse sposato. Aveva mandato due o tre cartoline di Buon Natale in trent’anni.

– “Si è ammalato di mal d’Africa. Succede”, aveva tagliato corto mio padre, che mai era stato particolarmente legato al fratello, quando chiedavamo sue notizie. Si era “insabbiato”, come tanti.

Adesso, però, zio Gilberto, spinto dalle circostanze, tornava. Con moglie e, probabilmente, dei figli. Quanti? Di che colore? Che cosa avrebbero fatto in Italia? Dove li avremmo provvisoriamente sistemati?

Una crescente agitazione s’impadronì di mia madre. Mio padre ostentava maggior sicurezza o spirito fatalistico. Era imbarazzato, tuttavia considerava suo dovere assistere il fratello in difficoltà. Ne aveva già passate tante, povero Gilberto, che ci mancava solo quest’ultima,  pensava e commentava.

Giunse il giorno dell’arrivo dei profughi, in treno, dopo essere atterrati a Roma. Mio padre non rivedeva il fratello da ventinove anni e per tutto quel tempo neppure aveva ricevuto delle sue fotografie. Essendo zio Gilberto del 1920 i conti erano presto fatti. Aveva già cinquantasei anni.

Eravamo tutti curiosi e tesi all’inizio del binario undici della stazione di Porta Nuova, aspettando il treno proveniente da Roma. Finalmente il convoglio arrivò, cominciarono a scendere i passeggeri, fino a che un gruppo alquanto numeroso non ci fece sospettare il peggio, che puntualmente si confermò.

Guidato da un cinquantenne brizzolato di bella presenza e dalla moglie abissina, con circa  vent’anni di meno, seguivano i genitori ben sette tra maschi e femmine. Di tutte le età. Dopo un po’ d’incertezza e l’abbraccio di rito, zio Gilberto si volse alla figliolanza:

– Questi sono gli zii ed il cugino Paolo di Torino, dei quali vi ho già parlato.

– Te li presento, Alfonso – disse quindi a mio padre.

– Vittorio, di quattordici anni – Vittorio avanzò, inchinò rispettosamente il capo e sbattè i tacchi, all’uso militare, in silenzio, poi retrocedette senza voltarsi.

– Bruno, di dodici – Con analogo inchino e sbatter di tacchi.

– Edda, di dieci – Avanzò come i fratelli, piegò la testa bruna, senza sbattere i tacchi.

– Romano, di otto. Ed a quel punto ricominciarono inchini e sbatter di tacchi sulla pensilina. La gente ci guardava, mia madre era rossa in viso.

  Arnaldo, di sette. Come sopra.

  Annamaria, di cinque – senza sbatter di tacchi.

  Rachele, di quattro.

  Per ora abbiamo finito. Salutate:

  Buona sera, zii, grazie! – tutti i bambini all’unisono.

– Riposo, ragazzi.

La faccia di stupore, tra il rosso ed livido, lo sbigottito e l’incredulo di mia madre, muta come un pesce, era da pittura di Goya.

– Mia moglie, Abebech, Abe per la famiglia, anche lei, per fortuna, sopravvissuta al “Terrore Rosso” scatenato da quel pazzo criminale di Menghistu. Suo padre è stato ucciso perché faceva parte della Casa Imperiale. Mia suocera è ancora ad Addis Abeba, ma spero possa raggiungerci

presto.

Mia madre si presentò e baciò nuovamente la cognata.

– Dove li mettiamo tutti a dormire? – le sentii sussurrare, preoccupatissima, a mio padre.

– Non lo so. Ci aggiusteremo.

Fu l’inizio di un divertente inferno. Io, con la scusa di lasciare spazio libero, mi trasferii subito a casa di amici.

Il racconto dei primi giorni della famiglia africana di zio Gilberto a Torino, fattomi da mio padre, che non perdeva mai un fondo ironico e disincantato, era magnifico:

– Per tuo zio Gilberto il tempo si è fermato. Non capisce l’Italia di oggi. Ha dato ai figli tutti i nomi dei figli e fratelli del Duce. Ignora il lei ed usa soltanto il tu ed il voi. Non fa il saluto fascista, per fortuna, ma non dà la mano a nessuno. In famiglia vige un regolamento militare. Quando escono con il padre, i figli marciano inquadrati in fila per due. I maschi vestiti tutti allo stesso modo, con una specie di divisa da boy-scout, le femmine pure, da Piccole Italiane, con camicetta bianca e gonna nera. Li guardano tutti. Per fortuna hanno fatto la Scuola Italiana ad Addis Abeba e non dovrebbero avere difficoltà ad inserirsi nella scuola di qui…

– Come dormite?

– Abbiamo tirato fuori i letti pieghevoli, i materassini da spiaggia, una brandina ce l’ha prestata la vicina del piano di sotto, un’altra, la signora vedova del sesto. Nel tuo letto, che è grande, abbiamo sistemato gli zii. I bambini sono sparsi ovunque. Bambini meravigliosi, obbedienti. Quando li si chiama rispondono subito: “comandi, papà, o comandi, zio!”. Ai maschi il padre non esita a minacciare il courbash, una specie di frustino di pelle di rinoceronte. Non credo proprio ne abbiano bisogno. Forse l’han sentito sulla pelle solo una volta e neppure tutti. Solo a sentir nominare quello strumento i bambini impallidiscono!

– Mamma mia!

– Come profughi hanno la precedenza nell’assegnazione di una Casa Popolare. Dovrebbero, han detto a Gilberto, dargli anche una licenza per una rivendita di Sale e Tabacchi. Speriamo presto.

– Lo zio è riuscito a portare con sé un po’ di soldi?

– Quasi nulla. Ad Addis Abeba aveva un’officina meccanica con quindici operai, una casa grande con parco, una Mercedes. Tutto perduto.

– L’Africa non gli porta fortuna.

– No, eppure, spera di poterci tornare presto. Ne è sempre innamorato. I bambini sono belli, quasi bianchi. Non dovrebbero avere problemi particolari d’inserimento.

– Ma dev’essere duro per loro essere costretti tra quattro mura…

– Lo immagino. Per giunta l’educazione fascista ricevuta in casa… Per fortuna i nomi non sono troppo compromettenti.

– In questo casino italiano se la dimenticheranno presto.

– Lo credo anch’io.

Passarono i mesi. Gli zii ottennero l’appartamento, sia pure piccolo per tutta quella nidiata, alla quale si aggiunse pure un’ottava figlia, Edvige, sempre per mantenere la tradizione mussoliniana tanto cara allo zio. Arrivò anche la licenza per la rivendita di Sale e Tabacchi. Io potei tornare a casa, dopo sei mesi.

Zio Gilberto e zia Abe non rividero mai più l’Etiopia. Zio Gilberto se ne andò ad ottantacinque anni, già diverse volte nonno, dopo aver coltivato fino alla morte la speranza di tornare nella “sua Africa”. Volle essere sepolto con la camicia nera. Lui era un “irriducibile”, anche durante la prigionia in Kenya. Per questo gli inglesi ed i servi degli inglesi lo avevano trattato peggio di un cane rognoso. Senza piegarlo mai.

Zia Abe continua a vivere a Torino con una figlia sposata. Sono diventati tutti torinesi, addirittura eccessivi. Mi risulta sempre divertente sentirli parlare in dialetto con i loro tratti esotici da “Faccetta Nera”, sia pur scoloriti per il… subalpino freddo!

Le bambine di un tempo, crescendo si son fatte bellissime. Ed intelligenti. In tre hanno frequentato  l’Università di Medicina, specializzandosi in Cardiologia, Oncologia, Endocrinologia. La più piccola si è laureata in Lettere. I maschi son diventati ingegneri, tutti.

Africa Orientale Italiana (A.O.I): 1936-1941

Ognuno ha trovato un suo spazio nella vita, senza raccomandazioni, per merito proprio.

RaccontoDi#Natale. Mio zio Gilberto, combattente fascista in Africa Orientale

Esuli Giuliani

Egea Haffner è la famosa bambina con la valigia di cartone e la scritta «Esule giuliana».

Per tutti gli esuli giuliani rappresenta una tragedia dimenticata e un crimine contro l’umanità sempre negato dalla sinistra nostrana: quello delle Foibe.

Egea Haffner é ancora in vita e nessun Presidente l’ha nominata Senatore a vita

LA STORIA DI EGEA SOPRAVVISSUTA ALLA TRAGEDIA DELLE FOIBE

«Sono proprio io la bimba con la valigia! Oggi vivo a Rovereto, grazie per avermi ricordata». Così, grazie ai social network, la bambina con la valigia, ormai foto simbolo dell’esodo giuliano-dalmata, trova un nome e un cognome.

… Egea Haffner è nata a Pola, Italia, nel 1941, sei anni prima del grande esodo che nel 1947 vide fuggire la quasi totalità dei 30mila abitanti della città, costretti all’esodo dalle persecuzioni di Tito, deciso a cancellare l’italianità dalle terre giuliane. Lei, però, fu costretta a partire già nel 1946: «Il primo maggio del 1945 – racconta infatti – la sera suonarono alla porta due titini, volevano mio padre. Lui chiese perché lo cercassero, ma i due lo tranquillizzarono dicendo che era pura formalità, dovevano condurlo al Comando per alcune informazioni.

Mio padre chiese se doveva portarsi dietro qualcosa, ma di nuovo lo rassicurarono, così uscì col vestito che indossava e una sciarpa. Sciarpa che giorni dopo i miei videro al collo di un titino… Da quella sera non seppi più nulla di lui. Avevo 3 anni e mezzo».Suo padre Kurt Haffner, 26 anni, probabilmente infoibato quella stessa notte nell’abisso di Pisino, era figlio di un ungherese di Budapest che a Pola – città mitteleuropea – aveva una gioielleria, e di una viennese, pasticcera a Pola. La mamma, Ersilia Camenaro, era invece figlia di un croato e di una istriana di Pisino:

«Sono e mi sento italiana – chiarisce Egea –, ma solo un ottavo del mio sangue lo è. Anzi, precisamente è istro-veneto». Sono i paradossi di quelle terre, da millenni crocevia di popoli che, incrociando i loro saperi, le hanno rese uniche per vitalità e fermenti culturali: «In casa parlavamo tedesco, italiano e ungherese».

Che colpa poteva avere il padre di Egea, con la sua oreficeria sulla via Sergia? Era italiano, era agiato e non era comunista, come migliaia di altri giuliani spariti nel nulla in quei giorni.

«I miei non si davano pace e speravano che lo avessero internato in qualche campo di concentramento. Per molti anni la nonna metteva da parte ogni sera un pezzo di pane, aspettando che facesse ritorno…».

Ma intanto bisognava scappare.

… Così diventavo l’esule giuliana 30.001». Un numero inventato per la foto, ma ancora più emblematico e straziante, perché «lo scrisse lo zio Alfonso per indicare il numero degli abitanti di Pola».

Una sorta di presentimento del fatto che presto la città intera si sarebbe letteralmente svuotata.

La bambina con la valigia ha poi proseguito quel percorso ad ostacoli che fu la vita di tutti gli esuli giuliani, portando sulle piccole spalle la guerra, la morte del padre, lo straniamento dell’esilio, il trasferimento da Cagliari a Bolzano e anni di ristrettezze in un retrobottega che fungeva da cucina e camerata insieme ai nonni e agli zii.

Ma come altri, ce la fece. Quel fotogramma, che porta sul retro la data, 6 luglio 1946, e il timbro del fotografo polesano di origini ungheresi Giacomo Szentivànyi, spuntò dai cassetti di famiglia quando il Museo della Guerra di Rovereto nel 1997 allestì una mostra per il 50esimo dell’esodo:

«Finalmente uscivamo allo scoperto! Ognuno di noi portò ciò che ci restava della nostra terra, io portai la mia foto di piccola orfana», il riassunto del dramma di un popolo.

Fonte:
https://www.avvenire.it/…/la-bimba-con-la-valigia-simbolo-v…

http://www.leganazionale.it/…/1039-la-pulizia-etnica-e-il-m…

Trieste italiana

Il 5 ottobre 1954 a Londra era stato firmato il Memorandum d’Intesa tra Italia, Jugoslavia, Gran Bretagna e Stati Uniti che, dopo nove anni da quel primo giorno di maggio del 1945 quando i partigiani jugoslavi di Tito e gli italiani della formazione partigiana comunista Osoppo erano entrati a Trieste proclamando l’annessione della città alla Jugoslavia rivendicando il diritto di conquista.

Per 40 giorni le bande di Tito, migliaia di partigiani giunti in città e nei comuni vicini, si erano date alla caccia agli italiani, non solo fascisti, devastando e uccidendo. I nomi delle strade erano stati slavizzati, fu introdotta la moneta d’occupazione, la jugolira, e spadroneggiò la Milizia di difesa popolare.

Un terrore rosso e una pulizia etnica che “sorpresero” le truppe Alleate che solo con un giorno di ritardo erano arrivate a Trieste rispetto ai titini.

Il Maresciallo inglese Harold Alexander solo pochi giorni prima si era reso responsabile della consegna ai partigiani di Tito, di sloveni, croati e serbi che si erano arresti agli inglesi, con il conseguente massacro di Bleiburg quando non meno di 50mila di costoro erano stati massacrati dall’esercito titino.

Ebbene, lo stesso Alexander (che era stato anche responsabile delle devastazioni a Firenze nell’agosto 1944) si sentì obbligato a comunicare allo Stato Maggiore interalleato che “il comportamento degli jugoslavi sia in Austria sia in Venezia Giulia provoca un’impressione molto sfavorevole sulle truppe alleate. I nostri uomini sono costretti ad essere spettatori spesso passivi di azioni che offendono il loro tradizionale senso di giustizia. Inoltre essi sentono che non intervenendo si rendono conniventi di tale comportamento”.

Il 10 giugno, dopo aspre trattative era stato raggiunto un accordo tra Tito e gli Alleati ed era entrata in funzione la Linea Morgan con la quale gli jugoslavi arretravano e Trieste e Gorizia passavano sotto amministrazione anglo-americana.

Seguirono quindi anni di continui tira e molla diplomatici, di manifestazioni di piazza in Italia e di tragedie e barricate a Trieste.

Per sbloccare la situazione ci vollero i moti del 1953, con i morti italiani, i feriti, le decine di arresti.

Come si giunse a ciò?

A luglio del 1953 il governo (l’VIII) del democristiano Alcide De Gasperi non ottenne la fiducia e fu costretto alle dimissioni.

Il nuovo governo, guidato dal democristiano di destra Giuseppe Pella (a giugno c’era stato il successo elettorale del MSI e dei monarchici), decise di risolvere la questione triestina cercando di costringere gli Alleati ad addivenire ad una soluzione politica.

Per far ciò Pella minacciò la mancata firma dell’Italia al trattato della CED (la Comunità Europea di Difesa).

Contemporaneamente giunsero voci dalla Jugoslavia, di una nuova “marcia di partigiani jugoslavi su Trieste” per giungere ad una totale annessione della Zona B.

L’estate 1953 divenne calda, con l’invio di forti contingenti di truppe italiane al confine e si arrivò all’apice della tensione con la Jugoslavia.

Gli anglo-americani, non abituati a prese di posizione dure dei governi italiani, si allarmarono e in autunno presero unilateralmente la decisione di cessare il regime del Governo Militare Alleato e di affidare l’amministrazione della Zona A all’Italia.

Nel tentativo di evitare altri problemi, addirittura si giunse ad un appello radiofonico alla calma fatto ai triestini dal Generale John Winterton, comandante del Governo Militare Alleato a Trieste.

Quelli che invece non avevano alcuna intenzione di stare alla finestra e tanto meno di cedere, furono gli jugoslavi che decisero di bloccare il confine tra le due zone A e B mentre centinaia di italiani clandestinamente provvedevano a fuggire dalla Zona B onde evitare di ritrovarsi nella situazione del 1945.

Contromisure degli anglo-americani: truppe consegnate nelle caserme mentre, il 4 Novembre, per la celebrazione della vittoria nella Prima guerra mondiale, il Presidente del Consiglio Pella, attorniato da migliaia di persone, si recò al sacrario di Redipuglia a rendere omaggio ai caduti in un tripudio di tricolori.

Lo stesso giorno, sfidando il divieto di Winterton di esporre il tricolore, l’architetto Gianni Bartoli, sindaco di Trieste, fece innalzare la bandiera italiana sulla torre comunale.

La rimozione della bandiera, il fermo di studenti che in piazza ne sventolavano altre, scatenò gli inglesi e iniziarono gli scontri che durarono giorni con migliaia di triestini che affrontarono gli inglesi che spararono, spararono mirando e uccidendo, inseguirono e percossero manifestanti fin dentro le chiese.

Ai funerali dei giovani uccisi partecipò una folla immensa e silenziosa.

Dopo la strage fatta dagli inglesi, il Generale Winterton fu convocato a Londra d’urgenza e altrettanto velocemente si aprì un tavolo di trattative.

A quel punto gli Alleati anglo-americani avevano fretta di uscire dalle sabbie mobili triestine. Ai primi di dicembre iniziarono le operazioni di sgombero dei militari anglo-americani.

Le trattative si svolsero a Londra, iniziate a febbraio del 1954, a maggio si raggiunse un accordo che apriva ad una soluzione; si giunse infine al 5 ottobre con la firma del Memorandum: Trieste tornava all’Italia. A Trieste la notizia rimbalzò alla radio e l’intera città scese in piazza per festeggiare.

Il 26 ottobre i bersaglieri furono i primi ad entrare in città mentre gli aerei dell’Aeronautica militare italiana partiti dalla base di Treviso sfrecciavano nel cielo e in porto ormeggiavano i cacciatorpediniere e gli incrociatori della Marina militare.

estratto da https://www.barbadillo.it/85709-effemeridi-26-ottobre-1954-quando-trieste-ritorno-allitalia/

Effetto MeFo

Nel sistema hitleriano, è la Banca centrale di Stato che fornisce agli industriali i capitali. Non lo fa  aprendo fidi, ma creando cambiali –  più precisamente tratte –  garantite dallo Stato, emesse da una impresa  fittizia Metallurgische Forschungsgesellschaft m.b.H, gli effetti  MeFo: “garantite” vuol dire che un detentore di effetti MefFo poteva chiederne lo sconto  – il rimborso  -alla REichsbank, che avrebbe dovuto stampare moneta creando inflazione, Di fatto, le imprese non chiederanno mai il rimborso, anche perché gli effetti MEFo rendono un interesse del 4%, e se li scambieranno come fossero moneta contante. Dei minibot  o  piuttosto mega-bot  a circolazione interna.

Lo Stato, dal canto suo, pagava con questi effetti le commesse pubbliche che ordinò con grande lena alle  imprese private : a cominciare dalla autostrade, impiego all’epoca  innovativo. Ciò mise in moto il circolo virtuoso:

“All’origine, gli ordinativi dello Stato forniscono domanda  di lavoro, nel momento in cui la domanda è quasi paralizzata e il risparmio inesistente; la Reichsbank fornbisce i fondi necessari agli investimenti [con gli effetti MeFo]; l’investimento mette  al lavoro i disoccupati; il lavoro crea dei redditi, e poi dei risparmi, grazie al quale il debito a breve precedentemente creato può essere finanziato(ci si possono pagare gli interessi) e in qualche misura  rimborsato

(Così  l’economista britannico C.W. Guillebaud, “The Economic Recovery of Germany, 1933-193  – Londra 1939)

Con questo denaro creato dal nulla a beneficio del popolo anziché dei banchieri, la Germania è il solo paese che prospera nel gelo della recessione mondiale. La massa salariale passa dai 32 miliardi di marchi nel 1932, a 48,5  nel 1937.  I consumi alimentari aumentano (dai 42  chili di carne a testa nel ’32 si passa a 45, 9 nel ’37)  E ciò senza inflazione: l’indice del costo della vita, pari a 120,6   nel ’32, è salito nel’37 a 125,1.  E senza tassazione: il prelievo fiscale complessivo  sul reddito nazionale del Reich è tale, da far gridare d’entusiasmo se lo realizzasse un governo liberale e democratico: 27,6%.

Ora, è evidente che gli Effetti MeFo furono un debito pubblico mascherato, che non appariva nei bilanci e dunque non cadeva sotto la damnatio del  dogma  liberista. Ma come ha fatto Schacht ha far dare i salari a 7 milioni di operai, senza stampare moneta?

Schacht a Norimberga rispose: se la recessione mantiene inoccupate lavoro  e lavoratori, officine, materie prime disponibili, doveva esserci anche del capitale parimenti inutilizzato  nelle casse delle imprese. 

Col senno di poi, possiamo veder quanto aveva ragione: l’Italia deperisce sotto l’austerità europea,   mentre centinaia di miliardi dei risparmiatori restano nelle banche inutilizzati e retribuiti  a tasso negativo, (o sotto  i materassi) per mancanza di impieghi produttivi  in cui investirli.

QUANDO HJALMAR SCHACHT FU INVITATO IN INDONESIA..

A chi serve la TAV?

Non a caso Zbigniew Brezezinski, con chiarezza imperiale, ritiene che l’area attraversata dai Corridoi I, V e “dei due mari” sia il centro critico della sicurezza europea per: << L’obiettivo strategico fondamentale dell’America in Europa [ che] consiste quindi, molto semplicemente, nel rafforzare, attraverso una più stretta collaborazione transatlantica, la testa di ponte americana sul continente euroasiatico, in modo che un’Europa allargata possa servire a estendere all’Eurasia l’ordine

Fonte: Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Zbigniew Brzezinski (1998).

Mia Sovrapposizione dell’area critica (linea nera) sui corridoi transeuropei programmati sul territorio italiano.

La facilità e la rapidità di dispiegamento militare rendono infatti le installazioni continentali in grado di fornire una pronta risposta alle crisi locali ed alle necessità di intervento che si verificassero. Il dispiegamento rapido nelle aree di crisi non necessita quindi di una rete di installazioni e di una presenza stabile sul territorio quanto piuttosto di accordi di utilizzo delle installazioni in caso di necessità ed altre facilitazioni. La presenza militare all’estero assume quindi un’importanza soprattutto locale, maggiormente connessa al controllo territoriale ed alla possibilità di influenzare le politiche di difesa dei paesi ospitanti. La presenza militare estera degli Stati Uniti assume quindi un dispiegamento su scala globale, estendendosi a gran parte dei paesi mondiali, ed un’attività a scala macro-regionale, essendo destinata a risolvere problematiche che potrebbero svilupparsi contemporaneamente ed in differenti paesi >> (11)

ll Rimland dell’Eurasia comprende le terre della fascia esterna: l’Europa costiera, i deserti d’Arabia e del Medio Oriente, l’Asia dei Monsoni. E’ uno spazio cerniera tra le potenze di mare e quelle di terra, che può essere attaccato da entrambe ma che, nello stesso tempo, consente di dominarle, dato che rappresenta il teatro di scontro. Il controllo del Rimland può garantire la possibilità di neutralizzare il potere dello Heartland…chi domina il Rimland domina l’Eurasia. Chi domina l’Eurasia ha in mano i destini del mondo.

http://www.conflittiestrategie.it/tav-corridoio-v-nato-e-usa-dalla-critica-delleconomia-politica-al-conflitto-strategico-di-luigi-longo

 

Vittoria di chi?

Eppure, l’Armata Rossa si è opposta praticamente da sola ai nazisti dal 22 giugno 1941 fino all’invasione della Normandia, e il ruolo dell’URSS nello stesso D-Day è stato enorme. Il successo del D-Day è stato possibile solo grazie alla spinta straordinaria dell’Armata Rossa da Stalingrado fino al fiume Elba nei due anni che sono seguiti alla vittoria di Stalingrado del 2 febbraio 1943.

Solo 11 divisioni della Wehrmacht hanno combattuto gli alleati in Normandia, ma contemporaneamente 228 divisioni naziste stavano combattendo l’Armata Rossa ad Est. Mentre avveniva la Battaglia della Normandia, l’Armata Rossa otteneva una vittoria molto più importante con l’Operazione Bagration, quando l’ultima grande concentrazione di armate di Hitler veniva annientata in quella che oggi è la Bielorussia.

È stata inoltre l’Armata Rossa a liberare i più grandi e terribile campi di sterminio nazisti, inclusi Auschwitz, Majdanek, Treblinka e Sobibor. Ma i leader occidentali e gli alleati NATO rimangono unanimemente zitti a riguardo di questo dato cruciale (ricordiamo purtroppo che l’italiano Benigni è riuscito a fare di peggio nel suo film-capolavoro La vita è bella, dove sono gli americani – e non l’Armata Rossa – a liberare Auschwitz, NdVdE).

Nel 2015, il governo Polacco ha vergognosamente escluso il Presidente Putin dalla cerimonia per il 70° anniversario della liberazione di Auschwitz. L’ex Primo Ministro ucraino Arseniy Yatsenyuk ha perfino sostenuto che l’Ucraina è stata invasa sia dalla Germania Nazista che dall’Unione Sovietica (la verità è che l’Armata Rossa ha liberato Kiev) e che le forze ucraine avevano liberato i campi di morte per conto loro. Si tratta di una grande bugia, degna del Ministero della Verità di George Orwell.

Questi atti provocatori e meschini, accolti con uguale entusiasmo dai neoliberisti e dai neoconservatori americani, sono serviti solo a inasprire ulteriormente i Russi nei confronti dell’occidente.

Un sincero e generoso riconoscimento del ruolo di leader che i sovietici hanno avuto nella vittoria del 1945 servirebbe a ricordare quanto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sono stati in grado di realizzare insieme nel loro trionfo congiunto sul fascismo. Ricorderebbe agli Americani e ai Russi quanto vitale sia per le due nazioni essere ancora alleate contro il terrorismo, il crimine internazionale, il traffico di droga, la schiavitù sessuale, i cambiamenti climatici e la proliferazione nucleare.

Onorare il grande e solenne anniversario del Giorno della Vittoria è semplicemente la cosa giusta da fare – dal punto di vista storico, morale e politico. Il Popolo Russo e i suoi alleati hanno pagato il prezzo colossale in termini di vite umane e sangue che richiedeva la vittoria della Seconda Guerra Mondiale. Disonorare la loro memoria è vergognoso.

Martin Sieff è stato per 24 anni corrispondente estero per il Washington Times e per United Press International, lavorando in 70 nazioni e raccontando 12 guerre. È specializzato in questioni economiche USA e globali.

http://vocidallestero.it/2019/05/21/perche-loccidente-dovrebbe-onorare-il-giorno-della-vittoria-della-russia/

Fascismi di ieri

La figura di Bottai è particolarmente interessante perché dopo essere stato per vent’anni tra i massimi dirigenti del Partito nazionale fascista con particolare riferimento alle politiche corporative, fuggì dal Paese essendo stato condannato a morte nel processo di Verona, si arruolò nella legione straniera e tornò in Italia solo dopo l’amnistia Togliatti. Nel ’51 sotto mentite spoglie lo troviamo direttore de “Il Popolo di Roma”, un quotidiano finanziato da Vittorio Cini per fiancheggiare il centrismo democristiano.  Morì nel 1959 e ai suoi funerali partecipò anche Aldo Moro il futuro propugnatore del compromesso storico, poiché suo padre, Renato Moro , era stato tra i collaboratori di Bottai. Insomma attraverso di lui si intuiscono tutti i percorsi carsici e nascosti della politica italiana che arrivano fino ai nostri giorni.

https://ilsimplicissimus2.com/2019/07/15/fascisti-di-ieri-oggi-e-domani/

Strage di Bologna

Per i periti, l’interruttore, simile ad un interruttore dei tergicristalli di un’auto, trovato l’estate scorsa dall’esplosivista geominerario Danilo Coppe nel mucchio di materiale di risulta che venne ammassato all’epoca della strage all’interno della caserma di Prati di Caprara, è compatibile con un interruttore di sicurezza artigianale realizzato da chi ha costruito l’ordigno e utilizzato per evitare l’esplosione durante il trasporto. Ma, trattandosi di un congegno artigianale, sarebbe stato difettoso.

Il reperto potrebbe, dunque, offrire un clamoroso riscontro a quanto ipotizzato dall’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga che, in un’intervista al Corriere della Sera, l’8 agosto 2008, parlò di un trasporto finito male: “La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese’ che, autorizzata dal ‘lodo Moro’ a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese – disse l’ex-ministro dell’Interno – si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo”. In definitiva l’ordigno all’interno della valigia sarebbe esploso accidentalmente mentre veniva trasportato.

Strage di Bologna, Mollicone-Frassinetti (FdI): “Ristabilire verità storica e giudiziaria. Interrogazione al governo per necessaria desecretazione documenti”

“La nuova perizia balistica richiesta durante il processo Cavallini sull’entità dell’ordigno causa della Strage di Bologna del 2 agosto 1980 smentisce quelle precedenti e su basi esclusivamente probabilistiche, si legge, “non si esclude però, in via ipotetica, che l’interruttore di trasporto fosse difettoso o danneggiato tanto da determinare un’esplosione prematura-accidentale dell’ordigno”.
Inoltre, l’ordigno sembrerebbe somigliare a quelli sequestrati durante l’arresto a Fiumicino nel 1982 a Margot Christa Frohlich, terrorista della rete Carlos legata a Thomas Kram, avvalorando quindi la tesi del terrorismo palestinese. La stessa Frohlich era presente a Bologna il giorno della strage.

Questa pista di indagini nacque grazie al lavoro, nella commissione Mithrokin, di Giampaolo Pellizzaro e altri che aiutavano il compianto deputato di AN Enzo Fragalà.
Pellizzaro e Matassa, nel 2006, depositarono la Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980 costruendo l’impianto per la pista cosiddetta “palestinese” o “teutonico-palestinese”.
La tesi è stata sviluppata anche da Priore e Cutonilli nel loro saggio “I segreti di Bologna”, dal già deputato componente della commissione Stragi Enzo Raisi nel suo “Bomba o non bomba” e dal giornalista Silvio Leoni.
L’esplosione sarebbe avvenuta durante il trasporto di esplosivo che sarebbe servito alla rete Separat per compiere un attentato in Italia su mandato del Fronte popolare per la liberazione della Palestina o frange estremiste al suo interno, come ritorsione per la violazione degli accordi mai ufficializzati tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e il governo italiano, il cosiddetto “Lodo Moro”, per il transito di armi sul nostro territorio.

Tesi che viene confermata dai documenti trasmessi dai servizi di sicurezza dei paesi del Patto di Varsavia, ora conservati presso gli archivi della commissione Impedian e inaccessibili per il pubblico dominio.
Per ristabilire la verità storica e giudiziaria, a fronte dei processi Cavallini e Bellini, presenterò un’interrogazione al governo per chiedere che venga dato libero accesso a tutti i documenti ora secretati relativi alla strage di Bologna e alle vicende connesse -lodo Moro, l’attività della rete di Carlos “lo Sciacallo” in Italia, i report Giovannone dal Libano dal novembre ’79 al 31 dicembre ’81- sia negli archivi del Copasir, che in quelli della Presidenza del Consiglio.

Porteremo avanti la ricerca di verità sulla Strage di Bologna sul sentiero tracciato da Fragalà, perchè dobbiamo alle vittime e ai loro parenti il raggiungimento di una verità assoluta sia giudiziaria sia storica sul vero scontro avvenuto sul territorio  italiano durante la Guerra Fredda.”

http://www.barbadillo.it/83389-strage-bologna-scoperto-linterruttore-nuovo-tassello-per-linnocenza-di-mambro-e-fioravanti/

D-Day

Per i vent’anni della commemorazione di quel giorno, Pompidou provò a far cambiare idea al Generale de Gaulle che ancora non ci volle andare. Per quali ragioni? Lo racconta Alain Peyrefitte: “Volete che io vada a commemorare uno sbarco, che doveva essere la premessa  d una seconda occupazione del paese? No, no, non contino su di me! Lo sbarco del 6 giugno è stato un affare anglosassone, dal quale fu esclusa la Francia. Erano ben determinati a stabilirsi in Francia come in territorio nemico, come avevano fatto in Italia e come si stavano preparando a fare in Germania! L’AMGOT era pronta a governare sovranamente la Francia, man mano che i loro eserciti avanzavano. Avevano stampato la loro moneta-falsa, che avrebbe avuto corso forzoso e si sarebbero comportati come in in un paese conquistato. Questo è esattamente quello che sarebbe successo se io non avessi imposto, si dico imposto, i miei commissari della Repubblica, i miei prefetti, i sub-prefetti, i miei comitati di liberazione! E volete che io vada a commemorare lo sbarco, quello che sarebbe stata la premessa di una seconda occupazione. No, no, non contate su di me, voglio che le acque si calmino, ma il mio posto ora non è lì! ” (Alain Peyrefitte, Era de Gaulle, volume 2, pp. 84-87)

Fu proprio de Gaulle che vietò agli americani di stabilirsi in terra di Francia. Perché, contrariamente a quanto crede la gente, cioè che gli americani amassero così tanto la libertà che vennero ad aiutarci per gentilezza, per generosità, volontariamente e per un ideale, gli americani entrarono in guerra non per amore della libertà, non per salvare gli ebrei dai campi di sterminio, di cui erano a conoscenza ma che consideravano solo una triste iattura per loro, ma perché Hitler aveva dichiarato loro guerra l’11 dicembre 1941.

Pertanto, fu giocoforza per loro venire a risolvere il problema in Europa per non aspettare che il Terzo Reich colpisse il suolo americano, appena che pronta la bomba atomica e i nuovi jet a cui stava lavorando tutto il complesso militare-industriale-tedesco. Lo sbarco non avvenne per amore della libertà, come hanno detto Macron e Trump .come gli imbonitori alla fiera, e come poi come ha ricordato Ruth Elkrief con fare solenne, ma perché gli Stati Uniti volevano farla finita con Hitler che aveva dichiarato guerra e poi arrivare a Mosca per mettere fine al regime sovietico.

Sappiamo che dalla fine della guerra con la caduta di Berlino e con la divisione del mondo che ne seguì a  Yalta – dove la Francia fu esclusa … – vinsero i partigiani e che la lotta contro l’impero bolscevico proseguì poi sotto forma di guerra fredda, ma conosciamo la storia.

Ma allora, chi è stato a cominciare la commemorazione del 6 giugno 1944, questo grande momento della storia di Francia, con cui gli Stati Uniti intendevano imporre il vassallaggio al paese?

Risposta: François Mitterrand …

Non sorprende che quest’uomo che, prima della guerra, era vicino a la Cagoule – un movimento di estrema destra – che abbiamo visto in una foto del 1 ° febbraio 1935 in compagnia di persone che portano uno striscione “Contro l’invasione dei meticci “- come si vede nel libro fotografico di Pierre Péan, Une jeunesse française: François Mitterrand. 1934-1947 (Fayard); che prende l’ascia che gli mette in mano lo stesso Maresciallo Pétain verso la metà del 1943 – foto dallo stesso libro … – uno che fu marechalista e Vichista, prima di diventare Giraudista, cioè uno che seguiva le mosse di  quel generale che fu l’uomo di paglia degli americani e che poi entrò nella resistenza della venticinquesima ora, dopo che la vittoria sovietica a Stalingrado aveva fatto capire che la guerra era finita. Non sorprende quindi che quest’uomo abbia esultato nel rappresentare l’unica linea a cui fu fedele in tutta la sua vita politica (oltre all’amore per se stesso): l’odio del generale de Gaulle.

È per il quarantesimo anniversario dello sbarco che François Mitterrand invitò Ronald Reagan a commemorare l’evento. Nel suo discorso al Musée du Débarquement de Utah Beach. si spinse fino a dire: “Salutiamo i morti tedeschi caduti in questa lotta” … Chissà cosa passava per la testa a François Mitterrand mentre celebrava questo progetto americano di vassallaggio della Francia, quando omise consapevolmente il nome del Generale de Gaulle, quello che fece scacco a questo progetto, e che invece non perse l’occasione di rendere omaggio ai soldati nazisti? Avremmo pure il diritto di chiedercelo …

Questa celebrazione avalla quindi la versione cinematografica del Il Giorno più lungo, che è un film di propaganda. È la fiction americana, la narrativa americana, la leggenda americana, il mito americano appoggiato dalla Francia che, più che mai, si accetta, si ama e vuole essere come quel Bourvil debole e avido, stupido e cretino, che non capisce niente di niente, con il basco schiacciato sul cranio e ride stupidamente allo spettacolo della virilità marziale americana. Questa è la versione che ormai fa legge.

Perché questa finzione s’imponga, bisogna cancellare quello che è stato: la leggenda respinge i fatti. Ora però i fatti sono testardi: questa fu una guerra mondiale, non vide solo americani contro tedeschi che combattono sulla testa dei tanti Bourvil francesi. Lo storico di Caen, Claude Quétel, di cui si parla in questi giorni per il suo libro sulla Rivoluzione francese che dice che sia stata completamente inutile, ha pubblicato il suo oracolo su BFM.

Ad una giornalista che gli ha chiesto quanti paesi sono stati coinvolti in questo conflitto, ha risposto … tre! Bisogna ricordare che quest’uomo, per tredici anni, ha presieduto la direzione scientifica del memoriale chiamato “per la pace”, che è una grande macchina per produrre e mantenere il mito americano, in buona parte con i soldi dei contribuenti. Il fatto poi che Claude Quétel abbia pubblicato Le Débarquement pour les nuls, nel  2014 fa venire il sospetto che non abbia letto – diciamo – per essere caritatevoli- riletto il suo libro!

Perché questa guerra l’hanno fatta gli alleati, che sono quindi oltre che americani, anche britannici, canadesi, australiani, neozelandesi, polacchi, belgi, cecoslovacchi, olandesi, norvegesi, francesi anche con il Commando Kieffer.  Prò non ci sono state altre vedette questo 6 giugno 2019, se non gli americani. Le decorazioni della Legion d’Onore sono andate solo agli americani. Non c’erano polacchi, canadesi, inglesi, neozelandesi che lo meritassero? Nessun belga? Nessun australiano? A meno che i distintivi non fossero finiti tutti, viste le recenti e generose distribuzioni di medaglie alla quadra di calcio francese – compresi quelli che non hanno mai giocato …

Nel suo discorso che ha letto come uno studente durante l’ora di Madame Trogneux,  Macron non ha potuto fare a meno di dare lezioni a Trump, in modo arrogante e sufficiente, facendogli sapere che “l’America non è mai tanto grande se non quando combatte per la libertà dei popoli”, in altre parole: non lo è altrettanto quando non costruisce muri per proteggersi dall’immigrazione messicana.

Il discorso è stato scritto per essere letto in tremolo. La penna oscura del presidente si è ispirata a un pastiche di Malraux, ma la pletora di aggettivi e di immagini che evocano alti e bassi, nebbie e sangue non sono bastate per creare qualcosa capace di trasportare l’ascoltatore. Resta il fatto che leggere un testo che scimmiotta Malraux non trasforma chi lo legge in un Generale de Gaulle. Soprattutto se l’attore inciampa nel testo, o se il suo negro ha scritto male, comunque: Macron ha effettivamente parlato della “poche de la falaise“. Giusta o sbagliata, con l’articolo o con l’articolo che mancava, anche se ha capito male, la sua ignoranza non ha compensato la colpa dello scrivano. In entrambi i casi, è colpa sua.

A mezzogiorno, dal mio ufficio, ho visto passare gli elicotteri di Trump. Ovviamente, nessun elicottero polacco, canadese, ecc.,. Poi li ho visti tornare anche da Colleville per il pranzo in prefettura. Questa volta, l’armada di Trump precedeva in cileo la carrozza di Macron.

La città era vuota, come dopo un’esplosione nucleare. Il dispositivo della polizia è stato hollywoodiano. Sotto casa mia c’è un college dove la campanella è stata sostituita da musiche scelte dagli studenti – come vuole  la demagogia partecipativa. Quel giorno, la musica non era la solita Pantera Rosa”, come capita spesso, ma i tre colpi dell’annuncio di Radio-Londra (la radio gollista!) seguiti dai versi di Verlaine, Les sanglots longs (mai usato dalla Resistenza in Normandia, ma solo nella Francia centrale).

Sulla costa, c’erano degli idioti che facevano finta di giocare alla guerra e, vestiti da soldati, guidavano vecchie jeep da collezione, avevano vestito da soldati anche i bambini. Mi hanno detto che qualche ragazzino più intelligente voleva le caramelle per salire e per fare un giro sulle autoblinde. Osceno. Birre, tazze, magliette, portachiavi, gingilli di merchandising sulla pelle di giovani soldati morti in suolo normanno. Tutto dimostra che dopo de Gaulle e grazie al socialismo di Mitterrand che ha legittimato il regno legittimo dei soldi, hanno vinto gli Stati Uniti: sul suolo del nostro paese tutto si può vendere, tutto si può comprare, possiamo fare soldi con qualsiasi cosa,  non c’è rimasto niente di sacro, dato che possiamo anche comprare e vendere i nostri bambini, e tutto passa sotto il nome del progresso.

Questo 6 giugno 2019, a Colombey-les-deux-Eglises, conosco qualcuno che deve essersi rigirato nella tomba …

Fonte : https://michelonfray.com

Link : https://michelonfray.com/interventions-hebdomadaires/le-6-juin-de-la-vassalisation?mode=video

Il testo di questo  articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte  comedonchisciotte.org  e l’autore della traduzione Bosque Primario